ESSERE ITALIANI. Ciclo a cura di Luciano Violante

Partecipano: Diego Piacentini, Commissario Straordinario per l’attuazione dell’Agenda Digitale; Luciano Violante, Presidente Emerito della Camera dei Deputati. Introduce Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà.

Essere italiani. Ciclo a cura di Luciano Violante

Ore: 19.00 Salone Intesa Sanpaolo A3
ESSERE ITALIANI. Ciclo a cura di Luciano Violante

Partecipano: Diego Piacentini, Commissario Straordinario per l’attuazione dell’Agenda Digitale; Luciano Violante, Presidente Emerito della Camera dei Deputati. Introduce Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà.

GIORGIO VITTADINI
Buongiorno, siamo qui per questo primo incontro del ciclo promosso dal presidente Violante sul tema “Essere italiani”, un tema che in questo momento è particolarmente attuale perché un po’ ripercorre la storia del nostro Paese, un Paese che anche nei secoli scorsi, anzi, diciamo da 2000 anni fa, è sempre stato un Paese di talenti, che ha creato per tutto il mondo storia, arte cultura, innovazione, ma che ha raggiunto l’unità nazionale molto tardi. Ha questa strana caratteristica, che essere italiani ha voluto sempre dire qualcosa di importante, ma già 500 anni fa essere italiani non era una entità nazionale, era una caratteristica ben precisa come nazione, ma non uno Stato. La cosa è continuata perché appunto solo nel 1861 siamo diventati un Paese unitario, abbiamo però fatto fatica a vivere questa unità, ci sono state sempre divisioni importanti. Eppure, ancora una volta, caratterizzando tutto il mondo con questo essere italiani – pensiamo ai 26 milioni di emigrati – non abbiamo mai superato quella battuta: «Abbiamo fatto l’Italia, dobbiamo fare gli italiani». Diciamo che la cosa è andata a sensi alterni, perché per esempio nel dopoguerra questo essere italiani ha voluto dire uno sforzo comune, pure con divisioni molto importanti. Abbiamo raggiunto il risultato di essere uno dei Paesi più sviluppati, più industrializzati del mondo, abbiamo raccolto l’oscar della lira all’inizio degli anni Sessanta. Sembrava che questa unità nazionale fosse solida, ma la storia della nostra Repubblica è anche una storia, come sappiamo, di grandi divisioni e di grandi difficoltà. Adesso siamo in un’epoca di nazionalismi, perché dal Giappone agli Stati Uniti, India, Pakistan, Turchia, Russia, Ungheria, Polonia, Austria, sembra tornata l’idea della nazione quasi ottocentesca. Anche in Italia si parla di sovranismo. Eppure, questo tema dell’essere italiani sembra essere tornato in crisi: perché, che cosa vuole dire essere italiani? Noi ci portiamo dietro le divisioni, diciamo territoriali, che sembrano non essere state superate e viviamo una divisione anche culturale, ideologica, di pensiero, molto più grande rispetto agli anni precedenti. Diciamo che una delle caratteristiche di questo essere italiani, anche come nazione, è stata per tanti anni, sicuramente all’inizio della Seconda Repubblica, quella dei corpi intermedi, cioè del fatto di essere persone che non vivevano solo un rapporto con lo Stato, come c’è in molti altri Paesi, ma avevano realtà di movimenti e associazioni, realtà culturali in cui ci si aggregava. Oggi anche questo sembra essere in crisi e questo essere in crisi ha due effetti: ci si chiude in corporazioni, non in corpi intermedi, cioè in realtà chiuse, che guardano al loro esterno in modo sospettoso e, secondo effetto, queste corporazioni non riescono a costruire un’identità nazionale e lasciano spazio all’individuo rispetto allo Stato. Il presidente Violante ha pensato che oggi domandarsi molto banalmente cosa sia essere italiani, in un momento in cui anche essere italiani per la Nazionale vuole dire molto poco – perché per la prima volta dopo tanto tempo siamo andati oltre il XX° posto del ranking internazionale del calcio – può essere importante. Cosa vuol dire oggi? L’altro giorno, sul Corriere, Polito dice: siamo un popolo che ha smesso di credere nel progresso. Altri dicono: siamo un popolo che ha smesso di credere nella partecipazione, che pure era una cosa importante, oppure siamo un popolo che è unito nel lamentarsi. Sembra che l’essere italiani oggi sia qualcosa che ha un effetto negativo, certamente molto distante, da quel titolo che – come dice giustamente, sempre sul Corriere, Di Vico – parla di un’antropologia positiva, che porta a costruire la storia, e quindi anche un’identità nazionale, in termini positivi, costruttivi, che ha a che fare con la felicità. E allora capite che questo non è un incontro con un argomento e uno svolgimento scontato. Questo incontro, questo ciclo, è veramente un punto di domanda interessante: cosa oggi ci rende italiani come persona, come coscienza, come aggregazione e come realtà anche politica, culturale, sociale e scientifica? Per questo, i due interlocutori che inaugurano il ciclo sono appropriati, prima di tutto perché di grandissima rilevanza e poi perché nella loro diversità di storia e professionalità ci permettono di dare una risposta a questa domanda che comincia ad entrare nel merito. E abbiamo infatti Luciano Violante, professore di Diritto costituzionale e poi presidente della Camera dei Deputati, Giudice istruttore a Torino, protagonista delle inchieste antiterrorismo, oggi presidente della fondazione “Italiadecide”, grande amico del Meeting e curatore del ciclo: lo ringraziamo con un applauso. E poi Diego Piacentini, che è uno dei più grandi manager a livello mondiale. Dopo avere lavorato sedici anni per Amazon, ricoprendo il ruolo di vice Presidente internazionale, da due anni lavora pro bono come Commissario Straordinario per l’Attuazione dell’agenda digitale del governo italiano, un fattore fondamentale di questo essere italiano e dello sforzo dell’Italia di adeguarsi ai tempi. Anche a lui rivolgiamo un grande applauso, è anche lui un grande amico del Meeting. Darei la parola innanzitutto a Luciano Violante perché ci spieghi, lui che ha proposto questi incontri, come si svolgeranno, qual è il suo obiettivo, cosa pensa dell’essere italiani.

LUCIANO VIOLANTE
Forse dovrebbe esserci un video…

GIORGIO VITTADINI
Partendo dal video, volevo che però tu lo presentassi.

LUCIANO VIOLANTE
Sì, abbiamo sentito 21 persone – alcune personalità e altre persone – e ciascuno ha detto che cos’è per lui essere italiano, cosa vuole dire. Questo che vedete adesso è una sintesi di sette-otto minuti, il pezzo è molto più lungo e potete trovarlo sul sito del Meeting.

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Avete visto che ci sono tanti modi di essere italiani, credo che ciascuno di noi abbia in testa un suo modo di partecipare alla comunità nazionale. Nel 1983, al festival di Sanremo partecipò un cantante che si chiamava Toto Cutugno e cantò una canzone, L’italiano, eccone un pezzettino. Quasi contemporaneamente, Giorgio Gaber cantava questa canzone.

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La canzone si chiude dicendo: «Per fortuna sono italiano», finisce bene. La frase «Io non mi sento italiano», credo che l’abbiamo sentita molte volte nella nostra vita, contesta l’appartenenza ma, per il fatto stesso che la contesta, la riconosce, perché l’identità non va scoperta, non è un oggetto finito e nascosto. È un concetto che va ricostruito sulla base di molti fattori che, connessi tra loro, contribuiscono a creare una realtà unitaria. La geografia, la storia, la civiltà, la letteratura, le città, ecc.: sono tante le fonti dalle quali è necessario partire per risalire ad un concetto unitario di identità. Se un territorio ha vissuto più di due millenni di storia, come è capitato all’Italia, alcuni da grande protagonista, la ricostruzione non può prescindere dai segni lasciati nella storia della civiltà. Definire oggi l’identità significa trarre da realtà profonde della nostra storia millenaria il nucleo essenziale dell’essere italiani, riproporlo integrato dai dati della modernità come fattore nel quale ci si possa riconoscere. Questa esigenza può essere determinata da tre diverse circostanze, frutto della storia o della politica. Perché insistere sull’identità? Ci può essere una fase di regressione, quando sembra che un Paese abbia smarrito il senso di sé come accadde da noi subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, o una fase di patologica esaltazione, come accadde durante il fascismo, con la tragica deriva delle leggi razziali; oppure il tentativo dettato da dichiarate esigenze politiche di proporre l’identità che non corrisponde alla storia della nazione italiana, ma corrisponde ad un distinto progetto politico, come sembra nei nostri tempi. Ecco, gli italiani sono esistiti prima della costruzione della nazione italiana, prima dello Stato italiano. Nessuno ha mai dubitato che Dante, Petrarca, Leonardo, Michelangelo fossero italiani. Nel 1454, uno storico molto importante dell’epoca che si chiamava Flavio Biondo dedicò al doge veneziano Francesco Foscari uno scritto sull’origine dei veneziani. Nella premessa, egli diceva di se stesso: «Io sono italico, ma se valgo qualcosa lo devo al mondo cristiano e alla stessa Italia». Cioè, nel 1454 un veneto parlava dell’appartenenza all’Italia. Gli Asburgo, nel Cinquecento, invitarono architetti che si definivano italiani per disegnare gli edifici della Boemia. Nel Settecento, quindi due secoli dopo, Pietro il Grande di Russia e Caterina la Grande, zarina russa, invitarono a corte architetti italiani per trasformare una landa paludosa attraversata dalla Neva in quella che sarà poi l’aristocratica San Pietroburgo. Che cosa caratterizzava queste personalità così diverse nell’essere italiane? Il fattore di questa identità non era l’appartenenza ad uno Stato che non c’era, fu l’appartenenza ad uno specifico modello culturale che non si riscontrava evidentemente in altri Paesi ed era costituito dalla creatività artistica, favorita dall’ambiente, dall’essere circondati da opere d’arte, dal vivere insieme a maestri capaci di costruire e trasmettere bellezza, dall’essere diffusi sul territorio non omologati ad un unico modello, ma ciascuno con una propria specificità artistica. Insomma, gli italiani ci sono da prima dell’Italia; quindi, forse, bisogna rovesciare la frase che citava Giorgio Vittadini attribuita a D’Azeglio (in realtà non è sua): «Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani». In realtà, gli italiani c’erano, bisognava fare l’Italia. I pilastri della identità italiana, a mio parere, sono tre: la molteplicità (tanta cultura, tanta creatività), la tolleranza, la lingua e il cattolicesimo. Un dato determinante della nostra storia è la mancanza di un potere politico centrale capace di riunificare il Paese come accadde intorno al 1500 in Francia, in Spagna e in Gran Bretagna. L’Italia politica si è formata con circa tre secoli di ritardo rispetto ad altri grandi Paesi europei: abbiamo avuto per secoli piccoli regni, granducati, marchesati, repubbliche, comuni, non uno Stato centrale ed un potere politico capace di produrre unità. Abbiamo invitato le repubbliche e i comuni alfieri di libertà, ma nessuna di queste realtà avevano il peso politico che ad esempio esercitavano i principati tedeschi che eleggevano gli imperatori. L’assenza di un potere centrale riunificatore ha avuto effetti negativi gravi: la difficoltà di coltivare l’interesse generale e di avere una visione nazionale del futuro del Paese, il localismo, la tendenza all’autodenigrazione (come se a parlare male dell’Italia si parlasse di qualcosa di diverso da sé), il trasformismo (che, nella lettura benevola che le dette Benedetto Croce, era una modalità di governo intesa come coesistenza tra gli interessi e i valori). Come tutti i Paesi del mondo, abbiamo quindi difetti ma anche virtù, e alcune di queste virtù, paradossalmente, sono proprio gli effetti positivi del ritardo della costruzione dello Stato unitario. Mi soffermo sulle virtù perché dei vizi siamo tutti ampiamente edotti e perché crogiolarsi nel rammarico del vizio alimenta irresponsabilità – le cose vanno male, perché mi devo impegnare? – e non permette nessun progresso, e poi perché solo facendo leva sulle virtù si superano i vizi. Come dicevo, l’assenza di un forte potere politico centrale ha favorito la molteplicità e la ricchezza italiana perché nessuno ha imposto dall’alto uno specifico modello culturale, istituzionale ed economico. Ciascun piccolo Stato, nel concorrere con i vicini, ha cercato di esprimere il meglio di sé in termini di capacità produttive, di opere d’arte, di urbanistica, ha accolto letterati, scultori, pittori, musicisti che davano lustro al signore del posto e che nello stesso tempo rendevano ricca non solo economicamente ma anche culturalmente la città. La nostra libera molteplicità, creatività, nell’arte, nella cultura, nell’eleganza, nella cucina, deriva proprio da una assenza di un comando politico centrale (a differenza di quello che è accaduto in Francia dove c’è stato un comando politico centrale). L’assenza di questo forte potere politico e la frequente chiamata in soccorso di sovrani stranieri da parte di qualche piccolo Stato italiano ha favorito attraversamenti e scorrerie, è stato spesso drammatico ma ne è derivata una abitudine alla diversità, una attitudine alla accoglienza, una elasticità nella vita quotidiana e in quella lavorativa diretta a trovare soluzioni invece che a lamentarsi delle difficoltà. Non abbiamo conosciuto né i massacri di San Bartolomeo né le guerre di religione che nella prima metà del Cinquecento insanguinarono per 30 anni gran parte dell’Europa. Uno studio recentemente pubblicato da Limes si sofferma sulla insospettabile omogeneità italiana. Tra i fattori di questa omogeneità in rapporto ad altri Paesi spicca la lingua. Le scuole spagnole insegnano ancora oggi, a seconda dei luoghi, quattro madrelingue diverse: catalano, galiziano, basco e castigliano. Il governo di Madrid deve accettare il fatto compiuto. In Belgio, francese e fiammingo si contendono lo stato di lingua ufficiale. Nel Regno Unito, a fianco dell’inglese resistono gaelico e scozzese. Andando indietro nel tempo, nello stesso periodo in cui Dante scriveva in volgare, cioè in italiano, la sua Commedia, dalla parte opposta del Paese, alla corte di Federico II a Palermo, Jacopo da Lentini scriveva nella stessa lingua di Dante. Nel corso del Risorgimento si discusse la necessità di adottare una lingua comune per l’Italia, furono coinvolte molte personalità e si decise per il fiorentino. Nessuno trovò eccezioni, e come ricorderete, anche Alessandro Manzoni decise di trascrivere i suoi Promessi Sposi correggendolo in fiorentino. Infatti si disse che «andava a sciacquare i panni in Arno». Fu un contributo che Manzoni diede alla causa del Risorgimento e da allora nelle scuole italiane, pacificamente, si insegna una sola lingua che è l’italiano. La Chiesa cattolica ha rivestito un ruolo particolarmente rilevante per la definizione della identità italiana. Bisogna risalire forse al cristianesimo delle origini, quando Paolo, che era un cittadino romano, decise di trasferire la nascente religione dall’ambiente ebraico nel quale era nata, nel cuore dell’impero romano, la cui ambizione di universalità fu poi fatta propria dalla Chiesa cattolica. La Germania e l’Ungheria sono divise tra cattolici e protestanti, gli Stati Uniti tra cattolici, protestanti ed evangelici; il Regno Unito è diviso tra anglicani, presbiteriani, cattolici e metodisti. La fede cattolica non divide l’Italia ma ha contribuito in modo determinante a costruire il carattere degli italiani. Passo infine ai motivi per i quali oggi appare necessario affrontare la vera natura della identità italiana. In gran parte dei 73 anni che ci separano dalla fine della seconda guerra mondiale, ha prevalso nel mondo una concezione liberal-democratica fondata sullo sviluppo delle relazioni internazionali (pensiamo all’Unione europea), sul multiculturalismo, sulla accoglienza, sul rispetto dei diritti fondamentali. Ma a partire dai primi anni di questo secolo, questa concezione è contrastata in gran parte del mondo da una concezione fondata sui principi di un nuovo nazionalismo che si fa chiamare sovranismo, come citava prima Giorgio Vittadini: India, Pakistan, Slovenia, Ungheria, Repubblica Ceca, Stati Uniti, Italia e così via. Le cronache ci dicono che in molti di questi Paesi, compresa l’Italia, sono aumentate le aggressioni nei confronti di coloro che sono considerati altro da sé: neri, zingari, omosessuali. Si tratta di una conseguenza diretta e preoccupante dell’intendere l’identità in modo nazionalistico ed escludente: insultare, picchiare e ferire, uccidere una persona perché nera o perché zingara o perché omosessuale, funziona, purtroppo, come fattore costitutivo-rafforzativo di una identità che tende all’esclusione, alla determinazione di confini tra sé e l’altro. Non so se ricordate, alcuni anni fa, quando l’onorevole Kyenge era ministro in un governo Prodi, che fu aggredita da alcuni che le lanciarono contro delle banane. Queste persone dissero: «Non siamo razzisti, siamo identitari». L’identità era costruita sull’aggressione nei confronti dell’altro. Questa identità non ci appartiene, questo abito non è il nostro abito. Questa identità nazionalista e violenta non fa parte della nostra storia e della nostra cultura, ma se non le viene contrapposta con forza e con determinazione e con continuità una diversa identità, un altro modo di essere italiani, è inevitabile che essa si faccia strada. Dagli atti saltuari, individuali e non coordinati si può passare a discriminazione programmata e poi ad una forma di pensiero collettivo. Il modello Orban è dietro l’angolo. Nel 1923 un grande giornalista italiano, Giulio De Benedetti, intervistò Adolf Hitler per La gazzetta del popolo, quotidiano di Torino: Hitler gli espose il suo programma. Leggo: «…distruzione di una idea internazionale, attirare al nostro movimento le masse operaie, vogliamo che il potere dello Stato sia affidato alla minoranza onesta e capace. Si immagina lei che io, dittatore, mi lascerò comandare dal parlamento o dai cosiddetti rappresentanti del popolo?». De Benedetti concluse l’intervista dicendo: «Non mi pare un dittatore troppo pericoloso». Aveva sottovalutato, dieci anni dopo si aprì il lager di Dachau. Occorre difendere la nostra vera identità, non quella proposta a posteriori sulla base delle esigenze contingenti di chi intende costruire nemici per acquisire consenso, ma costruita fedelmente sulla base della nostra storia politica, civile e culturale. La nostra identità è quella della cultura, dell’accoglienza, del rispetto dell’altro, della bellezza da vivere e produrre, della creatività, della sapienza del fare. Sono queste le caratteristiche che consentono a tanti italiani, come a Diego Piacentini, di primeggiare in contesti altamente selettivi e altamente competitivi. Qualcuno si chiederà: ma perché fuori dell’Italia? Perché gli italiani ci sono ma, forse, non abbiamo ancora finito di fare l’Italia. Grazie.

GIORGIO VITTADINI
Allora, a Diego Piacentini chiediamo di completare quello che ci ha detto Luciano Violante, partendo dalla sua esperienza professionale che è stata un’esperienza a livello mondiale. Ma che nesso c’è tra la coltivazione di un talento e l’identità di essere italiani, fare il percorso in Italia o all’estero, e che tipo di caratteristiche, di qualità particolari ha, anche nel mondo professionale, l’essere italiano?

DIEGO PIACENTINI
Innanzitutto ringrazio per l’introduzione lusinghiera. Questa è la mia seconda partecipazione al Meeting per l’amicizia. La prima è stata nel 1998, esattamente venti anni fa: mi portò un carissimo amico che vedo qua davanti, Mario Guaraldi, che mi ha convinto a ritornare dopo vent’anni. Nel ‘98 ero stato appena nominato capo di Apple Europa, e mi ero appena trasferito dall’Italia a Parigi, distanza molto limitata. Dopo che, complessivamente, avevo fatto tredici anni in Apple, sono emigrato insieme a moglie e figli in questa piccola azienda che vendeva libri online e che si chiama Amazon. Milano, Parigi, Seattle, questo è stato il percorso. Parlavo prima con il professore Violante: senza entrare nel dettaglio personale, le eccellenze sono eccellenze, che tu sia italiano, francese, americano o giapponese, quando sei parte di persone che hanno avuto la fortuna (perché gioca tantissimo, la fortuna) di avere delle esperienze come quelle che ho avuto io, appartieni a questo mondo. Durante i nostri incontri, così come quando sono arrivato in Amazon, nessuno mi ha chiesto: di che nazionalità sei? Semmai, poi, l’accento aiutava la comprensione. Qui ti rendi conto che di fatto, in moltissimi contesti, l’essere italiano, l’essere francese, l’essere europeo non fa differenza: tra l’altro gli americani hanno questa tendenza a dire “voi in Europa”, quindi, già hanno questa difficoltà a distinguere una nazione dall’altra. Per loro, c’è la Gran Bretagna e il resto d’Europa. In Amazon ho anche avuto la fortuna di partire come responsabile delle attività internazionali: quando sono arrivato, di fatto non c’era attività internazionale, eravamo agli inizi e ho avuto la fortuna di essere esposto a tantissime culture diverse. Abbiamo lanciato Amazon in Europa, in Cina, in India, in Brasile, di recente in Medio Oriente. Abbiamo visto – e ho visto personalmente – questo modo di interagire con l’innovazione tecnologica da parte di tantissimi Paesi diversi. Però torniamo al punto di prima: questo è di fatto ciò che fa progredire il mondo, indipendentemente dalla nazionalità, le eccellenze di qualsiasi nazione, di qualsiasi cultura, di qualsiasi religione parlano sostanzialmente la stessa lingua. Quando dico eccellenza non intendo dire solamente eccellenza tecnologica, può essere eccellenza nel campo delle scienze umanistiche, delle arti, e comunque sono le persone che fanno progredire e portano avanti il mondo in una certa direzione. All’interno di tutto questo, io ho avuto fortuna: ritorno spesso alla parola fortuna perché molti ragazzi mi chiedono: «Ma come si fa ad avere una carriera come la tua?». Ovviamente, ci sono dei requisiti ma gioca tantissimo il ruolo della fortuna, essere al momento giusto nel posto giusto, devi cogliere le occasioni. Una delle domande che fa Jeff Bezos durante i colloqui è se una persona si considera più fortunata o più brava. Se la risposta, anche non diretta, è più bravo, il colloquio finisce dopo cinque minuti. Quindi conta anche la capacità di ammettere di avere avuto fortuna, conta non essere tra quelli che si lamentano sempre perché le cose non succedono Ma andiamo al punto. Tra l’altro, mi fa sorridere parlare di give back, che in italiano si dice restituzione, in un Meeting di Cl dove ci sono 3 mila volontari. Parlare di give back a Rimini è come parlare di ghiaccio agli eschimesi. Detto questo, sento di avere un terreno fertile davanti a me e di essere compreso.

SLIDE

Parto da questo che è l’asilo di mio figlio: mia moglie faceva la volontaria per raccogliere i fondi. Tra l’altro, mio figlio è quello in alto a sinistra, con la maglia rossa. Siamo nel 1998, ‘99, all’ asilo di Redecesio: mia moglie guidava il comitato di raccolta fondi e dopo numerose settimane di sforzi immani erano riusciti a raccogliere soldi per comprare i giocattoli, 1 milione e 200 mila lire che erano i 600 euro di allora. Ci trasferiamo negli Stati Uniti, come vedete i bambini sono molto simili, un paio di anni dopo, questo è l’altro mio figlio, quello seduto in basso. Partecipiamo all’asta della scuola elementare, una serata benefica con tutti i genitori: questo viene visto come un momento molto importante perché la scuola è il momento di crescita dello studente. In una serata – con le dovute proporzioni -, hanno raccolto 220 mila dollari. Non voglio fare la differenza tra Redecesio e Seattle, siamo passati da una situazione dove la raccolta fondi per aiutare la scuola era un fatto eccezionale, lo sforzo di alcuni individui, ad una situazione dove questa cosa fa parte della struttura. È normalissimo, negli stati Uniti e nel mondo anglosassone in generale: tu lavori, fai fortuna e restituisci alla scuola, alla comunità; aiuti i musei a crescere, aiuti le molte attività di carattere culturale a svilupparsi. Quindi, si passa da situazioni dove il give back, la restituzione, l’aiuto è determinato dalla volontà del singolo a una situazione dove fa parte della struttura. Ovviamente ci sono anche risvolti negativi, però la grossissima differenza alla base è questa. Andiamo avanti dieci anni, siamo nel 2008, Obama era da poco diventato presidente degli stati Uniti, il sito del sistema di sanità pubblica chiamato Obama care è crollato completamente il primo giorno, dopo che erano stati spesi circa 100 milioni di dollari per crearlo: sprecare soldi per la spesa pubblica, vi assicuro, non è solamente un fenomeno italiano. Cosa succede? Un sistema assicurativo, una delle riforme più importanti di Obama per cercare di portare l’accesso all’assistenza medica anche a quella parte di società meno abbiente. Con sforzi tecnologici non indifferenti, il primo giorno che parte non funziona nulla. Cosa è successo? Da noi, in Italia, ci sarebbero state le ovvie grida di lamentele, ci sarebbero stati due o tre convegni, si sarebbe cercato di fare un paio di leggi; e di fatto, dopo tre anni, sarebbe rimasto tutto com’era. Ci sono state invece delle persone che hanno detto: «Dobbiamo fare qualche cosa». Persone che lavoravano in società tecnologiche come Google e altre che hanno lasciato le loro aziende – chi per sei mesi, chi per un anno o due – e, nel giro di poche settimane, hanno portato queste competenze che mancavano ai governi. I governi, di tecnologia capiscono ben poco e si affidano interamente a fornitori esterni. Dopo poche settimane, si è tornati ad un sito molto più moderno e funzionale. Ecco cosa hanno fatto queste persone, quindi il give back non è unicamente un concetto di beneficienza. Hanno portato un loro bagaglio personale: chi ha portato la capacità di gestire sistemi complessi, chi ha portato la capacità di sviluppare tecnologia, chi ha portato la capacità di far funzionare un sito e rendere gradevole una user interface. Tutto questo ha portato una innovazione incredibile: gente che si è spostata dalle proprie scrivanie per andare ad aiutare il governo a fare qualche cosa che era di utilità pubblica. Andiamo avanti di qualche anno, a questo punto mi trovo nel 2016: avevo ormai trascorso 16 anni in Amazon. L’allora Presidente del Consiglio dei ministri, Matteo Renzi – stiamo parlando di ere geologiche fa – visita l’area di Cupertino, mi fa chiamare e dice: «Guarda, io ho questa idea di trasformazione digitale della pubblica amministrazione, vorresti tornare in Italia?». La mia risposta è stata del tipo: «Stai scherzando, vero?». La conversazione si approfondisce nel corso dei mesi e io mi accorgo che da qualche parte, nella parte posteriore del cervello e nella parte del cuore, l’idea di tornare e aiutare il mio Paese, restituendo quello che avevo imparato, stava prendendo piede. E quindi, quello che ho detto è stato: «Proviamo a farlo». Questo nella foto è il famoso Yoda di Guerre stellari. Immagino che tutti prendano ispirazione da un modello, così mi sono detto che nella vita avevo avuto dei modelli importanti e che dovevo diventare a mia volta un modello per gli altri. Ho deciso di tornare in Italia per un paio di anni e ho accettato un incarico per fare il cosiddetto “Commissario Straordinario per la digitalizzazione della pubblica amministrazione”. Il meccanismo decisionale è stato questo: tutti mi dicono che sarà un tentativo senza successo, che in Italia ci si prova ma le cose non funzionano, però è meglio pentirsi di avere provato senza avere avuto successo, piuttosto che pentirsi di non averlo fatto. Se rifiuto – mi sono detto – tra due, tre, quattro anni potrei continuare a dire: ma perché non ci abbiamo provato? Con questo parametro decisionale mi sono avvicinato a una decisione importantissima nella mia vita: trasferirmi da Seattle a Roma con la famiglia per tentare questa missione veramente complicata di trasformazione digitale dell’amministrazione. Ovverossia, passare dalla burocrazia analogica alla semplificazione dei processi. Ma chi te lo fa fare? Molli Amazon, pro bono, qualcosa ti daranno, sotto sotto! La mia decisione era fare questa cosa pro bono perché mi sembrava importante sottolineare l’idea di aiutare il Paese. I commenti sopra non erano opera di avversari politici, che neanche avevo, ma molto semplicemente dei miei genitori, quando avevo detto loro della scelta di mollare Amazon per un certo periodo di tempo. Tra l’altro, Jeff Bezos mi aveva detto: «Non lasciare Amazon, prenditi due anni di aspettativa, poi deciderai cosa fare». Un approccio molto saggio. La reazione dei miei genitori mi aveva fatto capire come la cultura del sospetto nell’approcciare la cosa pubblica sia innata. Mi ricordo perfettamente mio padre: «Ma dai, qualcosa sotto sotto ne avrai, di beneficio!». All’epoca mi dissi: «Caspita se questo arriva dai miei genitori, chissà gli avversari politici di Renzi cosa diranno nel momento in cui accetterò questo incarico!». Incarico che poi ho accettato. L’unica cosa che chiesi a Renzi fu: «Voglio portarmi a bordo persone compenti». La faccio breve: trasformazione digitale vuole dire competenza tecnologica, senza competenza tecnologica non si va da nessuna parte. E quindi dobbiamo assumere persone dall’esterno. L’unico modo per assumere persone dall’esterno era essere nominato Commissario Straordinario. Pensai: siccome i sistemi dall’interno non si possono trasformare, devo creare una squadra di persone che possano venire con me, si identifichino nella mia missione, nel senso di give back al Paese e vogliano costruire qualcosa insieme. Infatti, nella mia prima comunicazione ho pubblicato delle job description delle persone che volevamo si identificassero con la mia missione: «Cari talenti che vivete in Italia o che avete voglia di tornarci anche temporaneamente, a un compenso che probabilmente sarà ben inferiore al vostro attuale, come vi convinco?». Questa è l’immagine dell’omino della Bell, che negli anni Cinquanta correva come un matto da una famiglia all’altra per cablare telefonicamente il Paese. Avevamo davanti la visione della creazione del sistema operativo del Paese, una serie di componenti fondamentali sui quali costruire i servizi più semplici ed efficaci della pubblica amministrazione. Un lavoro immenso che noi stiamo solamente incominciando: ci vorrà un decennio per riuscire ad arrivare a una totale semplificazione della pubblica amministrazione, se mai ci si arriverà. E poi ho aggiunto alcuni dettagli: «Troveremo molte norme e regole complicate, a volte incomprensibili, dovremo imparare a gestire con intelligenza la burocrazia, molti ci diranno: «Non capite come funziona la pubblica amministrazione. Ci hanno provato in tanti e hanno fallito. In Italia non funziona così». Preparatevi a tutte queste cose. Riceveremo molte critiche. Alcuni commenti saranno sinceri e utili, altri saranno cinici e preconcetti. Le critiche del primo tipo arriveranno da persone che vogliono offrire realmente e con spontaneità il loro contributo, quelle del secondo tipo da coloro che vogliono difendere lo status quo o che vedono il bicchiere sempre mezzo vuoto o che più semplicemente si sono rassegnate all’impotenza». L’Italia è effettivamente spesso e volentieri il Paese del bicchiere mezzo vuoto, non si guarda mai come un bicchiere che si riempie lentamente ma ci si concentra spesso e volentieri sulla parte mancante. Vi ricordate la copertina di Time? Questo è il team che abbiamo creato nel gennaio 2017. Pensate che ho ricevuto quasi 3 mila domande per fare parte di questa squadra. Di queste persone, non ne conoscevo nessuna. Abbiamo cominciato da soli, poi insieme ad altri abbiamo fatto dei test di matematica, dei test di coding, sono quasi tutte persone esperte di tecnologia. Abbiamo anche un giurista molto esperto di legislazione di Internet. Abbiamo creato questa squadra, siamo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e lavoriamo su attività che non riguardano solamente la creazione di piani ma sono operative. Come ho dovuto spiegare a mia madre, siamo gli idraulici della digitalizzazione. Per digitalizzare la pubblica amministrazione, c’è tantissimo da fare in attività che, come l’idraulica in una casa bella, non si vedono. La casa per essere bella deve avere un impianto idraulico, un impianto elettrico, altrimenti, non solo non è bella ma neppure funziona. Noi stiamo lavorando sotto il lavandino. Però ci stiamo anche dedicando, e questo è l’artista, al miglioramento di alcuni servizi. Dopo vi farò vedere alcuni esempi. Nel maggio 2017, abbiamo pubblicato il Piano triennale per la trasformazione digitale della pubblica amministrazione, un piano molto minuzioso che invito i più tecnologici tra voi ad andare a vedere su Internet. Era firmato da Paolo Gentiloni perché, nel frattempo, avevo già perso lo sponsor politico. Siamo partiti a lavorare anche su parecchi prodotti digitali che vanno dalla digitalizzazione dei pagamenti alla creazione di una anagrafe unica – è uno dei grossi problemi dell’Italia che ha 8 mila Comuni e 8 mila anagrafi che non si parlano -, su alcuni aspetti della carta di identità elettronica, sull’identità digitale. Sono tutti aspetti di idraulica, che servono a far funzionare quelli che poi diventano i servizi digitali che semplificano la vita del cittadino. Abbiamo creato nuovi modi di sviluppare, di disegnare, di comunicare, di collaborare. È molto interessante perché il modo di comunicare e collaborare nostro è molto diverso dalle circolari ministeriali. Ufficialmente, bandiamo le circolari ministeriali perché non possiamo farne a meno, ma le compensiamo poi con metodi di comunicazione molto più amichevoli, che parlano direttamente agli amministratori spiegando esattamente quello che stanno facendo. Passando dalla parte di idraulica alla parte di servizi, dobbiamo cercare di sognare. L’Italia è partita con un processo di digitalizzazione e la digitalizzazione non è solo tecnologia, una componente della digitalizzazione, ma è la trasformazione e la semplificazione di questi processi. Siamo partiti nel 2016 e 2017, l’Estonia, che è il gioiello della legislazione europea, è partita nel 2000, la Gran Bretagna nel 2010. Noi siamo partiti sette, otto anni in ritardo, però abbiamo la possibilità, essendo partiti dopo, di superare tutti. Infatti adesso stiamo testando “io.italia.it”, questa app che a partire dai primi di settembre sarà testata su un centinaio di cittadini e una ventina di amministrazioni, che permetterà alle amministrazioni di comunicare e interagire con il cittadino, ricevere soldi e pagare multe, pagare la Tari, pagare le tasse, archiviare la documentazione, tutto su una app. Io vedo già lo scetticismo e alcuni occhi che dicono: «Ma a chi la dai a credere una cosa del genere?». Ma vi assicuro che è così, con il duro lavoro, con la volontà di cambiamento e con le competenze. Il problema non è la mancanza di soldi, il problema è la mancanza di competenze, sia tecnologiche che giuridiche specializzate, che di gestione dei processi complessi. Per chiudere, tempo fa è stato il 150° anniversario de La Stampa: mi avevano chiesto di immaginarmi l’Italia, sia dal punto di vista della pubblica amministrazione che della società in generale, e di scrivere un brevissimo articolo. Io ho scritto questo: «Il mondo che ci aspetta per me è la democrazia digitale per semplificare la vita di tutti i giorni. Alla fine il governo serve per semplificare la vita del cittadino e delle aziende, altrimenti è totalmente inutile. Io sogno un Paese dove i politici cercano di comprendere la trasformazione tecnologica invece di temerla e combatterla, dove questi politici siano la regola e non l’eccezione. Sogno un Paese dove le leggi riconoscono e promuovono il diritto a innovare, anziché imbrigliarlo, un Paese dove le forti competenze tecnologiche sono anche all’interno dello Stato e delle aziende pubbliche, un Paese dove ci sono più aziende guidate da trentenni che da settantenni. Immagino, infine, che lavorare per la pubblica amministrazione sia un onore, dove i cervelli migliori fanno a gara per lavorare per i centri di ricerca pubblica che sono veri e propri centri di eccellenza e di innovazione, capaci di trainare il Paese». E in tutto questo c’è la volontà di sognare, ma allo stesso tempo il sogno porta avanti passi concreti per arrivare alla semplificazione della pubblica amministrazione, che passa attraverso la semplificazione dei processi per rendere la vita più semplice al cittadino. Alla fine, questa è mia mamma che finalmente ha capito il lavoro – ci ho messo un anno e mezzo per spiegare esattamente il lavoro che sto facendo – e, per tutti coloro che sono interessati a studiare e a vedere che cosa sta facendo il nostro team, questo è il modo per seguire la nostra attività. Vi ringrazio.

GIORGIO VITTADINI
A questo punto, dopo queste due entusiasmanti presentazioni, passerei alle domande che alcuni hanno preparato.

MATTEO TAFURO
Buongiorno dott. Piacentini, come sappiamo, la rivoluzione tecnologica sta irrompendo rapidamente. Mi riferisco all’intelligenza artificiale che in poco tempo prenderà piede in molti lavori. In un incontro del febbraio scorso, tenuto all’università Milano-Bicocca, organizzato dalla Fondazione per la sussidiarietà e dal titolo “Big Data e Macchine Intelligenti: quale futuro per il lavoro?”, si parlava della necessità di iniziare, sin da subito, a parlare di una regolamentazione ad hoc sull’intelligenza artificiale, per evitare che questa possa creare problemi, soprattutto in termini di occupazione. Qual è la sua opinione a riguardo? Ritiene che l’intelligenza artificiale, in Italia, sostituirà integralmente la forza lavoro o necessiterà di una cooperazione dell’uomo? Con riguardo alla formazione accademica, ritiene che debbano essere introdotti, a fianco dei consueti corsi di laurea magistrale, anche relativi e connessi percorsi di conoscenza sull’intelligenza artificiale?
Grazie.

LUCA GALLI
L’11 agosto scorso, al Circo Massimo a Roma, in occasione dell’incontro per il Sinodo sui giovani, papa Francesco ha sottolineato la necessità per le nuove generazioni di non smettere di sognare. Diceva: «Un giovane che non sa sognare è un giovane anestetizzato, non potrà capire la vita, la forza della vita. I sogni ti svegliano e ti portano oltre». Nonostante questo, l’ultimo rapporto Ocse rivela come nel 2017 il numero di italiani che hanno fatto le valigie e sono andati a studiare e a lavorare all’estero si aggira tra le 125 mila e le 300 mila unità e si teme che nei prossimi dieci anni quasi un quarto dei giovani italiani risiederanno stabilmente all’estero, per cui il sogno italiano non sembra essere ascoltato nel nostro Paese. La domanda è: la politica si interroga su questo fenomeno? L’alternativa è accontentarsi di poco e rimanere in Italia oppure sognare ed essere costretti a emigrare. Ma il tema di fondo è: la fuga dall’Italia è necessariamente un fatto negativo?

ALESSIA BARBONE
Presidente Violante, nel suo libro Il dovere di avere doveri lei afferma che le nuove generazioni sono avvezze ai diritti e digiune ai doveri. Che cosa intende per doveri? Quali sono i doveri che a suo avviso dovrebbe ottemperare un giovane italiano di oggi?

LORENZO ROSEL
Lo sviluppo immateriale e digitale che sta investendo il nostro Paese sembra portare in sé una duplice sfida: da una parte, bisogna approfittare dei benefici, dall’altra sembra anche necessario difenderci dai rischi che esso porta. C’è stato un tempo in cui le istituzioni nascevano per difenderci dal conflitto tra lavoro e capitale, adesso invece il conflitto sembra essere piuttosto tra chi è incluso nel sistema e chi ne è escluso, perché è nato dopo, è troppo giovane e quindi non ha quelle tutele novecentesche degli altri più anziani. In questa prospettiva, quale visione dare per il futuro della istituzione politica nel nostro Paese, anche per il modo di affrontare questi cambiamenti?

MARCO LEZZI
Per me essere italiano ha sempre portato anche un interesse per la cosa pubblica, per la politica come passione per la realtà. Oggi vedo invece una politica che mi sembra vada in direzione diversa rispetto alla realtà, ad esempio si parla di un parlamento estratto a sorte, di fronte a una tragedia come quella di Genova, un Governo dice «un colpevole lo indico io». Oppure, dopo il decreto Dignità, alcuni sondaggi dicono che il posto fisso è diventato la prima ambizione degli italiani, mentre l’anno scorso in una mostra avevamo visto esattamente l’opposto, che uno cerca un percorso, una opportunità. E quindi le domande sono due: primo, qual è il ruolo della politica e, secondo, se è vero che ciò che cambia la storia è ciò che rende felice il cuore dell’uomo e quindi se è ancora possibile interessarsi della cosa pubblica.

DIEGO PIACENTINI
Allora, le domande le ho qui davanti, perché dovrei veramente avere un’intelligenza artificiale per ricordarmele tutte. La prima domanda riguarda l’impatto dell’intelligenza artificiale. Anzitutto, l’intelligenza artificiale va definita: che cos’è? È un software che impara da se stesso e più ha dati, più impara: questa è la definizione di intelligenza artificiale. Distinguiamo l’intelligenza artificiale generale (general artificial intelligence), che è molti anni da venire, dall’intelligenza artificiale specifica per applicazioni specifiche, quindi spostiamo la conversazione sull’intelligenza artificiale applicata a problemi. Io sono un ottimista incredibile sull’intelligenza artificiale: problemi che sembrano irrisolvibili, come il problema dell’inquinamento, della plastica, problemi di medicina che oggi sono irrisolvibili, tra vent’anni saranno risolti dall’evoluzione tecnologica dell’intelligenza artificiale. Questi sono aspetti positivi dai quali non possiamo assolutamente prescindere. Io non mi preoccuperei assolutamente (mi rendo conto che possa essere un’affermazione rischiosa) di regolamentare l’intelligenza artificiale per evitare la diminuzione dell’occupazione. Innanzitutto, è rischiosissimo, perché cerchi di risolvere un problema e ne crei mille altri, e quindi di questo non ne parlerei. Parlerei invece di regolamentazione di alcuni usi dell’intelligenza artificiale, magari molti nel tempo: la cosa più spaventosa sono le armi autonome, le armi che, grazie all’intelligenza artificiale, agiscono da sole, quello sì che va regolamentato, anzi, non solo regolamentato ma gestito a livello di Convenzione di Ginevra. Dal punto di vista invece delle soluzioni mediche, ben venga tutto il discorso dell’intelligenza artificiale! Entra poi il problema dell’etica, scelte etiche determinate dall’algoritmo. E lì, a ognuna di queste attività va dedicato del tempo: è quella singola attività che va eventualmente regolamentata. E ricordiamoci anche che le regolamentazioni devono essere dinamiche, perché soprattutto quando si parla di intelligenza artificiale quello che può sembrare giusto adesso tra un anno è completamente obsoleto e va rivisto. Quindi, cerchiamo di non parlare di regolamentazione dell’intelligenza artificiale in termini generici, ma di andare nello specifico dei problemi generati da molte delle applicazioni dell’intelligenza artificiale.

LUCIANO VIOLANTE
Solo una cosa sull’intelligenza artificiale: ogni grande innovazione ha portato dei cambiamenti, nella cultura, nell’occupazione, nelle visioni strategiche. E tutti quelli che si sono opposti alle grandi innovazioni sono crollati. Quindi, il problema di fondo – sono d’accordo con quello che diceva Diego adesso – è capire bene il problema ed evitare di avere normative o leggi che blocchino, frenino, perché altrimenti il Paese va indietro. Bisogna ben porsi le questioni disarticolandole e campo per campo, vedere cosa è utile fare. Diego parlava delle armi, ma a me è capitato di parlare, qualche tempo fa, con un ufficiale di grado elevato degli Stati Uniti che poneva questa questione: noi potremmo tra qualche anno mettere in campo, in un eventuale conflitto, dei robot, però il robot, se viene abbattuto, costa un milione di dollari, se viene abbattuto un uomo, devo solo pagare la pensione alla vedova. Capite che è brutale come meccanismo, come alternativa; ma quando parliamo di questi problemi dobbiamo tenere conto di tutti questi aspetti per poter capire bene di fronte a che cosa ci troviamo, per poter fare un discorso utile, non ideologico. Seconda questione: Luca diceva del problema che ha posto il Papa (il sogno, ecc.): beh, guardate, io non sono cattolico, sono credente ma non sono cattolico, però dai cattolici ho imparato la speranza, che è una grande risorsa. Ma la speranza non viene dall’alto, va anche costruita con impegno, con il darsi da fare, col nutrire fiducia nel ponte dell’altro. E allora, la questione dell’andare all’estero o meno: nel mondo contemporaneo non è questa la questione, il problema vero è dove io posso realizzare al meglio le mie possibilità, le mie capacità. Diego, poi voglio sentire la tua opinione: non è tanto il problema dell’italiano che deve andare all’estero, ma di quanti non italiani vogliono venire a lavorare in Italia. È la non attrattività del nostro Paese il problema che abbiamo. Per il resto, andare a lavorare fuori – io ho un figlio che lavora negli Stati Uniti -, andare a lavorare all’estero, oggi come oggi non è, a mio avviso, un problema tragico. Il problema tragico è se poi si può rientrare, se poi il nostro Paese è sufficientemente attrattivo: questo dobbiamo costruire, un Paese attrattivo! Su questo siamo ancora abbastanza indietro. Nel primo intervento ho parlato della necessità di finire di fare l’Italia, di completare il progetto nazionale: credo sia questa la questione che abbiamo davanti. E poi impegnarsi a fondo, non aspettare che la soluzione venga da fuori. Alessia chiedeva una cosa sui doveri: se abbiamo un minuto possiamo fare vedere quella slide sui doveri, per cortesia?

SLIDE

Ho messo insieme queste varie prospettive (Mazzini, Simone Weil, passando attraverso Marchionne, Moro, ecc.) perché credo che debba essere chiaro un po’ a tutti quanto è importante l’equilibrio tra diritti e doveri. Quali sono i doveri? Innanzitutto, i doveri di solidarietà, come dice la Costituzione, civile, economica, politica. Quindi, i doveri verso se stessi e i doveri verso gli altri. I doveri verso se stessi vuole dire darsi una disciplina, darsi un obiettivo, regolare le proprie attività e disciplinarsi. Guardate, quando c’è disciplina verso se stessi, vi assicuro che si costruisce molto di più e molto meglio. E quando si ha il senso del dovere, si capisce molto bene che il dovere crea comunità. Diritti senza doveri sono armi che si usano contro l’altro, ma non servono ad andare avanti, i diritti in una comunità che riconosce i doveri invece fanno crescere. Quindi, io credo che, sulla base di quello che abbiamo ascoltato e letto, questa sia l’idea che potremmo avere per andare avanti: equilibrio tra diritti e doveri, doveri di solidarietà e doveri nei confronti di se stessi, di quello che si vuole essere e di quello che si vuole costruire di sé. Lorenzo poneva il problema dei conflitti. Io credo – e anche qui mi piacerebbe sentire l’opinione di Diego – che il grande conflitto attuale è tra rendite e lavori, tra chi vive di rendite e chi vive di lavori, chi è chiuso nella propria rendita e chi invece costruisce: questo è il grande conflitto di oggi. E dobbiamo naturalmente privilegiare al massimo i lavori e marginalizzare al massimo le rendite, perché le rendite sono passività a carico della comunità nazionale. E infine Lezi diceva: democrazia e ruolo della politica. Brevemente, guardate, la democrazia va curata, la democrazia non è una cosa che esiste in natura, la democrazia è stata costruita dalla voglia di libertà e dall’intelligenza delle persone e va curata. Se non è curata e non è seguita, la democrazia deperisce. E quindi, curare la democrazia è un compito un po’ di tutti, non solo della politica, anche dei cittadini. Non esiste un sistema democratico ben ordinato in cui faccia sempre solo e soltanto la politica: deve fare la politica e devono fare anche i cittadini. Io credo che oggi in particolare la politica in Italia debba porsi il problema di far funzionare il Paese. Di fronte alla tragedia di Genova, ci sono due aspetti che mi hanno colpito: per un verso, vedremo quali sono le responsabilità per la tragedia, per un altro verso il clima che c’era in quella chiesa: la compostezza, la sobrietà, la serietà, il far parlare l’imam di Genova, le parole che ha detto l’Imam. Ecco, io credo che questo sia anche un aspetto della democrazia: la sobrietà, il rispetto delle circostanze e dei luoghi, la non aggressività e l’apertura a culture diverse. Dentro queste cose credo che ci sia un compito fondamentale per la politica.

GIORGIO VITTADINI
Chiederei a Diego Piacentini di completare le risposte sul futuro di questo grande piano.

DIEGO PIACENTINI
Risposta difficilissima. Allora, per chiudere il loop sulla parte della intelligenza artificiale, e qui mi ricollego al discorso di identità nazionale, non ci sarà nulla come l’accordarci sulle regole per gestire alcuni aspetti dell’intelligenza artificiale che dovranno andare ben oltre le sovranità nazionali. Queste decisioni tra l’altro non saranno prese a livello europeo ma a livello di organismi sovranazionali: il G20, le Nazioni Unite, qualsiasi cosa nuova venga inventata. Lì il discorso di identità nazionale si perde, si diluisce, perché a questo punto, quando entra in campi quale l’innovazione tecnologica, il mondo diventa molto più piccolo, le differenze sono inferiori. Questo è un aspetto. L’ altro aspetto è per quanto riguarda la attrattività. Non preoccupiamoci tanto degli italiani che vanno fuori dall’Italia ma preoccupiamoci di come attrarre non italiani in Italia. Qui stiamo parlando anche di occupazione di un certo livello, anche lì si sta andando oltre il concetto di nazione ma prende sempre più piede il concetto di grande area metropolitana. Ci sono le aree metropolitane che dovranno essere attrattive e attrarre forza-lavoro, che in genere va nelle aree metropolitane. E quindi ci sono le aree metropolitane tra Milano, Torino e altre che dovranno competere con Londra, Parigi, Berlino, Shanghai, Seattle, Los Angeles, San Francisco. Si andrà sempre più verso un concetto di area metropolitana che, nella sua modernità, nel suo progresso ma anche nella sua umanità, riesce ad attrarre i talenti. E secondo me, la speranza nella politica sarà anche nella capacità delle aree urbane di guidare questo processo di trasformazione tecnologica, di essere un grossissimo strumento di cambiamento. Perché ci dobbiamo attendere molto di più dalla trasformazione delle aree urbane che dallo Stato centrale. Ovviamente, le due cose dovranno andare in parallelo, ma il progresso arriverà veramente da chi ha il contatto con il cittadino nella vita normale – ne parlavamo prima – rispetto alle infrastrutture che dovranno funzionare e alla gestione della spazzatura che deve funzionare. E come viene riciclata, come funzionano i trasporti: sono quelle le cose che i cittadini vogliono, ed è lì che la rivoluzione digitale porterà dei grossissimi cambiamenti. L’importante, dal mio punto di vista, è come contribuire ed essere anche modello per gli altri. Mi auguro che, con il piccolissimo contributo che sto dando, ci sia un’amplificazione, cioè mi auguro che ci saranno tanti altri come me e che questo sarà anche il modello che spero lasceremo, per quello che mi riguarda, con un contributo di due o tre anni. Se mi avessero chiesto: «Vuoi venire a lavorare nella pubblica amministrazione per tutta la vita?» avrei detto: non ci penso neanche. Il fatto di avere un progetto di portata temporale visibile, che poi può essere continuato da altri, secondo me è un modello che può essere applicato, ed è questo il messaggio di fiducia che vorrei dare. Il mio obbiettivo non è ovviamente di portare a termine i progetti che vi ho fatto vedere, ma creare dei modelli che possano essere applicati. Io il 15 settembre scado, ho deciso di non rimanere, poi non so neanche se avrebbero voluto tenermi, ma stiamo cercando di fare in modo – e forse ci siamo riusciti – che continui quello che stiamo facendo. È quello che un buon manager dovrebbe fare, il cosiddetto piano di successione: è l’antipolitica. La politica in genere è stare attaccati alla sedia e non mollarla. Invece, quello che sto cercando di fare è creare un modello che non sia Piacentini-centrico ma che sia continuato da altri. È questa secondo me la cosa vitale e importante. Che è uguale al discorso del bene comune. Come dicevo prima, io ho avuto la fortuna di essere esposto a tantissime culture, dall’India alla Cina, a tantissimi Paesi europei. Purtroppo quello che dovevo dire è che l’Italia, e un po’ anche l’India, è il Paese con il minor senso del bene comune, del fare una cosa per il benessere di tutti gli altri, sia dal punto di vista formale che dal punto di vista sostanziale. E non possiamo essere che noi a dare l’esempio agli altri per cercare di portarlo avanti. La cosa che più mi ha preoccupato in questi due anni, a Palazzo Chigi, al Governo, nella soluzione di queste cose, è che ho trovato che anche nelle piccole cose persone importanti non davano l’esempio. Vi faccio un esempio che sembra banalissimo. Io vado a delle riunioni dove ci sono delle persone importanti, ministri, e in queste riunioni si fuma. Il Governo dovrebbe multarsi perché non si fuma, non si può, è proibito dalla legge. E noi non ci rendiamo conto che se siamo a un certo livello di responsabilità politica, siamo responsabili davanti a chi ci guarda. Il commesso che sta fuori della stanza, se vede che la persona importante fuma e non rispetta la legge, secondo voi cosa fa? Fuma nel bagno, però va a fumare. Sono cose banali, piccole ma di una importanza vitale, e non c’è altro modo che dare l’esempio. E soprattutto non abituarsi al fatto che tanto fanno tutti così e continuiamo a fare tutti così. Però è all’interno di noi stessi che questo esempio deve essere dato. Ma c’è una cosa importante che volevo chiedere, è il problema della formazione. In Italia bisogna cominciare al più presto, e non aspettiamocelo solamente dallo Stato perché lo Stato da solo non può farcela. Non si tratta di fare la riforma della scuola: chi si mette a fare la riforma, ci mette 5 anni, poi il Governo successivo te la boccia. Si tratta veramente di inserire in maniera continua nuovi modi di insegnare, cioè bisogna inserire già in seconda elementare concetti di logica e programmazione. Non è così complicato: si diceva prima che a Legge bisogna insegnare Informatica. A Legge bisogna insegnare Informatica e a Informatica bisogna insegnare Filosofia. Dobbiamo andare sempre di più verso una società dove l’apprendimento sia multidimensionale e non solamente specialistico su certe discipline. Questo è un cambiamento che deve partire dalla scuola elementare. La nostra scuola sta evolvendo in maniera faticosa e deve esserci un forte contributo anche delle aziende. Le aziende in cui lavoro, Google ed altre, sempre di più dovranno contribuire in maniera positiva all’evoluzione della società. Ed è con l’educazione, e quindi con la formazione, che questo contributo può essere dato. Questo è un messaggio su qualcosa che sarà comunque inevitabile, cioè succederà, ed è una cosa buona. Infine, parlavamo del problema dei conflitti. Dal mio punto di vista, ci deve essere questa evoluzione che già sta avvenendo ed è inevitabile che avvenga, però ci vorrà tempo per una gestione che vada oltre la conflittualità. Dobbiamo creare una situazione dove si guarda costantemente al futuro. E mi rendo conto che siamo in questo momento di trasformazione, dove hai un posto di lavoro assicurato o ancora 10 anni prima della pensione, o 15, a seconda se la legge Fornero rimane o meno. Non mi interessa quello che capiterà agli altri, però siamo in questo momento di cambiamento ed è tramite l’educazione, tramite la società civile, tramite lo sforzo di tutti quanti che questo cambiamento potrà diventare positivo e veloce. Però la parte più importante è quella educativa insieme al sistema scolastico: noi affidiamo i nostri figli, dai 6 anni ai 23, 24 anni, cioè al momento in cui si laureano, a un sistema che in questo momento è obsoleto in molte sue parti e questo è preoccupante. Poi c’è il problema dei conflitti. Secondo me, non c’è una risposta a questa domanda. Se ci fosse, persone anche più intelligenti di me l’avrebbero trovata. E tante delle risposte che abbiamo dato contribuiscono a questa risposta. Ma io ho il chiodo fisso perché veramente tutto questo passa attraverso la formazione dei ragazzi e delle ragazze. C’è una responsabilità politica, è importante che questo cambiamento venga gestito dalla politica ma soprattutto da persone competenti. È un altro tema, il problema della classe politica che ad oggi non ha competenze che permettano di gestire questo cambiamento. Mi auguro che il modello che stiamo creando si diffonda: persone che hanno lavorato 20, 30 anni, e fanno il doppio ciclo. Oppure chi è all’inizio della carriera lavorativa, uno appena laureato, che dedica 2 anni ad accrescere le competenze e ad aiutare la pubblica amministrazione, a livello locale o centrale. Una volta c’era il servizio militare obbligatorio, oggi ci dovrebbe essere quasi il servizio digitale di supporto obbligatorio alla riforma della pubblica amministrazione. Potrebbe essere una idea, perché bisogna fare veramente brainstorming di questo tipo. E se poi sei alla fine della tua carriera, hai 55 anni e hai lavorato per 30 imparando tante cose, creiamo un modello per cui sia possibile andare ad aiutare il Governo per 3, 5 anni. Questo potrebbe essere un modo. So che può sembrare naif, però secondo me non ci sono tante alternative, altrimenti continueremo ad avere la stessa classe politica che magari ha 10 anni meno di quella precedente ma, dal punto di vista dell’approccio, non è molto diversa.

GIORGIO VITTADINI
Allora, quale prima risposta a questo “essere italiani”, certamente, c’è una tradizione di molteplicità, lingua, cattolicesimo che corrisponde a una questione di apertura e positività come quella di cui scriveva Di Vico stamattina sul Corriere: un’antropologia positiva. L’essere italiani è questo proiettarsi al di là dell’ostacolo, verso il futuro, in nome di quello che hai incontrato. Senza questo non c’è futuro, e questa è la rivoluzione tecnologica digitale, perché uno non può essere italiano oggi se non usando questa competenza, non solo con la pizza e il mandolino ma trasformando un Paese, rendendolo moderno come è sempre stato. Questo è l’inizio della sfida ma lasciamo aperta la battuta che ci ha fatto Diego Piacentini, su come questo costruisca il bene comune, alla seconda puntata dell’incontro tra Violante e Simoncini, che penso avrà a che fare con questa risposta. Grazie e buona serata.

Trascrizione non rivista dai relatori

Data

19 Agosto 2018

Ora

19:00

Edizione

2018
Categoria
Incontri