IL MEDIOEVO E LA NASCITA DEL MERCATO

Press Meeting

In un periodo di crisi come l’attuale è naturale chiedere agli storici quali scelte hanno effettuato i nostri antenati in situazioni simili. Capire che cosa è accaduto nel Medioevo ci aiuta a trovare nuove idee e soluzioni. “Il tema sono i mercati e la figura di cui ci accingiamo a parlare è un mercante di Prato del XIV secolo, – introduce Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la sussidiarietà – raccontato nel libro del professor Nanni”. Siamo all’incontro Il Medioevo e la nascita del mercato (ore 15, sala Neri) e il volume di cui si parla è Ragionare tra mercanti – Linguaggio e concezioni nelle relazioni di Francesco di Marco Datini, di cui è autore Paolo Nanni, storico dell’Università di Firenze. Accanto a lui la collega Gabriella Piccinni dell’Università di Siena.
“Come i mercanti di allora conciliavano etica e profitto? – incalza Vittadini – e che cosa possono dire oggi che sono saltate tutte le regole e gli scambi sono regolati da una competizione selvaggia che mira solo al profitto?” La parola passa all’autore. “In ogni studio storico c’è un quid che orienta la ricerca – afferma Paolo Nanni – tra domande, dati e ipotesi. Non basta descrivere gli avvenimenti, occorre conoscere anche il perché degli aspetti materiali e immateriali che quegli uomini vivevano. La ricerca muove da queste curiosità, da questo desiderio di sapere”.
Per un economista la ricerca sui mercati tratta di tecniche e di meccanismi, per lo storico deve invece condurre a capire chi era quel mercante sotto il profilo umano, quali ideali e quali concezioni della vita aveva e con quale coscienza viveva la sua professione. “Il mercato non fu certo un’invenzione del Medioevo: nel mondo romano c’erano i mercatores che commerciavano anche con luoghi lontani”, continua Nanni, per quanto esercitare il commercio fosse un’attività disdicevole per i senatori. Esistevano mercati, fiere e mercanti anche nell’alto Medioevo, ma dal XIII secolo questa attività diventa importante soprattutto nelle città marinare e dell’Italia settentrionale. Per esercitare la mercatura si inventano regole, monete, cambi, ragioneria, tecniche contabili e tutta una concezione giuridico-politica.
Una tale operosità produceva ricchezza e metteva in circolazione beni finanziari che sostenevano papi e re. Nanni porta un esempio: “Le compagnie dei Barbi e dei Peruzzi vantavano crediti dal re d’Inghilterra per un milione 365mila fiorini, una cifra gigantesca se commisurata alle entrate del comune di Firenze: 300mila fiorini”. Altro esempio: le figure del genovese Benedetto Zaccaria, mercante e ammiraglio, e del fiorentino Francesco Calducci Pegolotti, che aveva scritto un trattato sulla “mercatura” che tutti allora possedevano.
Anche per Gabriella Piccinni la ricerca storica prende avvio da domande che accendono la sensibilità di ogni epoca. “La storia non si ripete, ma dovrebbe insegnare a chi è al potere la fantasia per cercare nuovi sbocchi. Parlando del Medioevo abbiamo davanti agli occhi le situazioni attuali, anche se spesso non avvertiamo il dolore di quanti per la crisi hanno perso la prosperità: non è la stessa cosa passare dal braciere al termosifone o viceversa dal termosifone al braciere”. La docente osserva che può non esserci correlazione diretta tra il possesso di beni materiali e felicità, ma esistono altri elementi di soddisfazione: peraltro senza alcuna nostalgia del passato (“Io non vivrei nel Medioevo”).
Tornando ai mercanti, come hanno superato le crisi dei loro tempi? “Sono riusciti – è la risposta di Piccinni – a organizzare una protezione sociale”. Parliamo ad esempio della fondazione di ospedali che non si occupavano soltanto degli ammalati, ma erano un’opera globale di sostegno materiale e morale ai poveri: malati, orfani, vedove, pellegrini, anziani soli, trovatelli. L’ospedale accompagnava tutti secondo le loro necessità, ricavando le risorse dai lasciti dei ricchi, attuando così la redistribuzione della ricchezza. Si può dire che siamo in presenza dei progenitori dell’attuale welfare. “L’ospedale diventa un’impresa che si preoccupa di avere le risorse necessarie – aggiunge Piccinni – e non disdegna neppure di trasformarsi, in certi casi, in una banca che fa prestiti e gestisce il denaro depositato”.
Si passa così, alla figura emblematica di Francesco di Marco Datini. Per Paolo Nanni, che riprende la parola, dietro al mercante Datini esiste una cultura, una concezione della vita, testimoniata da un archivio amplissimo, conservato a Prato, di 150mila documenti di ogni tipo, tra cui molte lettere private, d’affari, ai familiari e ai soci. Nei documenti esaminati da Nanni compare una concezione degli affari non separata dalla concezione più generale della vita. Datini pretende dai soci non solo capacità tecnica, ma anche lealtà e amicizia. Il mercante parla della ragione come di qualcosa che è correlato alla natura e alla volontà di Dio e ci racconta del rapporto tra attività commerciali e finanziarie: le prime “sostengono il mondo”, le seconde “lo disfano”.
Da tutte le lettere appare una sorta di responsabilità sociale dell’impresa: una quota dei guadagni viene data in elemosina, che è un modo di ridistribuire le risorse. “Datini – osserva il docente – non andò mai in pensione, ma programmò la sua uscita dagli affari, dopo aver insegnato ai soci l’arte. Non avendo parenti, fece un testamento con cui lasciava tutto al ‘Ceppo pe’ poveri di Cristo’, una fondazione affidata non al vescovo, di cui non si fidava, ma al comune”. La fondazione fu così il primo nucleo dell’ospedale di Prato. Il nostro mercante fu anche generoso con l’ospedale fiorentino di Santa Maria Nuova per istituire, lui che era stato orfano, un’opera per accogliere ed educare i “gettatelli”. Tutte donazioni che riaffermano che fare impresa può essere una forma di carità. Ieri come oggi.

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