“Marta la dottoranda” (qualificata così, senza ulteriori riferimenti anagrafici) è la relatrice a sorpresa del secondo incontro di approfondimento della mostra “150 anni di sussidiarietà” nel padiglione B5. Una chiamata in correo da parte della professoressa Maria Bocci, ordinario di Storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano, per dimostrare con i fatti che “la storia contemporanea si fa anche senza di me”, come si è giustificata per aver dovuto posticipare di un’ora, alle 14.45, l’incontro a causa di un sovrapporsi di impegni.
In realtà la docente milanese ha voluto rendere partecipe il popolo del Meeting del prezioso, recente lavoro di studio della citata dottoranda sulle reti sociali attive sotto il fascismo. La ricerca storica sta infatti mettendo in luce aspetti finora sconosciuti o sottaciuti del periodo fascista e bellico: ad esempio l’impegno della Chiesa cattolica, in particolare da molti vescovi tra cui l’ambrosiano Ildefonso Schuster e il genovese Pietro Boetto, per proseguire l’opera di un’associazione italiana fondata da ebrei per aiutare l’espatrio degli correligionari perseguitati in Germania, quando i suoi membri dovettero a loro volta rifugiarsi all’estero in seguito all’entrata in vigore delle leggi razziali. Una vicenda che rivela come anche in quegli anni fosse sopravvissuto un vasto sentimento di solidarietà e di passione per l’uomo che, nato dalla tradizione cattolica, andava al di là dell’appartenenza religiosa diventando patrimonio comune.
Perché si parla di “sopravvivenza delle reti sociali”? “Perché – ha ricordato Bocci – il fascismo voleva cancellare tutto o utilizzare tutto a favore del suo progetto totalitario. È di Mussolini la celebre frase ‘Tutto nello Stato, niente fuori dello Stato, nulla contro lo Stato’. Ossia, nulla esiste a cui lo Stato non dia vita. Ovvio che questo abbia creato problemi anche con la Chiesa e le sue strutture che cercavano vie alternative: ecco che il sabato i piccoli Balilla imbracciano il moschetto, e la domenica vengono educati con altri principi. Così, però, non riesce a nascere ‘l’uomo nuovo’ idealizzato dal fascismo”.
Insomma, “la sussidiarietà viene negata, tutto deve essere ricapitolato nel partito fascista”, ha ricordato Edoardo Bressan, ordinario di Storia contemporanea all’Università di Macerata, che ha introdotto l’incontro con un excursus storico sul primo dopoguerra, sul programma riformatore di don Luigi Sturzo – che però non trovò gli interlocutori adatti – e sulla nascita del fascismo.
“Come, in questo contesto, è stata possibile la nascita nel 1943 della resistenza armata?”, ha chiesto Sara Farè, studentessa di Lettere alla Cattolica di Milano. Ha risposto Danilo Zardin, ordinario di Storia moderna all’Università Cattolica di Milano: “Un conto è l’adesione di massa al fascismo, un altro è l’assimilazione del progetto antropologico. Non dimentichiamoci che già alla fine degli anni Venti nasce a Milano il movimento guelfo d’azione che si prefiggeva di ‘organizzare l’educazione, contendere al fascismo il cuore del bambino, la volontà del giovane, il pensiero dell’uomo’ e poi anche gli antifascisti liberali. La resistenza armata sarebbe stata un fiore nel deserto se non fosse esistito questo retroterra culturale”.