Chi siamo
SAN FRANCESCO E IL SULTANO: L’EREDITÀ DI UN INCONTRO CHE DURA DA 800 ANNI
Con il patrocinio della Regione Emilia-Romagna. Maria Pia Alberzoni, Professore Ordinario di Storia medievale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; Francesco Patton, Custode di Terrasanta. Introduce Andrea Avveduto, Giornalista, Responsabile Comunicazione Pro Terra Sancta.
San Francesco e il Sultano: l'eredità di un incontro che dura da 800 anni
Con il patrocinio della Regione Emilia-Romagna. Maria Pia Alberzoni, Professore Ordinario di Storia medievale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; Francesco Patton, Custode di Terrasanta. Introduce Andrea Avveduto, Giornalista, Responsabile Comunicazione Pro Terra Sancta.
ANDREA AVVEDUTO:
Bene, buonasera a tutti, grazie di essere qui, benvenuti a questo incontro dal titolo “San Francesco e il sultano: l’eredità di un incontro che dura da 800 anni”. Parleremo di questo semplice e straordinario incontro, accaduto ottocento anni fa, che dura ancora oggi. Con ogni probabilità, era il settembre del 1219 a Damietta: proprio dove il Nilo incrocia il mar Mediterraneo, due uomini si incontrano. Uno è cristiano, si chiama Francesco, è noto ai più, viene da Assisi; l’altro è musulmano, è il nipote del Saladino, è il sultano al-Malik al-Kamil. Durante la quinta crociata, accade qualcosa di semplice eppure di straordinario: durante i combattimenti, questi due uomini si incontrano. Sappiamo in realtà molto poco di quel faccia a faccia, perché le fonti che ci ha consegnato la storia non ci permettono di rispondere alla fatidica domanda: che cosa si sono detti? Che cosa è accaduto davvero? E le fonti geografiche che hanno popolato la storia degli ultimi anni, degli ultimi secoli, non ci permettono di dare con esattezza scientifica una risposta a questa domanda. E tuttavia, ancora oggi, nonostante le certezze siano poche, siamo qui a parlare di questo incontro straordinario tra due uomini, segno che qualcosa effettivamente è successo e che su questo è importante che non si spengano i riflettori della storia. A portarci oggi a Damietta, in Egitto, in quegli anni, sono due ospiti, due amici del Meeting da diverso tempo, che vado a presentare. Alla mia destra, la professoressa Maria Pia Alberzoni, docente di Storia medioevale all’università Cattolica di Milano. Possiamo dire, una delle maggiori esperte di francescanesimo in Italia: fa parte del Consiglio direttivo del Centro studi sul basso Medioevo di Todi; fra’ Francesco Patton, custode di Terra Santa, che interviene al Meeting per la seconda volta dopo il 2017, quando il Meeting propose una mostra sugli ottocento anni di presenza francescana. Vi stavo dicendo, appunto, che san Francesco si imbarca ad Ancona, probabilmente nel giugno del 1217. Dopo circa un mese di navigazione, sbarca ad Acri per giungere poi a Damietta, proprio accanto all’accampamento dei nemici. Nonostante tutti praticamente gli sconsiglino di recarsi dal sultano, incluso il cardinal Pelagio, la guida religiosa della quinta crociata, lui comunque decide di sfidare la propria vita per andare ad incontrare il nipote del Saladino. Non sappiamo quanto tempo san Francesco rimase dal sultano. John Toland sostiene venti giorni, però sono tante le domande che ricorrono su quell’incontro: perché Francesco decise di recarsi dal sultano e rischiare la sua vita per andare ad incontrare al-Malik al-Kamil? Perché venne lasciato incolume, nonostante fosse cristiano? A Francesco venne risparmiata la vita, ed era strano per un cristiano che non si era convertito e aveva incontrato il sultano. E, tutto sommato, perché dopo 800 anni siamo ancora qui a parlarne? Che cosa vuole dire? Vorrei porre queste domande alla professoressa Alberzoni, cui cedo subito la parola.
MARIA PIA ALBERZONI:
Grazie per questa introduzione. Concordo con il fatto che la singolarità di quest’avvenimento sicuramente ha destato lo stupore degli uomini di quel tempo e, in fondo, ancora oggi continua a stupirci. Perché? Perché si tratta indubbiamente di una iniziativa abbastanza insolita da parte di un frate, di un laico che veniva dall’Occidente, da una terra sicuramente meno ricca, meno prestigiosa dell’Oriente del tempo, e che intende semplicemente presentare la sua fede al sultano. Si tratta di un’iniziativa che ha destato stupore allora, e vedremo perché, e che continua a stupire anche noi, per gli esiti o comunque per le caratteristiche profetiche che mantiene, visto gli sviluppi attuali del dialogo interreligioso. Precisiamo però subito che non si trattò di un episodio di dialogo interreligioso: lo vediamo noi in quest’ottica anche perché sicuramente gli sviluppi che si sono verificati, gli sviluppi dell’ecclesiologia dopo il Concilio Vaticano II, con il pontificato di san Giovanni Paolo II e lo spirito di Assisi e le successive iniziative, hanno rimesso in primo piano quest’iniziativa piuttosto curiosa che a quel tempo ha destato stupore, ma poi era stata quasi accantonata. Avevo fatto una piccola verifica: nel 1919, per esempio, cento anni fa, questo centenario è stato perfettamente ignorato. Non c’era nessun motivo che lo rendesse in qualche modo attraente o significativo. Oggi, siamo invece qui a parlarne e vediamo di capire: io, almeno, cerco di dirvi i motivi che ho trovato d’interesse per me personalmente, innanzitutto, per ripensare e riprendere e cercare di capire questo episodio. Come già ha ricordato il dottor Avveduto, Francesco si recò a seguito dei crociati, molti ipotizzano che lui stesso avesse preso la croce, cosa non del tutto improbabile. Prendere la croce era come partire per un pellegrinaggio, e Francesco ha sempre avuto una sensibilità notevole per il pellegrinaggio o comunque per le occasioni che si presentavano per manifestare, per annunciare la fede cristiana, il Vangelo. Quindi, Francesco si reca in Oriente dove già c’erano dei frati minori, perché nel 1217 aveva inviato Elia con altri frati, almeno un altro frate, per dare vita ad una presenza francescana in Siria, comunque nel vicino Oriente. Quindi, Francesco si reca in Egitto dove trova suoi frati, lui è già accompagnato da un altro frate, Pietro Cattaneo, lo sappiamo: e con loro, probabilmente, non da solo, prende questa curiosa iniziativa. Certo, il cardinale legato, Pelagio, cui accennava prima Andrea Avveduto, ha fatto un po’ di resistenza, non riusciva a capire a che cosa servisse un’iniziativa di questo genere. Francesco era forse consapevole che non avrebbe sicuramente convertito il sultano, però non volle lasciar perdere quest’occasione, anche perché, sicuramente, al di fuori del mondo islamico era nota l’umanità di questo sultano, appunto al-Malik al-Kamil, che è passato alla storia anche per la sua curiosità culturale, a livello scientifico, per la sua umanità. Questo può essere stato un motivo che ha incoraggiato Francesco a prendere questa inedita iniziativa. Ci tengo da subito a dire che sia Francesco sia il sultano erano due uomini di fede, quindi, uomini che avevano ben chiaro che cosa valeva, che cosa era importante per la loro vita, da chi dipendevano, chi adoravano. Questo aveva dato loro un nome: uno era cristiano, l’altro era musulmano. E questo mi sembra importante per legare, come di fatto si lega, questo tema all’edizione del Meeting di quest’anno. Perché in effetti solo chi sa chi è, chi conosce il suo nome, può dialogare con un’altra persona. Il dialogo si fa tra due persone che hanno identità precise, e di questo Francesco si dimostra ben consapevole. E che cosa ha permesso, in fondo, che si sviluppasse una stima reciproca? Il fatto che tutti e due, sia Francesco che il sultano, hanno messo in gioco la loro vera identità, identità che si basava sulla fede in Dio, nel Dio unico, nel Dio dei cristiani o nel Dio degli islamici. Ma questo non ha creato – qui vedo un aspetto eccezionale – un ostacolo all’incontro. Anzi, se riflettiamo e leggiamo le fonti, le fonti coeve, innanzitutto, capiamo che quello è stato il punto d’origine, il punto che ha permesso l’incontro di queste due persone. Ora, nell’immediato, questa iniziativa non sembra avere avuto un successo visibile. Anche le fonti e i testimoni oculari dicono che sì, è andato, il cardinale ha fatto resistenza ma lui è andato e ha parlato, però non ha ottenuto quello che voleva, la conversione, o comunque non ha fatto gesti eroici. Non ha ottenuto il martirio. Ma questo non era il fine di Francesco. Francesco non ha proprio l’interesse che ha sempre dimostrato per le creature, per il creato, per gli altri uomini. E questa è stata la cosa che ha stupito di più i contemporanei, perché l’hanno visto tornare indietro sano e salvo, cosa sostanzialmente inattesa, inspiegabile e forse insperata. E hanno anzi capito che per Francesco qualcosa era cambiato, e forse era cambiato anche per il sultano. Che cosa era cambiato? Beh, difficile dirlo. Si vedono degli esiti nella regola stessa di Francesco. Francesco ritorna dall’Oriente verso il settembre del 1220 e in quegli anni deve subito mettersi a scrivere una sua regola. E che cosa scrive? In questa regola, che poi non ebbe l’approvazione papale, la regola del 1221 – quindi, capite, poco dopo il ritorno dall’Egitto -, dedicò un capitolo intero, il XVI, alla predicazione dei frati che vanno presso i saraceni e al modo di predicare ai saraceni, agli infedeli. Ora, una regola monastica che dedica un capitolo intero alla possibilità che i frati vadano presso gli infedeli, capite che già costituisce una rivoluzione, un ribaltamento, un nuovo modo di vivere la vita religiosa: non più chiusi in un convento ma nel mondo intero, aperti al mondo e addirittura con una propensione, potremmo dire, a raggiungere, a incontrare i cosiddetti infedeli. Che cosa dice Francesco in questo capitolo della sua regola? Indica ai frati due modi di predicare agli infedeli. Quali sono? Il primo: lui dice di “comportarsi spiritualmente, cioè senza liti e dispute, ma che i frati siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani”. Vedete che l’identità non è mai nascosta, è sempre in prima linea. E poi, il secondo modo che è molto interessante: “Quando vedranno che piaci a Dio” – quindi, i frati non devono andare a martellare gli infedeli e i saraceni con l’annuncio, ecc. – “annunzino la parola di Dio perché essi credano in Dio onnipotente, padre, figlio e spirito santo. Queste e altre cose che piaceranno al Signore possono dire ad essi e ad altri, poiché, dice il Signore nel Vangelo, chi mi confesserà davanti agli uomini anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli”. E il fatto che questa indicazione, questo capitolo della regola non sia rimasta lettera morta, ma abbia avuto una sua attuazione, ci è testimoniato da un’importante cronaca sempre contemporanea del 1223 circa, dove l’autore dedica un capitolo alla predicazione dei frati minori, un ordine che era appena nato. La loro predicazione si svolge anche verso gli infedeli, presso i saraceni. E l’autore racconta come tutti siano interessati a questa predicazione. La predicazione è un grande strumento di comunicazione che si sviluppa soprattutto nel XII, XIII secolo, e costituisce una rivoluzione nelle comunicazioni, un po’ come oggi sono i messaggi ripetuti che noi incontriamo. Quindi, la predicazione era la cosa che attirava, e attirava anche i saraceni. Questo autore, che è un ecclesiastico, scrive: “Non soltanto i fedeli di Cristo ma perfino i saraceni e gli uomini ancora nelle tenebre, quando essi vengano intrepidi da loro a predicare, pieni di ammirazione per la loro umiltà e perfezione volentieri li accolgono e li provvedono del necessario con animo riconoscente. Del resto, i saraceni stanno ad ascoltare molto volentieri tutti i predetti frati minori mentre annunciano la fede di Cristo nella dottrina evangelica”. Notate, non c’era un censura nemmeno nella predicazione del Vangelo ai saraceni, come fa Francesco davanti al sultano; solo se i frati, nella predicazione, cominciano a contraddire apertamente Maometto, allora i saraceni non li ascoltano più. Lo trovo veramente sorprendente, mi sembra che questo risponda un po’ alla domanda che mi è stata posta, l’esito di questa apparentemente poco significativa impresa di Francesco che ha una evidente ricaduta nella sua esperienza e quindi nell’esperienza degli ordini dei frati minori.
ANDREA AVVEDUTO:
Si, un’impresa che, l’allora vescovo di Acri, Giacomo de Vitry, definisce “senza molto frutto”. Lo scrive nel 1220, circa un anno dopo l’incontro avvenuto tra Francesco e il sultano. Ma allora, se anche per il vescovo di Acri fu un incontro senza molto frutto, qual è la novità che porta questo incontro in Terra Santa?
FRANCESCO PATTON:
La novità è che questo incontro di fatto permise poi il radicamento della nostra presenza francescana in Terra Santa. L’unico ordine che da allora riuscì a rimanere ininterrottamente, e rimane ininterrottamente fino ad oggi, è proprio l’ordine francescano. Quindi, apparentemente può anche essere risultata una specie di predicazione “andata a vuoto”, in realtà è una predicazione che ha aperto una strada. Dirò di più, è una predicazione, o forse sarebbe meglio dire è un’esperienza, che ha poi permesso a noi di essere presenti lungo questi otto secoli, proprio con quello stile, che veniva citato poco fa da Maria Pia Alberzoni, nel capitolo XVI della regola non bollata. Di fatto, la presenza francescana si è radicata in Terra Santa in un contesto a maggioranza musulmana, come una presenza dove i frati, salvo in rare occasioni, hanno evitato di fare liti o discutere, cioè hanno evitato quel metodo di evangelizzazione che veniva praticato ed era il metodo della controversia, del voler convincere gli altri a tutti i costi. Si sono messi al servizio di tutti per amore di Cristo e, lungo i secoli, nel passato, uno di questi segni di servizio, fatto a tutti per amore di Dio, è stata la cura degli ammalati. Spesso noi leggiamo, nel nostro martirologio di Terra Santa, alla sera, i frati morti nel giorno successivo; e spesso sentiamo che il tal frate è morto, magari a 35, a 25 o a 27 anni, mentre curava gli appestati. Questo è un linguaggio che evidentemente ha avuto una sua eloquenza ed efficacia, e oggi questo essere al servizio di tutti per amore di Dio continua ad essere per noi fondamentale, continua ad essere un linguaggio comprensibile a tutti. E, penso, in modo del tutto speciale e particolare, a quella realtà che sono, per esempio, le scuole di Terra Santa che, di fatto, sono un luogo dove noi ci mettiamo a servizio della popolazione locale, cristiani e musulmani, e, di fatto, diventano anche un luogo in cui questo linguaggio viene compreso, tant’è che le scuole di Terra Santa sono molto ben volute dalla popolazione musulmana, lì dove noi siamo presenti. Molte delle nostre scuole hanno circa il 50 per cento degli studenti cristiani e il 50 per cento di studenti musulmani; però ci sono dei casi, come quello di Gerico, in cui il 96 per cento degli studenti sono musulmani e solo il 4 per cento cristiani. Eppure, la scuola di Gerico è un segno di questo essere a servizio di tutti per amore di Dio ed è un segno che ci permette di avere a Gerico una relazione molto buona con la popolazione musulmana. Vedere le famiglie musulmane che si affezionano a una realtà come la scuola di Terra Santa, vedere lo stesso imam del Paese che viene in tutte le occasioni ufficiali – sia la graduazione o l’accensione dell’albero di Natale o altro -, questo tipo di indicazione che Francesco ci ha dato, di fatto ci ha permesso di radicarci, sempre, però, con un’identità chiara. “Confessino di essere cristiani”: noi siamo generalmente conosciuti e riconosciuti, e anche gli stessi musulmani che hanno con noi, nei vari posti dove siamo presenti, un rapporto molto familiare ci chiamano “abuna”, che vuol dire padre. C’è una relazione di rispetto e, oserei dire, di affetto. Poi, naturalmente, questo lungo i secoli ci ha anche allenati a prestare attenzione alle occasioni che il Signore ci offre per far crescere ulteriormente questo tipo di relazione; e questo succede in vari modi e vari luoghi. Succede non solo nei confronti del mondo musulmano ma anche nei confronti del mondo ebraico, perché oggi per noi vivere in Terra Santa significa confrontarsi non solo con il mondo musulmano ma anche con il mondo ebraico. Il risultato di quell’incontro, di quell’esperienza, a prima vista può anche sembrare fallimentare. Ma se lo guardiamo con un altro tipo di sguardo e di respiro, scopriamo che quell’incontro di fatto ci ha permesso di essere presenti lì da otto secoli, all’inizio con un nucleo molto piccolo, germinale, e oggi con una presenza che è significativa dal punto di vista della presenza cristiana.
ANDREA AVVEDUTO:
Professoressa Alberzoni, abbiamo detto che le fonti su quanto accade in quel fine estate del 1219 sono poche e non ci permettono di definire precisamente che cosa è avvenuto. È anche vero che, da alcune cose che sono successe dopo, qualcosa possiamo desumere e quindi tentare in qualche modo di rispondere alla domanda: «Che cosa si sono detti?». Ha citato la regola non bollata, ha citato altri fatti che ci possono aiutare a far luce su quanto accadde. Vogliamo cercare di entrare un po’ di più in quella tenda?
MARIA PIA ALBERZONI:
Certo, cerchiamo di farlo per quanto è possibile. Già le cronache contemporanee, in particolare la Cronaca di Ernoul, che è la cronaca più loquace su questa vicenda, fanno cenno sicuramente al fatto che Francesco ha avuto il permesso di andare nel campo del sultano, è stato portato alla presenza del sultano – faccio l’elenco delle cose sicure -, ha parlato con lui, ha potuto confrontarsi: sicuramente ha parlato di questioni che riguardavano la fede. Perché lo sappiamo? Sia perché è l’intento che Francesco dichiara quando chiede il permesso di andare dal sultano, sia perché in quella Cronaca di Ernoul c’è un finale molto, molto bello, che vede il sultano che saluta Francesco chiedendogli di pregare Dio per la sua anima e che gli riveli qual è la vera religione che lui deve accettare, che deve professare. Quindi, c’è stato un dialogo sicuramente legato a questo tema. Non solo. Nella Cronaca di Ernoul, oltretutto, il cronista dice che il sultano alla fine apprezza pubblicamente il gesto di Francesco, ringraziandolo: “Ti devo gratitudine perché tu hai rischiato la vita per venire ad annunciarmi la verità, perché ti sei preoccupato della salvezza della mia anima”. Questa è una bellissima espressione che, in ogni caso, ci fa capire che l’argomento del discorso tra i due o tra i frati, il sultano e i suoi esperti della legge, riguardava proprio la fede. Inoltre, un’altra cosa di cui siamo certi è che il sultano avrebbe potuto effettivamente farli uccidere, come forse suggerivano i saggi della legge, quei saggi che si vedono così ben rappresentati nella Pala di Bardi, ma invece ha fatto ricondurre Francesco incolume al campo cristiano. Questo è sicuramente un fatto di grande rilevanza, che deve avere stupito molto i contemporanei. Nessun altro dell’esercito cristiano aveva osato – almeno nessun’altra persona che non fossero i capi militari – prendere un’iniziativa di questo genere. Un’altra cosa interessante, che dovette avvenire perché tutte le fonti la riportano, è che il sultano, alla fine, offrì doni a Francesco, quindi, un segno tangibile, diremmo noi, di gratitudine. Doni che potevano essere stoffe preziose, oro, argento, tutti beni che agli occhi degli occidentali erano la cosa più interessante, meravigliosa dell’Oriente. Le Mille e una notte in qualche modo rispondevano un po’ a questa immagine. Francesco non accetta questi doni ricchi che non avevano senso, però c’è quel corno di avorio – a tutt’oggi conservato nel tesoro della basilica di San Francesco ad Assisi – che in effetti, secondo una tradizione molto antica (all’inizio del Trecento già si dice che quel corno è nel Tesoro, quindi nel Duecento è arrivato ad Assisi), sarebbe stato un dono del sultano. I doni giungono fino a noi se chi li riceve li mantiene, li tiene in considerazione. Tante cose belle, purtroppo, se non sono considerate si perdono. Allora, mi piace pensare alla cura con la quale Francesco ha tenuto questo strumento che per lui era uno strumento di lavoro. Cioè, il sultano gli ha fatto un regalo adeguato perché Francesco, che gira continuamente, itinerante, e vuole predicare e raccogliere la gente attorno a sé, ha come strumento il corno. Troviamo in questo dono un segno della conoscenza e della stima che il sultano aveva di quello che Francesco realmente faceva, non è stato solamente un dono di occasione. Tutti questi motivi che vi ho detto – il fatto che è andato, che hanno parlato di fede, che si sono lasciati in un modo fraterno e, addirittura, con dei doni – sono cose certamente accadute, visto che più fonti, da punti di vista diversi, magari con accenti diversi, ma tutte ce lo testimoniano. Questo, diamolo per assodato. Poi, una cosa molto interessante sarebbe conoscere davvero cosa si sono detti: è un aspetto che, a parte la Cronaca di Ernoul, noi possiamo solo ipotizzare. Però, a mio parere, si possono fare delle ipotesi: non ho alcuna possibilità di essere sicura che sia accaduto così, però mi sembrano molto plausibili. Potrebbe essere andata così. La prima ipotesi: sappiamo che Francesco, nelle sue esortazioni più che prediche, spesso usava delle espressioni di lode a Dio Altissimo. Per esempio, per ritornare alla regola cosiddetta non bollata, quella del 1221, c’è un intero capitolo, il XXI, dedicato all’esortazione e alla lode che possono fare tutti i frati. In questo capitolo della regola, Francesco traccia un po’ un riassunto, una specie di schema delle esortazioni che i frati possono fare. L’esortazione dice: “Questa o simile esortazione e lode tutti i miei frati, quando a loro piacerà, possono annunciare ad ogni creatura e a tutti gli uomini con la benedizione di Dio. Temete e onorate, lodate e benedite, ringraziate e adorate il Signore Dio Onnipotente nella Trinità e nell’Unità, Padre e Figlio e Spirito Santo, creatore di tutte le cose. Fate penitenza, fate frutti degni di penitenza, perché presto moriremo. Date e vi sarà dato, perdonate e vi sarà perdonato. E, se non perdonerete agli uomini le loro offese, il Signore non vi perdonerà i vostri peccati. Confessate tutti i vostri peccati. Beati coloro che muoiono nella penitenza poiché saranno nel Regno dei Cieli. Guai a quelli che non muoiono nella penitenza perché saranno figli del diavolo, di cui compiono le opere. Guardatevi e astenetevi da ogni male e perseverate nel bene fino alla fine”. Si sentono qui già degli accenti che poi verranno ripresi da Francesco nel Cantico delle Creature: “Guai a quelli che morranno nei peccati”, ecc. Però, se voi notate, questo è uno schema di lode al Dio Altissimo, poi Francesco scriverà proprio anche le Lodi di Dio Altissimo, però più tardi, intorno al 1224, quando scrive anche il Cantico. Ma io penso che già da prima lui praticava questo stile di predicazione. Non solo, Francesco aveva composto anche una musica per cantare, per esempio, il Cantico di Frate Sole. Ritengo probabile che ci fosse anche una musica per cantare queste Lodi di Dio Altissimo. Io immagino – anche nel lavoro di preparazione della mostra ho rivissuto un po’ questa esperienza – Francesco e il frate o i frati che lo accompagnano, come si vedono in questa bellissima Pala di Bardi, mettersi a cantare le lodi di Dio, recitarle e cantarle. Perché Francesco aveva raccomandato a tutti i frati, alla fine della loro predicazione, di intonare canti proprio per coinvolgere, anche emotivamente, il pubblico. Comunque, il canto è sempre un’azione di lode bella, che coinvolge. E quindi, io ritengo che il suo discorso davanti al sultano, proprio per la ricorrenza di questi temi nell’autobiografia di Francesco, si sia fondato essenzialmente sulle Lodi di Dio Altissimo – una terminologia, fra l’altro, molto vicina a quella utilizzata dai musulmani -, che molto semplicemente abbia invitato tutti a lodare Dio per le creature, per la creazione, per il perdono, per il bene, ecc. Questo ovviamente non poteva trovare una preclusione o un’opposizione da parte del sultano. È molto interessante notare come il semplice Francesco che dice “sono un povero idiota” abbia trovato il medium ideale, cioè un tema sul quale ha coinvolto e ha potuto trovare l’accordo di persone di altre fedi. Ha trovato quello che unisce ed è riuscito a sottolinearlo, è riuscito a metterlo sul tappeto, senza rinnegare la sua identità. Questo è ancora più interessante, se pensiamo che proprio in quegli anni, cioè alla fine degli anni Venti del XIII secolo e all’inizio degli anni Trenta, abbiamo diverse testimonianze di teologi che scrivono al sultano. Il papa stesso, Gregorio IX, nel 1233 scrisse diverse lettere a sultani regnanti del Marocco e altre regioni dell’Africa settentrionale, invitandoli a convertirsi al cristianesimo. Ma il papa e i teologi scrivevano a questi uomini enunciando principi di fede, giustissimi, la dottrina, dove alla fine dicevano: «Convertiti perché questa è la verità». Ora, queste lettere dotte non hanno mosso molto gli animi, anzi, nella maggior parte dei casi non hanno avuto risposte significative. Interessante è notare come, invece, l’esempio di Francesco e il suo metodo abbia avuto un riscontro sicuramente più evidente e più stringente. Io ho visto in questa ipotesi, con la quale mi piace lasciarvi quest’immagine dell’incontro, un segno e un esempio molto interessante di come quello che muove non sono le parole o la teoria, quello che muove e interessa e facilita l’incontro è proprio l’esperienza. L’esperienza di un’umanità che si palesa come un’umanità rinnovata, nuova per la fede. Ecco, questo penso che fosse il contenuto dell’incontro tra Francesco e il sultano.
ANDREA AVVEDUTO:
Un incontro, lo abbiamo detto all’inizio, che dura da ottocento anni: in fin dei conti, l’incontro tra Francesco e il sultano è un incontro con l’altro e in Terra Santa, oggi, di altri possiamo parlare. Immagino che oggi il sultano non siano solo i musulmani ma anche gli ebrei. Lei, Padre custode, si trova a Gerusalemme, nella città dove convivono le tre grandi religioni monoteiste. Oggi incontrare gli altri significa in qualche modo incontrare tutti. Cosa significa per lei l’eredità di questo incontro? Cosa significa per lei incontrare? La professoressa Alberzoni ha parlato più volte nel suo discorso del perdono, qualcosa di difficile, forse, da trovare in Terra Santa, è molto sfidante come parola.
FRANCESCO PATTON:
Raccogliere l’eredità di un incontro vuole dire, prima di tutto, credere che l’incontro è possibile. Quando riflettiamo sul fatto che le cronache raccontano l’incontro, ma sostanzialmente parlano poco di quello che il sultano e san Francesco si sono detti, significa che ciò che più ha colpito non è ciò che si sono detti ma il fatto stesso che si sono incontrati. Questo a me sembra abbia un valore straordinariamente attuale. Oggi, lo sappiamo, c’è chi teorizza lo scontro di civiltà, sappiamo che c’è chi teorizza l’impossibilità di comunicare tra credenti di religioni diverse; c’è chi teorizza persino l’impossibilità di coesistere tra persone di culture diverse. Quell’incontro per me rimane come una pietra miliare, come una specie di parabola che Dio ci ha narrato lungo la storia attraverso Francesco e al-Malik al-Kamil, per dirci, invece, che l’incontro è possibile. Questo è tipico di Francesco, e vorrei evidenziare alcuni aspetti della sua spiritualità e del suo linguaggio. San Francesco abolisce la parola “nemico”, dice che l’unico nemico che abbiamo è il nostro concretissimo io egoista. Francesco, lo sappiamo, è quello che nella regola scrive che chiunque verrà da essi (cioè dai frati), ladro o brigante, sia accolto con benevolenza: quindi, non mi fa specie pensare a un Francesco che appunto incontra gente che è ai margini della società, il lebbroso (che è escluso anche fisicamente dalla società); non mi fa specie pensare a un Francesco che è disposto ad incontrare anche i criminali. Non mi fa specie un Francesco che pensa che perfino il lupo possa diventare frate Lupo e non mi fa specie neanche il pensiero che Francesco pensi di poter tranquillamente andare incontro ad un credente di altra religione. Ecco, questo oggi io lo ritengo particolarmente significativo. Se devo identificare una attualizzazione di questa parabola, diciamo anche un po’ mediatica, rivedo questa attualizzazione nell’incontro che c’è stato quest’anno ad Abu Dhabi tra papa Francesco e il grande Imam di Al-Azhar, quando insieme hanno sottoscritto quel documento che parla di fraternità tra cristiani e musulmani basandola su valori di tipo umano e religioso, e arrivando poi a tirare delle conseguenze anche molto concrete, come la necessità di rispettare la coscienza delle persone, la necessità di rispettare i luoghi di culto, la necessità di rispettare la pratica religiosa altrui, la necessità di garantire a tutti il diritto di cittadinanza, la necessità di superare perfino il concetto di minoranza che viene spesso strumentalizzato per addurre una specie di senso di inferiorità. Ecco, mi pare che questa sia una parabola interessante che attualizza quell’incontro di otto secoli fa. E mi pare che sia una parabola che appunto, in un contesto dove si parla anche spesso e nuovamente di scontro di civiltà, proponga invece un’altra categoria che è quella dell’incontro di civiltà; che in un contesto dove sembra tornata di moda l’idea dell’uomo che è un lupo per l’altro uomo, venga invece riproposta l’idea che l’uomo è un fratello per l’altro uomo. Questo mi sembra assolutamente attualizzante quell’incontro. E poi ci sono anche gli incontri che non vanno sotto i riflettori e che non ricevono questo stesso risalto ma che fanno vedere come la collaborazione è per il bene della persona. Tra pochi giorni, sarà ospite qui al Meeting monsignor George Abou Khazen, che è vescovo di Aleppo. Qui, circa un anno fa, è partito un progetto di aiuto ai bambini che sono nati e cresciuti durante la guerra, per aiutarli a superare il trauma della guerra. È un progetto che ha visto lavorare insieme, grazie anche alla collaborazione tra monsignor Abou Khazen e l’imam di Aleppo e i frati della comunità di Aleppo, cristiani e musulmani, specialisti di varie discipline per il bene di bambini. Quelli di Aleppo Est, prevalentemente cristiani, quelli di Aleppo Ovest, chiamati gli “orfani della jihad” perché sono figli dei jihadisti che, o sono morti, o sono poi scappati nella regione di Idlib, che nessuno voleva, dei quali nessuno si voleva occupare. Questa collaborazione permette a circa un migliaio di bambini di vivere questo tipo di programma che li aiuta a recuperare, non l’infanzia perduta, che è impossibile, ma la possibilità di una vita anche serena e il superamento di un trauma qual è quello di essere nati, cresciuti durante la guerra e aver visto solamente guerra. Ecco, sono parabole che esemplificano come quel tipo di incontro possa animare ed ispirare oggi un altro incontro ancora più attuale, ma sempre e comunque per il bene della persona, sempre e comunque per il bene, in questo caso di bambini, in altri casi di poveri, di ammalati, di persone che diversamente non avrebbero speranza. Credo che in questo senso quell’incontro di allora, oggi sia straordinariamente attuale.
ANDREA AVVEDUTO:
Grazie, mi permetto di chiederle ancora una battuta perché voi, come frati francescani di Terra Santa, siete molto attivi nell’educazione, ed è forse la scuola il luogo dove vi si incontra più facilmente e dove vengono formate nuove generazioni che non hanno bisogno di parlare di dialogo, ma dove il dialogo si fa sul campo.
FRANCESCO PATTON:
Beh, evidentemente nelle scuole il dialogo è vita quotidiana. Volendo anche fare riferimento all’incontro tra san Francesco e il sultano, direi che quest’anno c’è stata anche una esperienza molto bella che è stata particolarmente forte, in una delle scuole di Terra Santa, la scuola di Betlemme, dove circa trecento studenti cristiani e trecento studenti musulmani hanno dedicato una settimana allo studio di questo incontro, aiutati ovviamente dai loro professori, a loro volta cristiani e musulmani. Hanno iniziato con la visione del docufilm sull’incontro tra san Francesco e il sultano, poi per gruppi si sono confrontati per trovare dei punti di incontro tra giovani cristiani e giovani musulmani, sempre accompagnati anche dai loro professori. Alla fine della settimana, hanno presentato alla scuola e alla comunità (ero presente anch’io, erano presenti naturalmente le loro famiglie) il risultato di questo loro lavoro e una specie di decalogo, dieci punti che secondo loro permettono non solo la collaborazione ma anche l’amicizia, la fraternità tra giovani cristiani e giovani musulmani. Ecco, la scuola favorisce questo, la scuola è un ambiente in cui questo è possibile, un ambiente in cui questo tipo di dialogo si estende dagli studenti alle famiglie, da un nucleo molto ristretto a quella che poi è una comunità di vita. Naturalmente le scuole sono il luogo dove si semina, e di conseguenza se si semina oggi non si può sperare di raccogliere i frutti tra due o tre giorni: la semina di elementi significativi da un punto di vista culturale richiede poi anni di lavoro, prima che si possano anche vedere e raccogliere i frutti. Però, ecco, nelle scuole si respira già, in buona parte, quello che è il frutto di un incontro reale, di un incontro che è un’esperienza quotidiana e di un incontro dal quale io spero si possa, anche in un domani, raccogliere frutti di sempre maggiore fraternità e, in questa prospettiva, anche frutti di pace.
ANDREA AVVEDUTO:
Grazie mille, lei ha raccontato come da una presenza germinale, come l’ha definita, siete arrivati ad essere più di trecento frati, se non sbaglio, divisi in otto Paesi del Medio Oriente.
FRANCESCO PATTON:
Più o meno, sì.
ANDREA AVVEDUTO:
In Terra Santa, quindi Israele e Palestina, ma la Terra Santa è un Paese molto più ampio, comprende una zona molto più ampia, la Siria, la martoriata Siria, appunto il Libano, la Giordania, l’Egitto, Rodi, Cipro. Il seme di questa custodia di Terra Santa, che poi verrà formalizzata dalla Chiesa nel 1343, iniziò due anni prima dell’incontro tra Francesco e il sultano, perché Francesco fonda la provincia d’Oltremare nel 1217. Chiedo alla nostra esperta di francescanesimo, professoressa Alberzoni, come nasce la Custodia: perché Francesco decide di fondare la provincia d’Oltremare?
MARIA PIA ALBERZONI:
Eh, questa è una bella domanda. Francesco aveva in mente che i suoi frati avessero come convento il mondo intero, quindi tende a mandarli ovunque. Il 1217 è un anno molto particolare, fra l’altro, perché era la scadenza prevista per partire per la crociata. Il Concilio lateranense quarto aveva fissato la partenza della crociata al 1217 e, guarda caso, in quell’anno sia Francesco sia san Domenico cominciano a mandare i frati fuori dalla Francia, dall’Italia, dall’Europa verso altri Paesi. Secondo me, c’è un collegamento. Francesco, appunto, invia frate Elia, e probabilmente qualche altro socio, sicuramente, perché i frati si spostavano sempre almeno in due, in Palestina, in Terra Santa, in Siria. Non si sa bene anche perché, sia in Italia sia altrove, i frati non avevano conventi, all’inizio, e si spostavano in continuazione con dimore molto precarie. Però, col 1217 comincia la presenza dei frati minori in Terra Santa, nel vicino Oriente, una presenza che appunto, incredibilmente, dura fino ad oggi, sebbene con passaggi un po’ diversi, perché noi abbiamo la presenza di una provincia, quindi dell’ordine dei frati minori, dal 1217, che è proseguita anche dopo il ritorno di Francesco in Italia, fino a quando ci sono stati la presenza di regni cristiani o di luoghi cristiani. In Terra Santa, l’ultimo a cadere fu San Giovanni d’Acri, nel 1291. Però, mentre tutti i cristiani sostanzialmente avevano abbandonato la Terra Santa, i frati rimangono. Questo è sicuramente un aspetto notevole: forse favoriti anche da questa loro mobilità, rimangono e continuano ad essere una presenza fondamentale per i pellegrini, ecco le opere di assistenza, e anche per i cristiani che ancora vivevano numerosi in Terra Santa. Così il papato nel Duecento, e anche poi in seguito, intravede proprio nei frati minori, e anche un po’ nei predicatori, ma soprattutto nei frati minori una forza incredibile. È interessante perché consente anche al Papa di giungere nei diversi luoghi della cristianità attraverso i frati. Comunque, i frati costituiscono dei messaggeri, i messaggeri ideali, proprio per l’esempio di Francesco che è andato incontro, non si è scontrato e ha potuto incontrare.
I frati da allora vengono mandati come emissari, portano messaggi a nome del papa, li portano nel vicino Oriente, portano messaggi dal 1245, portano messaggi verso la Mongolia, in Cina. E questa è una cosa che sorprende ancora oggi. Fra l’altro, sorprendono anche la tenacia e l’obbedienza di questi frati, perché vi assicuro che fare un viaggio come lo fece Giovanni da Pian del Carpine, da Lione fino a Khanbaliq (la capitale dei mongoli, l’attuale Mongolia), non era semplice. Erano viaggi che duravano un anno, viaggi terribili, passando attraverso diversi potentati. E non è che uno potesse viaggiare con il passaporto, per intenderci. Quindi, i frati diventano davvero i latori di messaggi ma anche ambasciatori del Papa, quelli più fidati per andare presso gli infedeli. Secondo me, la ragione la troviamo proprio nell’atteggiamento e nella regola di Francesco. Anche i frati che rimangono in Terra Santa sono considerati come i rappresentanti più fidati del Papa, ma non solo, come quelli che possono essere presenti e aiutare e incontrare, trattare con i vicini e con gli infedeli. E infatti, questa situazione viene poi formalizzata, riconosciuta ufficialmente nel 1342, quando il re di Napoli, Roberto d’Angiò, chiede al Papa che sia istituita la Custodia con precisi poteri e compiti propri della Custodia ai luoghi santi, nel sostegno ai pellegrini e ai cristiani del posto. Quindi, è veramente una storia notevole, come abbiamo sentito, che continua dal 1217 e poi dal 1342, una presenza veramente miracolosa. Grazie.
ANDREA AVVEDUTO:
Padre Patton, come attuale custode di luoghi santi, lei è il custode da tre anni, è il presidente in Terra Santa. Forse esco un po’ fuori dal tema dell’incontro ma, provocato da quello che è uscito, mi piacerebbe sentire davvero una sua testimonianza personale, perché per lei è importante ancora oggi, nonostante tutte le contraddizioni che viviamo quotidianamente in quella contesa Terra Santa, scommettere sull’incontro con l’altro, sul perdonare, sul seguire la regola che Francesco ha tracciato 800 anni fa?
FRANCESCO PATTON:
Beh, credo che ci sia una ragione per così dire pratica, e credo che ci sia una ragione di fede. La ragione pratica per me è molto semplice, l’alternativa all’incontro è lo scontro, e quindi l’alternativa alla pace è la guerra, l’alternativa alla riconciliazione è la spirale della violenza che cresce ed aumenta. Questa ragione pratica mi sembra già una buona ragione, ma poi c’è una ragione di fede.
E la ragione di fede è che io credo fermamente in Gesù Cristo, e credo fermamente che il Cristo si presenti a me nel volto del fratello, nel volto della sorella, non nel volto del fratello o della sorella che io scelgo di incontrare ma nel volto del fratello e della sorella che Dio mi fa incontrare. Nel testamento, Francesco dice che ad un certo punto il Signore gli ha donato dei fratelli, e l’idea appunto di fraternità che Francesco coltiva, l’idea di fraternità con la quale io stesso mi sento in sintonia, è appunto questa, che se una persona esiste, se una creatura esiste, è perché è voluta da Dio. E quindi il buon Francesco, il sognatore Francesco, mi insegna che io sono chiamato ad accogliere l’altro da fratello, sono chiamato a diventare fratello dell’altro, sono chiamato ad accogliere come fratello non solo quello che mi è vicino nella fede ma anche quello che mi è più lontano eventualmente nella fede. E sono chiamato ad accogliere come fratello persino quelle che sono le creature inanimate che mi parlano e, dice Francesco, “mi portano significazione di Dio stesso”. Ecco, la ragione più profonda è proprio questa ragione di fede, e credo sia questo anche il motivo per cui Francesco alla fine ha eliminato dal suo vocabolario il termine “nemico” e ha semplicemente adottato, per ogni persona e ogni creatura, il termine di “fratello”. Se io, per vocazione e per professione religiosa, davanti al mio nome porto questo nome, il titolo non di padre ma di frate, credo che nella mia vita in qualche modo dovrò corrispondere a questo titolo, a questa vocazione e a questo dono che Dio mi ha dato oggi in Terra Santa.
ANDREA AVVEDUTO:
Grazie. L’incontro di questa sera ha la sua origine nella mostra allestita qui al Meeting nel padiglione A3, proprio dedicata all’incontro tra san Francesco e il sultano, un incontro tra due uomini, una storia in fin dei conti semplice come sono semplici le storie che avete sentito questa sera, semplici ma straordinarie storie che forse la Storia ha ancora bisogno di sentirsi raccontare qualche volta, per poter tornare a sperare, soprattutto in Medio Oriente. Sono i gesti dei piccoli in fin dei conti che fanno sperare, gesti e incontri possibili, da un incontro possibile a degli incontri, possibili solo grazie all’eliminazione di quella logica che diceva proprio lei, fra’ Francesco Patton, che elimina la logica dell’homo homini lupus e la sostituisce con la logica dell’homo homini frater, cioè uomo, fratello per l’altro uomo. Io credo che in fin dei conti sia questo che abbiamo voluto raccontare con la mostra, con l’incontro di questa sera, è quello che ci ha testimoniato papa Francesco nell’incontro ad Abu Dhabi di marzo scorso e in qualche modo quello che cerca di fare anche il Meeting. Un incontro però reso possibile anche da un’identità, come ci ha ricordato la professoressa Alberzoni: non a caso, la mostra si chiude con una frase dell’allora cardinale Ratzinger, che dice che il vero nemico del dialogo non è l’identità religiosa ma l’emancipazione da Dio. Questo è il vero punto che impedisce il dialogo, e allora un dialogo è possibile, reso possibile grazie all’identità e a questa logica che Francesco ci ha insegnato andando ad incontrare, ottocento anni fa, il nipote del Saladino, il sultano. Per questo, io ringrazio i nostri due relatori che ci hanno aiutato a fare un passo in più, sia nella consapevolezza storica che nell’approfondire quelli che sono i segni portati da questo incontro. Maria Pia Alberzoni, grazie. E fra’ Francesco Patton. Anche questo incontro, come tutte le cose che vedete all’interno dei padiglioni in questa settimana, è gratuito e necessita naturalmente del sostegno: chi lo vuole fare, può donare alle colonnine del fundraising, che sono allestite durante la mostra.
Grazie anche naturalmente a tutti voi che siete intervenuti, una buona serata e un buon Meeting.
Trascrizione non rivista dai relatori