Rossana Gobbi: “Insegnando la lingua italiana faccio loro compagnia”
Il tema del carcere è stato presente in tutte le edizioni del Meeting e quest’anno non fa eccezione. Come è accaduto a “Un caffè con…”, la serie di appuntamenti a lato della mostra ‘Migranti, la sfida dell’incontro’, in A1. Rossana Gobbi ha 43 anni. Indossa una maglietta di Minnie, ha i capelli chiari, gli occhi azzurri: con questa vivacità e delicatezza insegna italiano ai detenuti nelle due sezioni, maschile e femminile, del carcere Dozza a Bologna. Dei 750 carcerati la maggior parte è di origine straniera. Apprendere la nostra lingua, per loro, è fondamentale: è la lingua del carcere. Conoscendola possono comunicare il proprio stato di salute, i propri bisogni, leggere gli atti giudiziari che li riguardano. Gli italiani sono una minoranza e di loro molti sono analfabeti: “Non immaginavo che nel nostro paese ci fossero persone incapaci di leggere e scrivere. Una parte del mio lavoro è farli arrivare all’esame di licenza elementare”. Il carcere diventa un’opportunità per uscire dall’analfabetismo.
È Giovanni, guida alla mostra sui migranti, che introduce l’insegnante e subito le chiede: “Chi te lo fa fare? Perché ti muovi?”. “Perché sono miei amici: per me l’amico è quello che incontro sulla mia strada e mi aiuta a fare un passo di verità per me. Mi hanno fatto un regalo: incontrandoli ho scoperto di essere una peccatrice”.
Rossana ha insegnato per vent’anni nelle classi elementari della scuola non statale Il Pellicano, a Bologna. Poi il desiderio di insegnare agli adulti l’ha fatta scegliere: “Era necessario un passaggio di due anni alle elementari statali. Quando mi hanno assegnato la classe ho scoperto che era quella nel carcere a Dozza. Dio risponde in mondo fantasioso ai nostri desideri”. Stando in aula si aprono rapporti, insieme alla grammatica entra la vita. “Una ragazza arrivò in classe arrabbiata, le era giunta la notizia che sua zia era stata uccisa. Mi chiese: ‘Che senso ha la vita, perché devo venire qui a scuola?’ Sono stata costretta ad andare a fondo di me. La risposta è stata: facciamoci compagnia”.
“Un giorno un detenuto si toglie la vita – ricorda ancora con dolore la relatrice – eravamo tutti sconvolti. Sono entrata in classe e ho detto alle donne che avevo davanti – ricorda perfettamente i loro volti, ne elenca le numerose etnie – che non potevo fare lezione se prima non mettevo la vita di quell’uomo nelle mani di Dio. Abbiamo pregato in silenzio, ognuna secondo il proprio credo. Insieme”.
L’altro regalo è l’aver scoperto che nessuno è migliore dell’altro: “Incontro persone con un’umanità dieci volte maggiore della mia, con talenti enormi. C’è gente veramente speciale che si è trovata coinvolta in fatti più grandi di loro e davvero poteva capitare a me”.
“E chi ti rifiuta?” chiede Giovanni. “Anche noi non siamo amici di tutti – risponde – è la libertà dell’uomo. Ma la mia identità è un punto di forza. ‘Maestra’ mi chiamano, tutto quello che vivo è subito oggetto di stima come il Crocifisso del mio braccialetto”.
Non interessa fare proselitismo a Rossana Gobbi. Racconta dell’incontro con una pakistana che pregava il Corano in una lingua che non conosceva poiché il libretto che aveva era scritto in arabo. In pratica pregava senza sapere cosa stesse dicendo. La maestra le si avvicina, le dice: “Sai anche la mia nonna andava alla messa in latino, pregava senza conoscere le parole, ti farebbe piacere sapere quello che reciti?” e le regala un Corano scritto in italiano. “Piuttosto che imporre cosa è bene per me – spiega Rossana – è più interessante aiutare te ad andare a fondo di quello che sei”. La detenuta esce dal carcere, vi rientra tempo dopo per concludere l’iter giudiziario. Per prima cosa si iscrive a scuola. Si rivedono: “Una festa! Come accade tra noi, uguale”. Non aveva dimenticato l’italiano imparato “e anche questo è un dato interessante, quanto appreso non va perduto. Niente va perduto”.