Siamo nel padiglione B5, nello spazio “Un caffè italiano”, si inaugura una serie di incontri di approfondimento in relazione alla mostra del Meeting dedicata ai 150 anni di sussidiarietà. “Un’occasione per studenti e professori, la preparazione di questa mostra – ha sottolineato in apertura Mattia Savoia, studente di Storia dell’Università di Milano – per domandarsi cosa ci sia stato di significativo in questi 150 anni di storia d’Italia, senza dare niente per scontato. L’Italia, abbiamo constatato, viene da lontano, ha un patrimonio culturale, una formazione civile che affonda le radici nei secoli precedenti, in un cristianesimo ben radicato nelle istituzioni civili”.
Danilo Zardin, professore ordinario di Storia moderna dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ha posto in evidenza “le radici profonde di una conoscenza profonda, di un senso d’unità, la conoscenza di un legame che teneva insieme tante realtà diverse, con un convergenza d’intenti che si è anche tradotta nella lingua, in una letteratura, in una tradizione religiosa”. Siamo di fronte, spiega lo storico, ad un tessuto estremamente variegato di tante piccole patrie, mille campanili, tante tessere inserite in un mosaico unitario. Una tradizione fatta anche di simboli, di immagini che hanno tradotto questa unità preesistente, “come la monumentale rappresentazione di un Italia come realtà a sé stante che si può ammirare nella Galleria delle Carte Geografiche nei Musei Vaticani”.
“All’interno della società italiana – ha poi sottolineato Edoardo Bressan, ordinario di Storia contemporanea dell’Università di Macerata – c’è un tessuto, una trama di opere, nate per rispondere alle esigenze che emergono dai bisogni sociali, dalle vecchie e nuove povertà”. Segue elenco a titolo esemplificativo: “Innanzitutto il tessuto delle opere pie, che vengono dal medioevo, come i grandi ospedali di Siena e di Milano, gli istituti di ricovero, i luoghi pii elemosinieri, gli orfanotrofi. Le inchieste dell’Ottocento ci dicono che erano più di 20mila”. Un welfare prima del welfare, che ha alle sue origini questa tradizione civile e religiosa. “La legislazione piemontese e poi italiana – prosegue Bressan – cercò di porre sotto controllo questo sistema con la legge Crispi del 1890, ma il risultato di fondo non cambiò, grazie agli statuti e alle consuetudini. Queste realtà continuarono ad operare e andarono a costituire il nuovo stato sociale”. Nelle loro relazioni a Roma i prefetti raccomandavano di non toccare queste realtà “per l’importanza che avevano in termini di assistenza e di crescita sociale”.
Marta Bocci, ordinario di Storia contemporanea nell’Università Cattolica di Milano, ha posto in evidenza quale sia stata “la nuova via per i cattolici, non più di opposizione ma di partecipazione al nuovo stato, divenuta una storia di condivisione, di aggregazione a livello nazionale a partire dal 1874-1875 attraverso la struttura e l’opera dei comitati cattolici, che pensava al futuro del Paese, lavorando nel Paese reale. Un soggetto di cui la stessa società liberale ha capito di aver bisogno”.