Rocco Tolfa, vice direttore del Tg2, ha introdotto questo incontro sostenendo che “fare rete è il vero strumento per operare in modo competitivo nel mercato globalizzato: per questo è valido il modello dei distretti italiani, perché lo sviluppo dipende più da queste realtà che dalle grandi imprese”.
La prima relazione è stata svolta da Scott Stern, professore alla Northwestern University, che ha parlato del concetto di innovazione e della sfide che attendono su questa tematica lo sviluppo della competitività in Italia: “nonostante vi siano alcuni settori industriali e produttivi che continuano a prosperare, in Italia a fronte di un elevato livello di prosperità generale la crescita dell’economia è andata a rilento e c’è stata scarsa innovazione”. Secondo Stern “in Italia la trasformazione verso un’economia fondata sulla conoscenza procede troppo lentamente, il ruolo dell’innovazione non è centrale”, mentre “solo la sua crescita garantisce aumento della produttività e maggiore prosperità”. Citando i dati di un suo studio teso a comparare un indice di capacità innovativa tra diversi stati, Stern ha mostrato come “tra gli anni ’70 e il 2000 l’Italia ha mantenuto in modo stabile una posizione di secondo o terzo livello rispetto alla capacità di innovare, mentre nuovi Paesi sono venuti alla ribalta”. I limiti presenti in Italia in particolare sono “la mancanza di strategie appropriate, la scarsa presenza di capitale umano con competenze scientifiche e tecnologiche e l’eccessivo peso amministrativo per lo start up delle imprese”. Cruciale per l’Italia è quindi “investire in adeguate infrastrutture capaci di favorire l’innovazione e i collegamenti tra i diversi attori che di questa si occupano, tra cui le Università: investire di più in capitale umano anche internazionale e rafforzare politiche, come quella fiscale, che incentivino l’innovazione”.
Ashish Arora, professore alla Carnegie Mellon University, ha sottoposto all’attenzione del pubblico l’esperienza dello sviluppo nella produzione di software in India: “questo sviluppo è avvenuto di colpo, in modo improvviso, ed esiste tuttora la contraddizione di un Paese che esporta prodotti ad alta tecnologia ma rimane sostanzialmente povero”. Da questo punto di vista però “lo sviluppo di questo settore produttivo ha avuto un forte impatto indiretto sul resto dell’economia indiana, agendo come catalizzatore per i settori simili, rafforzando la reputazione del paese e incidendo sulle scelte del governo”.
Secondo Arora questo sviluppo è stato possibile perché “l’India ha continuato a investire e a mantenere contatti con i Paesi esteri anche quando l’economia andava male, ha formato persone con competenze specifiche e le imprese hanno operato senza sussidi statali e senza che il governo intervenisse più di tanto in questa dinamica”. Lo studioso ha poi raccomandato la necessità di “costruire sviluppo su ciò che esiste già, tendere all’eccellenza e non alla mediocrità ed essere aperti al mercato globale”.
Fabio Pammolli, direttore IMT di Lucca, è intervenuto parlando di innovazione nel campo delle scienze della vita evidenziando come “la ricerca scientifica è concentrata negli USA ma si sta espandendo in paesi emergenti come Israele e India”; l’Italia invece “deve fare ricerca più specializzata e in aree più rilevanti”. Da questo punto di vista secondo Pammolli “servono più fondi destinati alla ricerca ed anche una maggiore collaborazione tra le diverse istituzioni che sono impegnate nella ricerca, come avviene in altri Paesi: bisogna incentivare la selezione e la mobilità ed investire maggiormente nei giovani con alta formazione, anche internazionali”.
Salvatore Rossi, direttore servizio studi Banca d’Italia, ha ribadito che “l’Italia cresce poco” ma ha anche specificato che “rispetto a Francia e Germania l’Italia, che ha aumentato molto il tasso di occupazione negli ultimi anni, ha una produttività molto bassa”. Causa di questo sono “una produzione poco specializzata, che ha faticato ad adattarsi ad un mercato globalizzato e rivoluzionato nelle scoperte tecnologiche, e una scarsa crescita delle imprese”.
Secondo Rossi allora è opportuno “aiutare le imprese a crescere anche nella dimensione, dare e pretendere concorrenza, stimolare l’innovazione, produrre conoscenza e investire nell’istruzione, come accade negli USA”.
Alfonso Gambardella, professore all’Università Bocconi di Milano, ha esordito dicendo che “l’Italia è chiusa in una morsa: nei settori produttivi tradizionali subisce la competitività di Paesi con costo del lavoro più basso, mentre nei settori avanzati subisce la competitività di Paesi con capitale umano e sistemi innovativi più efficienti”. Gambardella ha poi affermato che “le specializzazioni produttive più importanti sono quelle che dipendono da esperienza, apprendimento e intelligenza, non quelle relative a risorse naturali”; ha proposto allora, per trovare nuove specializzazioni, di “promuovere un progetto di sperimentazione industriale su grande scala, attraverso lo sviluppo di nuove forme di imprenditorialità, la promozione della mobilità internazionale del capitale umano, la consapevolezza di partire da competenze esistenti e legando la sperimentazione al suo successivo consolidamento”.
Le conclusioni dell’incontro sono state affidate a Raffaello Vignali, presidente della Compagnia delle Opere, che innanzitutto ha rilevato che “i precedenti interventi hanno realisticamente descritto una situazione difficile per l’Italia, ma hanno anche evidenziato alcuni punti di forza presenti da valorizzare e su cui ripartire”. Dopo avere ricordato le difficoltà che hanno in Italia le imprese che vogliono crescere, Vignali ha evidenziato “lo scarso nesso che c’è tra infrastrutture e ambiente e l’eccessivo intervento dello Stato nel mondo delle imprese”. Altre problematiche sono rappresentate da “una ricerca spesso buona ma frammentata e nascosta, da un’Università chiusa in sé stessa e poco aperta al nesso con le imprese, dal fatto che si favoriscono troppo le grandi imprese, che l’istruzione è vista come costo e non come investimento, che c’è un sistema che sostiene le rendite di posizione e che si guardano le regole prima degli obiettivi”.
Per queste ragioni secondo Vignali bisogna imparare a “partire da quello che c’è, perché non si può innovare senza partire dalla realtà che c’è: bisogna favorire la creatività imprenditoriale iniettando fiducia negli imprenditori e bisogna liberare le energie presenti nella società”. E quindi “chi intuisce questo, cominci a muoversi, senza aspettare che tutto il sistema cambi”.