Domande esistenziali: cos’è la salute? Cosa significa essere in salute? Quando si è certi di essere in salute? Cosa fare per essere/dare certezza della salute? Domande che si inseriscono perfettamente nel tema del Meeting di quest’anno e che sono state affrontate nella loro completezza attraverso l’approfondimento dei fondamenti (il magistero della Chiesa) e dei risvolti pratici (cure, assistenza, ospedali). Due relatori di peso: monsignor Zygmunt Zimowski, presidente del Pontificio consiglio per gli operatori sanitari, il cosiddetto ministro della Sanità del Vaticano, per la prima volta al Meeting, e Giancarlo Cesana, ordinario di Igiene all’università di Milano-Bicocca e presidente della Fondazione Irccs Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, veterano della manifestazione riminese.
“L’uomo è in salute quando è certo – ha introdotto il tema del Meeting il moderatore Marco Bregni, oncologo, presidente dell’associazione Medicina e Persona – la salute non è assenza di malattia ma una certezza della vita con la quale si può affrontare anche la sofferenza. La medicina non può pertanto limitarsi alla tecnica, alla terapia, ma deve aiutare il sanitario a sostenere il malato in questa ricerca della certezza. Come può la medicina tornare a fare questo?”
Spetta a monsignor Zimowski ricordare all’affollata platea di operatori sanitari, e non solo, i fondamenti del magistero della Chiesa, in particolare di Benedetto XVI e del beato papa Giovanni Paolo II, che con le sue parole – in particolare con la lettera apostolica Salvifici doloris (del 1984) e con il motu proprio Dolentium Hominum (che istituì, l’11 febbraio 1985, la Pontificia commissione della pastorale per gli operatori sanitari, ora Pontificio consiglio per gli operatori sanitari) ma soprattutto con la sua sofferente vita di malato, ha testimoniato che l’“esistenza è una immensa certezza”. Proprio al connazionale beato Zimowski ha chiesto, al termine del suo intervento, l’intercessione a favore degli operatori sanitari, con una preghiera alla quale si sono uniti – in piedi – gli oltre 1.300 partecipanti all’incontro. Tre i punti su cui si è articolata la sua relazione: la salute e l’antropologia cristiana; la salute come certezza; la Fondazione Il Buon samaritano, eredità concreta del vangelo della vita del beato Giovanni Paolo II.
Prima, fondamentale domanda: chi è l’uomo? “L’antropologia cristiana illustra la verità sull’uomo, il cui baricentro è fuori di lui, nell’Assoluto – ha risposto il presidente del Pontificio consiglio -. Ne deriva che il concetto di salute dell’uomo, laddove essa sia intesa esclusivamente come salute del corpo, è estremamente riduttivo e fallace”. Ma cos’è la sofferenza, si chiede ancora il presule citando la Salvifici Doloris? “L’uomo soffre in modi diversi, non sempre contemplati dalla medicina, neanche nelle sue più avanzate specializzazioni. La sofferenza è qualcosa di più ampio della malattia, di più complesso e insieme più profondamente radicato nell’umanità stessa”. Alla luce di queste premesse, monsignor Zimowski ribadisce che “la Chiesa non può accettare di ridurre l’orizzonte umano a livello di ciò che è misurabile, come spesso si intende fare oggi. La persona dev’essere oggetto di cure nella sua interezza: fisica, psichica, sociale e, in ultimo ma non certo per ultima, spirituale. Ne nasce così un nuovo concetto di cura, una cura integrale”.
Come parlare di “certezza della salute”? “In effetti – affronta il secondo punto il presule – l’esperienza ci mostra che, secondo la medicina meramente meccanicistica, non sempre la malattia si risolve nella guarigione. Ebbene, è la salute dello spirito che, per intervento della grazia divina, laddove l’uomo lasci ad essa lo spazio di agire nella propria vita, è certa e lo è sempre. L’anima che anche ha molto sofferto, che ha patito, una volta ‘guarita’ è sanata per l’eternità. Persino la sofferenza, qualunque dimensione dell’uomo investa, se vissuta alla luce del messaggio evangelico è essa stessa veicolo di salvezza, di redenzione per sé e per gli altri”. “La medicina – ha proseguito – è una scienza particolarmente chiamata a servire la vita, in tutte le sue espressioni e fasi, soprattutto in quelle più vulnerabili. Purtroppo la benefica azione di protezione della salute e della vita trova ostacoli non solo nella fragilità intrinseca del corpo umano ma, qualche volta, anche nella mentalità e nel comportamento della società che giunge talvolta a negare il dono della vita”.
Vita come dono, salute come dono. Le conclusioni tra chi ha ripercorso il magistero e chi affronta il tema della salute nella pratica della professione e nella politica sanitaria e sociale sono le medesime. “Bisogna recuperare la concezione della salute come dono e non come diritto – è l’invito molto netto di Giancarlo Cesana – È il dono di essere che rende certi di quello che si è. Il dono è fatto da un oggetto e da un soggetto che dona, ma non si sa più chi ci ha dato la vita e quindi ci si perde nella ricerca ansiosa di una assicurazione che non dà certezza”.
“Il punto di partenza – ha inoltre affermato il presidente del Policlinico Ca’ Granda – è che la certezza della salute è apparentemente, come diceva il filosofo Hans-Georg Gadamer, un ‘non-pensiero’. Infatti, quando uno è certo della salute non ci pensa. E quando si inizia a pensarci, come quando si invecchia, definizioni di salute come quella dell’Oms (‘stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” non danno assolutamente certezza, sembrano più una definizione di felicità piuttosto che di salute. Ma noi sappiamo che per la felicità altrui possiamo anche sacrificare la salute”. Anche l’Oms si è accorta che quella definizione non andava e ha cercato, nel 2005 rivedendo la sua costituzione, di correggerne l’astrattezza con un aggettivo: ‘ottenibile’. “Che – sottolinea Cesana – abbinato a sostenibile, altro aggettivo di moda, relativizza tutto. Vorrebbe mettere in pace, ma non ottiene nulla, soprattutto quando uno è malato. È un tentativo di fare della salute un diritto, di farne una specie di principio normativo e regolamentare dell’esistenza, come l’Oms ha tentato di fare con la Carta di Ottawa, del 1986, che ne ha stabilito i prerequisiti, contribuendo così a sostituire il concetto di provvidenza con quello di previdenza o assicurazione sociale”.
“Si è dilatato il non-pensiero, ma non la certezza della salute. La drammaticità della vita è invariata, anzi – ha concluso – i progressi della medicina creano sempre più invalidi e cronici, sempre più inguaribili. Dobbiamo tornare a costruire ospedali con lo stesso spirito di carità con i quali sono nati. Malattia e morte sono il segno della radicale inadeguatezza dell’uomo a salvarsi. L’ospedale, il medico, l’infermiere rispondendo al bisogno di salute devono rispondere a un bisogno che è di tutta la persona e non solo dei suoi meccanismi biologici. Altrimenti a che vale curare? Avrebbe ragione Shakespeare: lunga agonia è la vita”.