Si può andare a sentire una lezione di economia sul boom degli anni Sessanta nel pieno delle ferie di agosto? Al Meeting puoi assistere anche a questo: gente con bambini in carrozzina che viene ad ascoltare che cosa hanno da dire un giornalista, Gianluigi da Rold e Gian Luigi Trezzi, professore ordinario di Storia economica alla Bicocca di Milano, sul grande sviluppo del nostro Paese negli anni Cinquanta e Sessanta.
Provocati dalle domande di Francesco Babbi, studente di economia all’Università Cattolica di Milano (ma oramai più noto come il “professore” che ha spiegato la mostra sull’Unità al presidente Napolitano), i relatori non si sono fatti pregare. “L’Italia del dopo guerra è un paese sconfitto, – ha iniziato Trezzi – con un livello basso di economia ma una capacità produttiva sostanzialmente intatta in quanto le aziende non erano state bombardate durante la guerra. Il boom non è una rottura con il passato ma piuttosto un suo perfezionamento, una continuità con gli anni che lo avevano preparato”. Nella grande rinascita degli anni Sessanta, spiega Trezzi, i fattori decisivi sono stati due: una grande capacità di iniziativa del popolo italiano e un’altrettanto grande capacità di collaborazione delle parti sociali, non in conflitto permanente come una certa storiografia vuol farci credere”.
Anzi in quel periodo – continua il professore – nascono i primi esempi di welfare aziendale di cui Olivetti è il capostipite, “ma si trovano esempi in molte altre piccole e medie imprese”. Questi interventi non possono essere tacciati di paternalismo perché essi “venivano discussi, dopo i primi periodi, con le commissioni di fabbrica, restando intatta la libertà dell’imprenditore di dotarsi di questi strumenti o meno”. Non dobbiamo neppure dimenticare, accenna l’economista, la grande spinta data dal piano Marshall.
La sinergia fra grande e piccola-media impresa è stata un’altra delle grandi leve dello sviluppo nazionale. “La crescita italiana è avvenuta – ha aggiunto Trezzi – perchè ex dipendenti della grande industria che avevano imparato un mestiere si sono messi in proprio ed hanno costituito quel tessuto di piccole e medie imprese che saranno la ricchezza del nostro paese. Quindi dobbiamo pensare lo sviluppo italiano come un insieme di forze grandi e piccole”.
Da Rold da parte sua ha messo in evidenza la sinergia che in quel periodo si era venuta a creare fra impresa privata e pubblica. Il processo di “irizzazione” dell’economia italiana aveva fatto incamerare in questo ente delle Partecipazioni statali molte aziende private (in particolare siderurgiche) e l’87% delle banche del paese. Lo stesso Enrico Mattei, a cui era stato chiesto di chiudere l’Agip dal capo del governo Ferruccio Parri, con il suo diniego rilancia l’Agip costituendo l’Eni, “ma le risorse finanziarie per il suo sviluppo provenivano dalla Banca commerciale italiana di Raffaele Mattioli controllata dal Ministro del Tesoro.
“Il boom italiano – continua il giornalista – è stato un fatto antropologico, altro che piano Marshall: quest’ultimo è stato una causa ma non sufficiente per spiegare la crescita italiana”.
Da Rold è poi passato alla crisi attuale “che è una crisi di avidità basata sul presupposto che con i soldi si possano fare i soldi”. Una crisi “che non si supera con ricette”: occorre, da parte del popolo italiano, “recuperare il desiderio che ci consente di innovare, fare sacrifici per il futuro”. Insomma uscirne è un problema “più di testa e di ragionamenti che di condizioni esterne”. Dobbiamo riappropriarci del nostro vero passato e su questo la scuola può fare molto perché come diceva George Orwell: “Chi controlla il passato, controlla anche il futuro”.