OLTRE IL PIL: LAVORO, SOSTENIBILITÀ E BENE COMUNE

Partecipano: Enrico Giovannini, Professore Ordinario di Statistica Economica all’Università “Tor Vergata” di Roma e Portavoce di Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS); Filomena Maggino, Professore Associato di Statistica Sociale all’Università “La Sapienza” di Roma . Introduce Marco Fattore, Ricercatore di Statistica Economica all’Università degli Studi di Milano-Bicocca.

OLTRE IL PIL: LAVORO, SOSTENIBILITÀ E BENE COMUNE

Ore: 15.00 MeshAREA TALK Intesa Sanpaolo B1
OLTRE IL Pil: LAVORO, SOSTENIBILITÀ E BENE COMUNE

Partecipano: Enrico Giovannini, Professore Ordinario di Statistica Economica all’Università “Tor Vergata” di Roma e Portavoce di Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS); Filomena Maggino, Professore Associato di Statistica Sociale all’Università “La Sapienza” di Roma. Introduce Marco Fattore, Ricercatore di Statistica Economica all’Università degli Studi di Milano-Bicocca.

MARCO FATTORE: Buongiorno a tutti e benvenuti a questo incontro che continua il tema del lavoro e della sostenibilità al Meeting di Rimini. Il tema che oggi affrontiamo è il tema del lavoro, ma in maniera più ampia, come vedremo, anche il tema più sociale e lo affrontiamo dal punto di vista, forse un po’ differente dal solito, della sua sostenibilità. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che noi siamo davanti a un fenomeno complesso, ricco di cambiamento, ricco quasi di turbolenza. Abbiamo innovazione, abbiamo crisi, abbiamo opportunità. Certamente abbiamo davanti a noi un sistema del lavoro, un sistema sociale in continuo mutamento. Davanti a questo tipo di fenomeno, che sfide abbiamo e quali sono gli assetti e le condizioni che permettono di affrontare con fiducia e in maniera costruttiva un futuro che ha questa dimensione di incertezza, che può essere affascinante ma naturalmente anche ricca di aspetti critici? Parliamo di questi temi con due relatori che sono davvero molto contento di avere qui. Alla mia destra, la professoressa Filomena Maggino, che è professore associato di Statistica sociale all’Università La Sapienza e che recentemente è stata nominata esperto per la sostenibilità e la qualità della vita presso la Presidenza del Consiglio. E alla mia sinistra, il professore Enrico Giovannini, docente di Statistica economica a Tor Vergata, già ministro del Lavoro e attualmente portavoce di ASviS, la associazione Italiana per lo Sviluppo sostenibile. Con loro affronteremo, da punti di vista differenti ma convergenti, questo tema. Velocemente, dico due parole, introduco subito gli interventi. Il presidente Mattarella, due anni fa, ci ha ricordato come il tema del lavoro sia primario per il bene comune e lo ha fatto nel suo discorso di fine anno. La cosa caratterizzante però questo tema, oggi, è per l’appunto la continua dinamicità davanti a cui siamo. Faccio un esempio per tutti, un esempio non italiano ma che mi ha colpito (si trova anche sul web): se guardate il crollo verticale che il valore delle licenze dei taxi hanno avuto a New York per l’arrivo di Uber, capite come la dinamicità turbolenta del mondo che abbiamo davanti non può che interrogarci. Allora siamo davanti, non soltanto ad un problema tecnico di come migliorare gli assetti sociali e lavorativi del nostro Paese. Se anche noi potessimo, in qualche modo, mettere in asse, per dire così, i parametri fondamentali (la povertà, la disuguaglianza, il tasso di occupazione) chi garantirebbe che questi parametri si manterrebbero nel tempo in un mondo così complesso? Allora, il tema vero è che siamo davanti al problema della sostenibilità del sistema sociale e del lavoro. Stare davanti a questa sfida richiede alcune condizioni che possono essere presenti o assenti. Certamente, richiede da parte delle persone e delle comunità una capacità di stare nell’incertezza del tutto nuova. La prima domanda che pongo alla professoressa Maggino è: dal punto di vista dei suoi studi sociali, quali sono le condizioni e i punti di forza o di debolezza che oggi caratterizzano il contesto sociale in cui siamo e che possono aiutare o rendere più difficile l’affronto di processi così complessi come quelli che stiamo vivendo in questo momento storico?

FILOMENA MAGGINO
Buonasera a tutti, anche per essere presenti in questa occasione. Volevo ringraziare, prima di rispondere alla domanda che mi è stata fatta, gli organizzatori per l’invito e anche il professor Fattore per avere organizzato questo incontro di riflessione su questo tema e per avermi invitato a riflettere insieme a voi. Mentre preparavo qualche appunto da condividere qui oggi, è capitato qualcosa di scioccante sotto molti punti di vista, ma è stato qualcosa che mi ha fatto riflettere anche sul tema odierno. Avete capito di che cosa sto parlando: al di là della questione specifica (responsabilità, necessità di modificare, di ricostruire una vita, dove possibile), la riflessione che ho fatto in questa occasione è stata: questo ponte è un po’ il simbolo della crescita di un Paese, una crescita che c’è stata, reale, ma che non è stata di qualità, evidentemente. Nello specifico, io ho vissuto tanti anni a Firenze: Ponte Vecchio (penso che lo conosciate tutti) ha mille anni (pochi lo sanno) e pochi sanno che è l’unico ponte che non è mai crollato a Firenze. Ecco che si pone la questione, che ho appena ricordato, della qualità, della crescita di qualità. Il ponte ci fa riflettere sul fatto che abbiamo percorso una strada che è stata di grande importanza per il nostro Paese, ma anche per altri (questa questione non riguarda solo il nostro Paese), ma abbiamo lasciato che tutto avvenisse a tutti i costi e in questo senso mi ricollego all’acronimo Pil del titolo di questo incontro: per inseguire il Pil, abbiamo sacrificato qualcosa. Proprio ieri leggevo un articolo in cui si riportava un semplice calcolo (semplice per modo di dire), secondo il quale, per rimediare ai disastri che abbiamo provocato inseguendo la crescita, ovvero con una crescita non di qualità (disastri ambientali e tutti gli altri che potete immaginare), dovremo investire una quantità di Pil che corrisponde a più del doppio del Pil attuale mondiale. Questo per il mondo intero. È evidente che la ricostruzione dei disastri fatti – forse, la mia è anche una domanda – è insostenibile. Sicuramente, è difficile. In questo calcolo che veniva fatto non era però compreso un costo, il costo sociale. Erano compresi costi ambientali, costi economici, ma non il costo sociale perché è quello più difficile da valutare e, secondo me, anche quello che creerà (e forse sta già creando) più problemi. A che cosa mi riferisco? L’inseguire una crescita a tutti i costi ha richiesto e richiede persone, individui che siano disponibili a inseguire questo mito. Cosa vuol dire disponibili? Vuol dire essere disponibili a lasciare la propria rete di amicizia, lasciare la propria famiglia per andare a inseguire il lavoro dov’è. In definitiva, quello che sta richiedendo questo attuale modello economico è un insieme di monadi disponibili ad andare laddove c’è bisogno e quindi a sacrificare molto della propria vita. Queste monadi, che non hanno più identità, inseguono il lavoro che ha permeato completamente le vite (per cui non si distingue più la vita al di fuori del lavoro, dal lavoro), anche per le possibilità che la tecnologia ha dato in questo senso: quindi, il supporto che la tecnologia ha dato ha causato d’altra parte altri problemi. Questo, secondo me, è stato anche voluto. Non voglio fare un’accusa a qualcuno ma inseguire questa crescita ha consentito la identificazione di modelli distorti delle nostre vite. Favorire: che cosa vuole dire? Faccio un esempio molto banale, non mi riferisco all’Italia ma un po’ a tutto il nostro mondo: non favorire una politica della casa, non favorire i mutui, dire che in fondo avere una casa di proprietà non è un valore è in fin dei conti sottolineare il fatto che la persona non deve avere legami, anche fisici. E questo – potrei andare avanti – ha creato storture enormi. L’esempio che faccio non riguarda l’Italia ma un Paese europeo: fui invitata alcuni anni fa dal governo finlandese a parlare dei temi del benessere, dei nuovi indicatori di misura della qualità della vita. A margine di questo incontro, un funzionario mi prese da parte e mi disse: «Abbiamo visto che hai lavorato per dieci anni nel settore della qualità di vita degli anziani, vorremmo consultarti perché anche noi stiamo sperimentando l’invecchiamento della popolazione». L’Italia ha sperimentato questo fenomeno, molto positivo, da anni. Qual è il loro problema? Ecco: gli anziani sono soli, gli anziani non hanno figli, o meglio, ce li hanno ma non sono più legati ai genitori perché il modello della loro società richiede questo. Ma ora che stiamo sperimentando l’invecchiamento della popolazione, è diventato un problema. Si sono accorti che è un problema. E allora, mi hanno chiesto: «Abbiamo un progetto che non ha grossi problemi perché abbiamo tanti soldi, possiamo investire, però vorremmo avere un tuo giudizio». Il progetto richiedeva la costruzione di cuccioli elettronici, però mi disse il collega: «Sono anche carini, questi cuccioli, perché hanno il pelo finto, sono così piacevoli da toccare che con questo risolviamo il problema dell’isolamento degli anziani». Potete immaginare la mia reazione: avevo gli occhi di fuori! Rabbrividivo a questa immagine. E chiesi: «Ma scusate, prima di investire in questo cucciolo elettronico, non potremmo pensare per esempio a ricostruire il ruolo sociale dell’anziano?». La reazione del funzionario è stata: «Cosa vuole dire?». Scusate se mi dilungo con questo esempio, ma è l’esempio dei disastri che stiamo facendo. Gli enunciai due casi, uno più istituzionale: un Comune che investe per favorire l’ingresso degli anziani nelle scuole, l’orto fatto insieme ai nonni, ecc. Un altro esempio, invece, non era legato a una istituzione ma a quello che le persone fanno: una coppia di giovani genitori con due piccoli figli che non sanno come gestire l’uscita da scuola perché hanno turni di lavoro. Bussano alla porta di due anziani (la storia è vera, erano i miei vicini) e chiedono se vorrebbero andare a prendere i bambini a scuola. Cosa è successo dopo alcuni anni? Questi due nuclei sono diventati un’unica famiglia: vanno in vacanza insieme, gli anziani vengono chiamati nonni dai ragazzi, oramai adulti. Allora, perché ho raccontato questo? Perché forse, come mi è stato suggerito, ci sono risorse per affrontare i problemi che questa crescita ha causato. Nel settore sociale, forse ci sono. C’è una resilienza sociale, c’è un rifiuto da parte degli individui ad accettare certi modelli: forse bisognerebbe insistere su questa resistenza che si trasforma poi, di fatto, in resilienza delle persone nell’affrontare i problemi. Molti si chiedono come mai l’Italia, in un momento di crisi particolarmente duro, sta comunque resistendo. Io lo guardo dal punto di vista sociale: le famiglie sono state in grado di affrontare la crisi, rinunciando a qualcosa, rendendosi sempre più coese. La rete sociale italiana ha resistito. Ma come tutte le reti, se ci si appoggia sopra troppo peso, alla fine si sfilacciano. Quindi, aspettiamo di capire come affrontare ulteriormente la resilienza della popolazione italiana.

MARCO FATTORE
Bene. Grazie mille per questa lettura e per questa sottolineatura della importanza di avere legami solidi, perché senza legami solidi non si affronta l’incertezza. Da questo punto di vista, se posso introdurre in questo modo il suo intervento, professore, a me sembra che siamo davanti a un tema di sostenibilità del sistema Paese. Faccio un brevissimo racconto personale che però mi ha fatto pensare, quando mi è venuto alla mente, quando io incominciai a lavorare, circa vent’anni fa. Come tanti di noi, feci mesi da precario per cominciare l’attività, ma il mio stipendio era lievemente superiore al mio primo stipendio da assunto, perché quel po’ di rischio che subivo mi fu remunerato. Qualche mese fa, mentre scendevo dalla metro a Milano, vicino all’Università, ho visto invece la réclame di una nota azienda che fornisce musica via web, che annunciava un’offerta promozionale per i giovani per festeggiare il loro primo stage. Ho pensato che qualcosa in 20 anni era cambiato. Dal suo punto di vista, come vede la situazione e le sfide che abbiamo dinnanzi?

ENRICO GIOVANNI
Anch’io ringrazio gli organizzatori. È un piacere ritornare qui al Meeting: ero venuto come ministro, ma insomma, c’è tanta vicinanza di temi che vorrei partire proprio con il titolo di questo Meeting: “Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice”. Ma segnale di allarme! Houston, abbiamo un problema! Perché le forze che stanno muovendo la storia non necessariamente producono più ricchezza, ma soprattutto non producono più felicità. L’esempio che abbiamo appena sentito mi sembra evidente. Io faccio riferimento, per chi vuole, a questi materiali: uno è il rapporto dell’ ASviS che è scaricabile gratuitamente dal sito asvis.it; il secondo è un libro recente che ho scritto. Ma comincio subito con questo mostro, con questo Cerbero che spiega gran parte del perché oggi stiamo male. Questo Cerbero ha fondamentalmente tre teste: la globalizzazione, il cambiamento tecnologico, il cambiamento climatico. E queste tre teste lavorano tra loro e sono estremamente difficili da affrontare, soprattutto per chi non è stato preparato a un ambiente pieno di Cerberi o non si è preparato a un mondo che sta cambiando a grande velocità. Vorrei ricordare – lo ricordo sempre – che l’Italia è l’unico Paese che non ha un Istituto di Ricerca pubblico sul futuro, e non a caso veniamo sistematicamente sorpresi dal futuro, forse perché siamo bravi a gestire le emergenze ma non a prevedere il futuro. Lo dico perché nelle interviste che ho rilasciato in questi giorni, dopo il dramma del ponte, ho ricordato come, quando ero all’organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico, l’OCSE, che ho lasciato nel 2009, facemmo uno studio che mostrava chiaramente l’ammontare enorme di risorse necessario nei Paesi europei e nei Paesi sviluppati, intorno agli anni 2020/2030, per manutenere o rinnovare le grandi opere fatte nel secondo dopoguerra. Ma non perché qualcuno le avesse fatte male: semplicemente perché le opere hanno una durata prevista ed è previsto un lavoro di manutenzione e magari di aggiornamento. Vi ricordo che quelle opere sono state immaginate in un ambiente molto diverso da quello che sappiamo che oggi prevale e prevarrà con il cambiamento climatico. Poi, noi costruiamo: mia moglie me lo ha fatto notare e ha cercato di capire se le case sotto il ponte Morandi preesistevano al ponte o no. Sì. Quindi, qualcuno ha deciso di costruire in faccia alle persone i pilastri. E le immagini che vediamo sono immagini sconvolgenti: tu hai cambiato radicalmente la vita delle persone accettando dei rischi, perché alla fine il tema è quello dei rischi. E ci sono rischi calcolati, rischi calcolati male o non calcolati per nulla. A proposito, tanto per eliminare immediatamente la discussione, il crollo del ponte fa aumentare il Pil, chiaro? Perché il Pil non tiene conto delle distruzioni ma tiene conto dei lavori per ricostruire. Scusate la parentesi. Ecco, se il mondo è fatto di questi elementi, noi dobbiamo prepararci, e non lo stiamo facendo. Questa che vedete nella immagine è la mappa dei rischi, non è importante che leggiate il testo, forse ci riuscite anche: a destra ci sono i rischi probabili e in alto i rischi che generano maggiori danni. In alto a destra troviamo: cambiamenti climatici, eventi naturali estremi, migrazioni, perdita di lavoro e così via. Questa mappa dei rischi è fatta attraverso l’intervista a mille Amministratori delegati delle grandi multinazionali del mondo. Questo è quello di cui chi è informato si preoccupa, questo è quello di cui discute chi è informato. Ed è così preoccupato dei propri soldi, che poi giustamente prende decisioni legate a questi aspetti. Ad esempio, a sinistra, c’è una mappa della Agenzia europea Energia per l’ambiente, a sinistra ci sono le aree che beneficeranno del cambiamento climatico, a destra ci sono le aree europee che invece avranno dei danni a causa del cambiamento climatico. Molti tra coloro di cui vi ho parlato prima, che magari avevano case in Spagna o in Italia – non è un’ipotesi, è una realtà – le stanno vendendo per comprare case in Norvegia. Però, non è detto che vada a finire così perché, secondo altri climatologi, il blocco della Corrente del Golfo, che come sapete già sta rallentando enormemente, farà sì che il Nord Europa starà sotto la neve sei mesi all’anno e noi finalmente avremo risolto i problemi del Mezzogiorno. Quale dei due scenari? Certo, chiudere gli occhi dicendo: «Non lo so, mi occupo di altro» non è una buona idea, perché vuol dire farsi trovare impreparati da una parte e dall’altra. Ma vi assicuro che ci sono molti economisti che pensano che, per esempio, rispetto al cambiamento climatico, questo sia il modo giusto di procedere, poiché non ne abbiamo idea. Perché devo spendere soldi per qualcosa che non è detto avvenga? Ci penserò quando avverrà. Qual è il problema? Il problema è che il cambiamento climatico avviene insieme all’innovazione tecnologica, l’altra grande testa di quel Cerbero. Queste sono le stime OCSE che ci dicono che nel futuro il 10% dei lavori attuali, non il 40% come altri studi indicano, verranno persi a causa dell’automazione. Ma il 40% dei lavori cambieranno radicalmente natura, e quindi, chi fa quei lavori deve imparare a cambiare radicalmente modo di fare. Attenzione, non mi riferisco all’operaio alla catena di montaggio. Mi riferisco al giornalista, mi riferisco al professore universitario, a soggetti a cui non pensiamo immediatamente quando parliamo dei robot. Certo, questi cambiamenti potrebbero essere affrontati se noi investissimo in formazione, ma nei conti delle imprese la formazione è un costo, e quindi, se investo in formazione, riduco i profitti. Nei conti dello Stato, la formazione è una spesa corrente, non è un investimento. Potrei continuare, ma vi sembra che abbia senso tutto questo? Vi sembra che ci stiamo attrezzando in modo adeguato, per come affrontiamo questi enormi cambiamenti? Io faccio parte della commissione mondiale sul futuro del lavoro dentro l’Organizzazione mondiale del lavoro: a novembre faremo il nostro rapporto sul futuro del lavoro. Una delle idee che stiamo discutendo è proprio andare a cambiare il modo con cui l’investimento in capitale umano viene considerato, perché sia considerato come un vero investimento. E allora, siamo andati a guardare le norme contabili mondiali. Abbiamo scoperto che le persone, i lavoratori, non sono parte degli asset, cioè del patrimonio dell’azienda, sapete perché? Questo dicono le norme contabili: perché non sono pienamente sotto il controllo dell’azienda. Cioè, visto che l’azienda non controlla totalmente il lavoratore, allora è un costo, invece di essere parte del patrimonio dell’azienda. Siamo rimasti esterrefatti e abbiamo cercato di capire perché le persone erano considerate parte dell’azienda quando c’era lo schiavismo, e gli schiavi erano considerati parte del patrimonio. Per marcare la differenza tra lo schiavismo e il lavoro attuale, lo consideriamo un costo: ma ci sarà un altro modo un po’ più sensato di trattare le persone, o no? Ecco, vedete, questi esempi ci fanno capire come il modo con cui guardiamo il presente e il futuro sia frutto di un modello di sviluppo che funzionava quando era applicato a poche centinaia di milioni di persone in Occidente, e il resto del mondo moriva di fame, salvo mandare un po’ di aiuti a Natale al bambino del Biafra o cose del genere. Perché, quando abbiamo applicato il nostro modello a tutto il mondo, ops, ci siamo accorti che ci servivano quattro pianeti, e non li abbiamo, naturalmente. Il mondo non va proprio esattamente come pensavamo. Anche il modello della globalizzazione, fatto a tavolino, contava sul fatto che il progredire dei Paesi in via di sviluppo avrebbe trainato la crescita dei Paesi sviluppati, così da evitare quello che invece è accaduto, e cioè un rapido spostamento della produzione da una parte del mondo a un’altra. Peccato che non avessimo considerato che i cinesi, gli asiatici ma tanti altri, erano altrettanto intelligenti quanto noi e quindi, grazie all’innovazione tecnologica, tutti usiamo i loro prodotti. Perché dico tutto questo? Perché decisi di fare l’economista nel 1976, al secondo anno di Università, leggendo un libro che fece molto scalpore sui limiti della crescita. Ecco, questo grafico aiuta a ricordare quelle proiezioni, alcuni scenari. Vedete le linee tratteggiate? Quella nera riguarda la popolazione, quella verde riguarda i servizi pro-capite prodotti, quella gialla il cibo pro-capite, quella celeste l’inquinamento globale, quella viola in alto le energie non rinnovabili, ecc. Bene, secondo questo scenario, intorno al 2030 il mondo avrebbe raggiunto 8 miliardi di persone e poi sarebbe collassato, riportando entro la fine del secolo la popolazione a 6 miliardi, non perché saremmo andati su un altro pianeta ma perché ci saremmo ammazzati tra noi. Bene, le linee continue sono gli andamenti effettivi degli ultimi 40 anni. Ecco, a questo punto alcune persone tipicamente si allontanano e dicono: vorrei passare le ultime ore con la mia famiglia, avete presente Deep impact? Possiamo sorridere ma per tantissime persone in giro per il mondo, soprattutto nei Paesi sviluppati, improvvisamente questo è il mondo che sentono di dover affrontare e sono totalmente incapaci di farlo. E allora, il dilemma che abbiamo davanti è che dobbiamo decidere se assumere una posizione distopica, e cioè: «Oddio, il futuro è un disastro! Ci chiudiamo in un bunker e speriamo che io me la cavo», come diceva quel libro anni fa. Una visione retrotopica, come ci propone Bauman, spiega perché in questo momento il mondo, soprattutto i Paesi occidentali, sono pervasi dal desiderio di tornare indietro, di costruire muri, di lasciare fuori il mondo esterno, di tornare a una situazione, che in realtà non è mai esistita, in cui “stavamo bene”. Bauman ci aiuta a capire molti dei movimenti cosiddetti populisti, ma anche le politiche protezioniste degli Stati Uniti, ecc. E ci ricorda che ogni volta che abbiamo fatto un grande balzo nella storia dell’umanità, abbiamo lasciato le caverne per diventare agricoltori, poi abbiamo costruito le città, poi gli Stati, poi gli Stati sovranazionali, abbiamo implicitamente allargato il concetto di noi e abbiamo ristretto quello di loro. Bene, con la globalizzazione tutti siamo noi e anche il pianeta è un noi. E mentre i salti precedenti hanno richiesto centinaia se non migliaia di anni, noi questo salto lo facciamo in poche decine di anni. Siamo fondamentalmente impreparati, spaventati, e quindi, in modo un po’ immaturo ma comprensibile, vogliamo tornare indietro, a quando la vita era studio, lavoro, posto fisso a tempo indefinito, poi la pensione. Ecco, le forze che muovono la storia ci renderanno più felici? Io sono molto preoccupato ma anche convinto che ci possano essere alternative. La risposta è appunto l’utopia sostenibile, la scelta che il mondo ha fatto a settembre del 2015 accettando l’ Agenda 2030, incarnata in 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile, dopo due anni e passa di negoziazioni internazionali. Se dico sostenibile, voi diventate già un po’ più verdi, vero? Cioè, pensate che io stia parlando di sostenibilità ambientale, ma ormai abbiamo capito che i pilastri della sostenibilità sono quattro: l’economia, la società, l’ambiente e le istituzioni. Basta che uno di questi pilastri venga giù e abbiamo un crollo analogo a quello che abbiamo visto a Genova; e non bastano i tiranti, ammesso che siano in ordine. Questa è una visione diversa da quella che noi economisti abbiamo raccontato, che insegniamo, in cui la cultura ci ha fatto crescere. Che vuol dire pensare in modo diverso, e arrivo alla conclusione? È il modo con cui il nostro mondo funziona: noi scambiamo con l’universo energia solare e scarichiamo calore, tutto il resto avviene all’interno del pianeta. Prendiamo il capitale umano – quello che è schiavo, e allora lo consideriamo capitale, o non è schiavo, e lo consideriamo un costo -, il capitale sociale, le interazioni tra le persone, il capitale naturale, cioè le risorse naturali e il capitale fisico, quello che abbiamo costruito. Li combiniamo in un processo di produzione per produrre Pil, Prodotto interno lordo, ma è chiaro che il modo con cui produciamo, il modo schiavista o meno, ha un impatto sul benessere delle persone. Ma poi, mentre produciamo e consumiamo, generiamo scarti, scarti nel senso della Laudato sì di papa Francesco, che ci ricorda che la cultura che genera scarti fisici è la stessa che genera scarti umani: poveri, disoccupati, emarginati. E allora, come gli scarti fisici impattano sul benessere ma anche sui servizi dell’ecosistema, quel lavoro che le api svolgono gratuitamente per noi per l’impollinazione – avete idea di quanto costerebbe fare l’impollinazione se le api smettessero di farlo al nostro posto? -, ecco come gli scarti fisici impattano sui servizi dell’ecosistema e gli scarti umani impattano sui servizi del socio-sistema: la pace, la fiducia, la visione del mondo. E questo impatta sul benessere che poi impatta all’indietro, naturalmente, su tutto il resto. Allora, quei 17 obiettivi che vanno dalla sconfitta della povertà a cibo, salute, educazione per tutti, alla parità di genere, alle risorse naturali, ma anche alla innovazione, all’energia, agli investimenti, alla buona occupazione, all’economia circolare, alla cooperazione internazionale, al funzionamento delle istituzioni, smettono di essere una lista e diventano un piano per la trasformazione del nostro mondo. Ecco allora che la sostenibilità sociale entra a pieno titolo in questa discussione e la qualità del lavoro è altrettanto importante della qualità dell’ambiente. Purtroppo, in Italia, ma non solo, non siamo su un sentiero di sostenibilità. Concludo con un riferimento. Prima delle elezioni, i giornalisti mi chiedevano: «Prof. Giovannini, come mai la gente non si trova nel meraviglioso mondo che il precedente Governo, i precedenti Governi raccontavano di aver conseguito? Per esempio, l’occupazione è tornata nei livelli ante-crisi, eppure la gente non lo sente. Come mai?». Io rispondevo: «Nel 2017, il Pil è aumentato dell’uno e mezzo per cento, lei calcoli quant’è l’uno e mezzo per cento del suo stipendio e veda se quell’uno e mezzo le cambia la vita. Poi deve dividerlo per tre, perché il reddito disponibile delle famiglie è aumentato solo dello 0,6%». Tutti dati esistenti. E poi, è vero che il livello degli occupati è tornato al periodo ante-crisi, ma se trasformiamo le ore lavorate in unità di lavoro a tempo pieno, cioè le classiche otto ore a cui corrisponde uno stipendio, siamo ancora un milione e 200 mila unità sotto il picco della crisi. Vuole dire che è un lavoro frammentato, un lavoro che non ti cambia la vita, un lavoro che ti lascia povero e non solo in Europa, tanto è vero che il 50% delle persone povere che non hanno un lavoro sono ancora povere dopo averlo trovato. E allora, tutto questo richiede un cambiamento di mentalità, un cambiamento nelle politiche – non importa quale sia la parte politica – per cui, mettendo un po’ di soldi in tasca alle persone, con gli 80 euro, la flat tax o qualsiasi altra cosa, l’economia riparte e tutti siamo in paradiso. No, Cerbero è e sarà ancora lì. Abbiamo bisogno di ben più che mettere un po’ di soldi in tasca alle persone per costruire una risposta vera, equa e sostenibile a queste sfide enormi che abbiamo davanti.

MARCO FATTORE
Grazie mille. Grazie di questo quadro che ci aiuta a prendere coscienza della complessità in cui siamo immersi, della complessità sistemica in cui siamo immersi. Ora abbiamo ancora un quarto d’ora. Pongo una domanda ai nostri ospiti e poi è possibile, eventualmente, fare un paio di domande dal pubblico, se qualcuno lo desidera. Lei citava il titolo del Meeting e lo cito anch’io. Ma davanti a questa complessità, a questa rischiosità, qual è il ruolo della persona che si organizza in comunità e che affronta con densità morale e anche con capacità di adattamento e di ricostruzione, di incontro del cambiamento, la sfida? Io scendo da questa visione interessante, sistemica, con due esempi molto più locali: uno del tutto locale, anzi, personale. Sono rimasto colpito dall’osservazione intorno a me, a Milano, della quantità di carità che avviene nei quartieri milanesi per rispondere ai bisogni concreti di persone concrete che perdono il lavoro, che perdono un familiare. Ho in mente cose reali, potrei fare nomi e cognomi, in cui continuo a vedere la comunità che si muove, che prende la forma del bisogno e che sostiene nella difficoltà la persona. Faccio un altro esempio un po’ più italiano, ad alto livello, e mi riferisco, sempre sul tema del lavoro, al dibattito recente sul Decreto dignità, che mi ha stimolato un punto di vista. Siamo davanti evidentemente a questa dinamica che abbassa anche la qualità del lavoro. Il dibattito che si è sviluppato è stato sostanzialmente tra una visione di normazione che impedisca il degenerare del lavoro attraverso delle regole, diciamo un approccio laburista, e una contrapposizione più liberale, di deregulation, per cui qualunque regola diventa un problema perché blocca la flessibilità. Ma io mi ricordo di uno studio che abbiamo fatto circa dieci anni fa, quando la crisi cominciò. Con i dati lombardi, si vedeva come la reazione dell’impresa alla crisi fosse lo spostamento del rischio sul lavoro. E anche questo, evidentemente, non è accettabile e non è sostenibile. E quindi, mi domando se non sia possibile, invece, una alleanza simpatetica tra il livello delle istituzioni che governa i processi e il livello operativo, motivazionale, creativo dell’impresa, dei corpi sociali di chi dentro la realtà costruisce, innova e genera un valore. Allora, le forze che muovono – girando il titolo del Meeting – il cuore dell’uomo, possono anche muovere la storia. Non è detto che tutte queste siano quelle che rendono il cuore felice, giustamente. La domanda che pongo velocemente ai due ospiti, e che rivolgerei inizialmente alla professoressa Maggino, è: qual è l’importanza della comunità e del suo rapporto con il contesto? E quali sono i punti da cui ripartire perché la persona e la comunità siano sempre più aiutati a sostenere i percorsi personali, lavorativi e non?

FILOMENA MAGGINO
Io partirei dal riprendere l’esempio con cui ho cominciato l’intervento, l’esempio della Protezione civile. La Protezione civile è fatta da una alleanza tra istituzioni che con molta professionalità sanno cosa fare, vedi i pompieri. Ma i pompieri da soli non potrebbero affrontare una crisi, qualunque essa sia, se non fossero affiancati da altri corpi più estemporanei, rappresentati dalla società civile, dal volontariato. Insieme, riescono ad affrontare la crisi. Un modello che nella Protezione civile funziona e che forse dovremmo essere capaci di riprodurre anche nel macro, anche in tutto il nostro vivere. Dopodiché, la questione è come ritornare da quella monade che descrivevo prima a una rete sociale che è poi nella natura dell’uomo: l’uomo è un essere sociale, non può vivere da solo. Sono tanti gli animali che non riescono a vivere da soli, non siamo aquile. Le aquile riescono a farlo. Ma cercare di ricostruire una rete sociale significa partire dalla formazione delle persone. Mi ricollego anche a quanto il prof. Giovannini ha richiamato a un certo punto sull’importanza della formazione, dell’educazione. Ma io come statistica, che a un certo punto devo capire se ce la facciamo oppure no, ho cercato di identificare quali possono essere gli elementi che mi consentano di capire la qualità di una rete sociale, di una comunità. Ho identificato tre caratteristiche che, guarda caso, sono tutte molto soggettive, molto individuali, non oggettive. Una – è stata anche richiamata prima – è la fiducia, la fiducia interpersonale e la fiducia nelle istituzioni. Ed è anche vero che in una comunità in cui c’è fiducia c’è anche una prospettiva temporale, si ha speranza nel futuro. Ma per potere avere fiducia nella propria collettività e per avere una prospettiva, occorre partire da una identità, che significa riconoscersi in una appartenenza. Queste tre variabili consentono di capire la qualità di una comunità. Nel mio piccolo, sto cercando di rilevarle perché esiste un modello matematica che, utilizzando queste tre variabili, è in grado di capire se la comunità è in grado di affrontare il futuro o meno. Questo modello ha un nome non molto bene augurante, “modello delle catastrofi”, però rende bene l’idea. Cioè, se in una comunità la fiducia si abbassa molto e quindi la speranza diminuisce, arriva un punto in cui la comunità crolla completamente, non esiste più. Questo modello è stato osservato in piccole comunità, anche se è applicabile a grandi comunità. Noi siamo a questo punto. Dobbiamo cercare di ricostruire una identità comunitaria. E il modello di Protezione civile che proponevo come modello da riprodurre anche in altri contesti, forse è qualcosa che ci può aiutare in questa direzione, ponendo al centro di tutto la formazione. Non mi dilungo perché mi piacerebbe anche ricevere qualche domanda dal pubblico.

MARCO FATTORE
Giro la domanda al prof. Giovannini con un solo, piccolissimo accento. Lei nel suo intervento ha usato una parola che mi ha colpito: frammentazione. Mi sembra che la frammentazione colga la situazione di oggi, una frammentazione dell’esperienza personale e sociale. Su questo volevo darle la parola.

ENRICO GIOVANNINI
Intanto, la sua prima domanda è che cosa possono fare la persona e la comunità. Risposta banale: leggere, studiare, discutere, non solo attraverso i social media ma ritrovando luoghi in cui l’incontro faccia emergere una sintesi. Torniamo a Hegel, su cui abbiamo costruito le nostre società moderne, non tweet ma confronto. Non ho nulla contro i social media. Anche quando ero ministro, mi sono rifiutato di essere su Facebook o su Twitter, perché i rischi di dire sciocchezze sono altissimi. E forse è l’età. Ma oggi abbiamo bisogno di ritrovare quella coesione di cui parlava la professoressa Maggino, anche nel confronto ma non sul “a me pare”. Leggendo e studiando. Questo è l’invito a tutti quelli che hanno voluto passare questa ora con noi e c’è tanto da leggere, anche non necessariamente super tecnico. Perché questa visione olistica, questa visione integrata di economia, società, ambiente, istituzioni è esattamente quella che oggi manca. La citazione del decreto Dignità mi sembra appropriata: ma se uno ha in mente quello schema che vi ho fatto vedere, capisce che la dignità è una cosa estremamente complessa, non può andare in un decreto legge, ci mancherebbe altro. Sarebbe importante che uno, quando fa un intervento, spieghi come quell’intervento si inserisca nel quadro complessivo di una visione. Questo vale per qualsiasi altro intervento di politica. Ma per fare questo serve una visione. Torniamo un attimo alla mia presentazione, vi faccio vedere un grafico. Se il mondo che ci aspetta è pieno di shock, beh, allora abbiamo bisogno di un ripensamento delle politiche che non possono essere le stesse di quando invece ipotizzavamo che sì, poteva esserci qualche crisi temporanea ma fondamentalmente saremmo andati a migliorare nei decenni. Questa non è altro che una rivisitazione di quel grafico dei rischi. Nell’asse in basso, c’è l’ampiezza dello shock, nell’asse verticale c’è la durata. Uno shock può essere breve e piccolo, breve e intenso, breve e medio. Se lo shock è breve e dura poco, riesco ad assorbirlo; se poi ho un po’ di risparmi da parte, me la cavo. La cassa integrazione è stata disegnata con questa idea, che le crisi classiche del capitalismo duravano sei, nove mesi, un anno al massimo, ma poi si ripartiva. Se lo shock è di media intensità o di media durata, mi devo adattare. Devo cambiare qualcosa. Ma se lo shock è di grande intensità o dura tantissimo, allora mi devo trasformare. È l’esempio dello studente. Vedo qui dei giovani che magari fanno l’Università: buchi un esame, ne buchi due o tre, dici: probabilmente devo adattare il mio modo di studiare. Ma se li buchi tutti, sistematicamente, probabilmente devi riflettere seriamente se questa è la strada giusta. Se immaginiamo di riordinare, riclassificare le politiche economiche, sociali, ambientali, in base ad un altro criterio che è quello del preparare, prevenire, proteggere, promuovere e trasformare, che è il classico paradigma che con l’ONU sviluppammo nel 2014 per il Rapporto sullo sviluppo umano, allora capiamo che c’è un altro modo di vedere le cose. E anche la comunità ha esattamente queste funzioni, non di fare la politica al posto dello Stato, della Regione o del Comune, ma di promuovere, proteggere, preparare, prevenire e trasformare dove necessario. Un esempio per tutti? Possiamo immaginare che, ad esempio, una politica di messa in sicurezza del territorio nazionale certamente prevenga i danni ma prepari anche le comunità a un modo di pensare in cui il rischio non scompare. Due mie colleghe dell’ASVIS si sono incontrate oggi ad Amsterdam, per caso, in un mercatino. Non sapevano che l’altra fosse lì. Io ho scritto: «Vedete, la probabilità 0 non esiste». Gli statistici lo sanno bene ma è l’idea che il rischio sia assente dalle nostre vite. Questo modo di pensare forse riesce a superare quella divisione tra politiche economiche, sociali, ambientali e istituzionali che poi si riflette nella divisione dei ministeri: bene che va, sono figlie del Novecento ma spesso sono figlie dell’Ottocento. Capisco che vi sto parlando di una cosa estremamente complessa, al punto tale che se poi ci mettiamo dentro anche il ruolo delle Regioni e dei Comuni, rischiamo di finire in un guazzabuglio. Signori, la vita è complicata, noi ce la rendiamo più complicata di quello che in altri Paesi riescono a fare, ma o noi ripensiamo anche in questi termini la divisione dei compiti e il concetto di sussidiarietà, oppure continueremo ad operare in modo disconnesso, e allora faremo un Decreto Dignità in una direzione, quando magari un altro decreto andrà contro la dignità o a favore. Concludo. Credo che alla base di tutto questo ci debba essere un discorso di verità. E l’unica verità possibile è che il futuro è molto più incasinato del passato. E dunque, l’ultima cosa a cui dobbiamo credere è pensare di anestetizzare le persone dicendo: «Se si fa questo, si sistema tutto, non ti preoccupare». La famosa pallottola d’argento, la silver bullet di cui parlano gli inglesi, è l’ultima cosa a cui dobbiamo credere. La realtà è complessa, il futuro lo sarà ancora di più ma la buona notizia è che questo piano, immaginato dai grandi della terra nel 2015, ha un sapore straordinario. Come mi è stato fatto notare, l’uomo è l’unica creatura vivente che riesce ad immaginare e forse non è un caso che la dichiarazione che accompagna l’agenda 2030 continui a parlare dell’idea che noi immaginiamo un mondo libero dalla povertà, un mondo in cui le ragazze, le bambine e i bambini saranno sicuri. È una utopia? Sì. Ma è l’unica utopia che forse muove la storia in una direzione che può rendere l’uomo felice.

MARCO FATTORE
Grazie, prima di concludere c’è tempo per una domanda, se il pubblico lo desidera.

DOMANDA
Ho una domanda sia per il professor Giovannini che per la professoressa Maggino. Sono stati fatti tanti bei discorsi nell’Agenda per il 2030 fatta nel 2015, che si prefissa obiettivi sicuramente nobili e condivisi. Però poi le redini, oggi, 2018, nel mondo, le tengono la Brexit, l’elezione di Trump, le elezioni in Italia. Ci saranno le elezioni europee l’anno prossimo: tutti i notisti e commentatori preannunciano che saranno traumatiche per un cambiamento di orizzonti, almeno nell’UE. Come si coniuga tutto questo con il fatto che poi la direzione, comunque, la danno coloro che sono al Governo, cioè che hanno le redini in mano? Secondo voi, come si può affrontare questo, come si può prevedere se questa Agenda sarà in qualche modo rispettata? Penso a Trump, che è già uscito dall’accordo sul clima, oppure alla visione retrotopica di cui lei parlava citando Bauman: come si può coniugare con tutto questo?

FILOMENA MAGGINO
Io dico sempre che noi non votiamo una volta ogni cinque anni o meno. Noi votiamo tre volte al giorno. Ovvero, dobbiamo essere consapevoli anche dei singoli gesti che facciamo. E avete capito a cosa mi riferisco a proposito delle tre volte al giorno: noi mangiamo. E quello che è nel piatto ha un significato, non solo per il nostro corpo ma anche per la nostra comunità. È costato sacrifici, c’è qualcuno che raccoglie pomodori. Allora, dobbiamo essere consapevoli di queste cose. Ci sono momenti nella vita comunitaria che ci consentono di spingere verso un cambiamento e questo cambiamento, se sarà positivo, dipende anche da noi e non solo da una scheda, dai singoli gesti di tutti i giorni. Vi invito a riflettere su questo.

ENRICO GIOVANNINI
Per chi studia la sostenibilità, era già tutto previsto: il rischio che quel 2030 del Club di Roma si realizzi è altissimo. E non lo dice Enrico Giovannini, lo dicono i grandi della terra che hanno sottoscritto l’agenda 2030, salvo poi non avere neanche tradotto in italiano gli impegni assunti, ma questo è un altro discorso. Noi dobbiamo accettare la visione distopica, la visione retrotopica o la visione utopica. Ognuno di noi, uscendo da qui, deve fare questa scelta. Se la fa in una certa direzione, forse avremo passato del tempo utile insieme e forse da oggi deciderà di cambiare alcuni comportamenti, perché molto dipende da noi, come diceva Filomena. E molto dipende, lo si ricordava prima a proposito della dignità, dai nostri comportamenti come consumatori e dai nostri comportamenti, magari nel piccolo, come evasori. Io ho fatto dei piccoli lavori di ristrutturazione della casa e lo stupore degli operai, quando ho detto: «No, no, io voglio la fattura!». Mi dicono: «Ma non ci sono le detrazioni». «Non importa, voglio la fattura». È un niente, e nessuno può dire: «Ah, io sono a posto!», perché poi ognuno di noi inquina, ognuno di noi lascia l’acqua aperta quando si lava i denti, e così via. Ma il punto cruciale, e torno di nuovo a quello che ha detto Filomena, è che i comportamenti di ognuno sono fondamentali ma la sostenibilità richiede decisioni della politica grosse come case. Le prossime elezioni europee sono fondamentali. La buona notizia è che alcune forze politiche europee, magari quelle in maggiore difficoltà, stanno decidendo di prendere l’agenda 2030 come bandiera per il futuro. L’Europa, che ha insegnato al mondo che cosa vuole dire sviluppo sostenibile, adesso sembra invece presa anche essa da una visione retrotopica, lasciando alla Cina addirittura il compito di campionessa di sviluppo sostenibile, pensate a come si ribalta il mondo, almeno nell’immaginario collettivo. Ecco, i prossimi mesi saranno decisivi. Noi come Asvis abbiamo fatto dieci proposte alle forze politiche e alla maggioranza attuale. In particolare, il movimento Cinque Stelle ha sottoscritto quei dieci impegni, l’altra forza di governo, la Lega, no, insieme a Fratelli d’Italia sono state le uniche due forze che non hanno sottoscritto gli impegni. Il primo impegno è quello di mettere lo sviluppo sostenibile in Costituzione, come uno dei principi fondanti del nostro futuro. L’ha fatto la Francia, l’ha fatto la Norvegia, lo stanno facendo in tanti. Io sono molto lieto che la professoressa Maggino possa avere un ruolo presso la Presidenza del Consiglio per stimolare il Governo e la Presidenza in particolare che, su nostra richiesta, ha portato a Palazzo Chigi il coordinamento delle politiche sullo sviluppo sostenibile, vista la complessità. Vedremo la legge di bilancio, vedremo i fatti concreti, vedremo se effettivamente riusciremo a contribuire a cambiare la direzione, sapendo però che il cambiamento di mentalità in ognuno di noi è altrettanto importante per chiedere le politiche giuste, oltre che per chiudere l’acqua quando ci laviamo i denti.

MARCO FATTORE
Grazie, dobbiamo chiudere, quindi io concludo molto velocemente con un paio di osservazioni e un piccolo avviso. Ringrazio ovviamente tantissimo gli ospiti per quello che ci hanno illustrato, per i punti che hanno sottolineato, lo sguardo di insieme che hanno fornito. Penso di poter dire che in questo quadro riemerge la responsabilità che abbiamo, a tutti i livelli, anche personale. Io, come molti di voi, sono stato, appartengo alla generazione che ha avuto maggior benessere nella storia dell’umanità. Settant’anni di pace, fondamentalmente abbiamo potuto non inseguire la sopravvivenza ma studiare, coltivare le nostre capacità. Questo non è un fatto, dal mio punto di vista, naturale, è una cosa che è accaduta e qualcuno ha faticato molto per costruire queste condizioni. Invito tutti quanti a vedere la mostra della fondazione De Gasperi sulla Assemblea costituente. Non credo che sia scontato che queste condizioni permangano nel futuro e credo che la nostra generazione abbia questo compito, di continuare a rigenerare queste condizioni perché gli shock lunghi non sono shock ma continui cambiamenti, in un certo senso, e noi infatti siamo in una condizione di continuo cambiamento. Credo che la nostra responsabilità sia di continuare a ricostruire queste condizioni di benessere sostenibili per noi e per i nostri figli. L’uomo è l’unica creatura che sa immaginare, si diceva prima. E questo mi fa venire in mente una frase di don Giussani con cui vorrei chiudere: «La libertà di movenze immaginative e operative è una questione di vita o di morte per una civiltà e lo è pure per la democrazia della libertà, per questo spazio, per il lavoro su cui si misura la democraticità di ogni potere e il suo rispetto della libertà». Mi sembra che questo richiamo alla capacità di immaginare responsabilmente, di costruire, sia il punto su cui ricominciare ancora una volta a costruire assieme una alleanza di tutte le forze buone del Paese. Ringrazio tutti e vi auguro un buon Meeting.

Data

21 Agosto 2018

Ora

15:00

Edizione

2018
Categoria
Arene