A SERVIZIO ESCLUSIVO DELLA NAZIONE: L’ONORE DEL LAVORO NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

Partecipano: Antonio Balsamo, Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione; Vito Cozzoli, Professore di Diritto Pubblico, già Capo di Gabinetto del Ministero dello Sviluppo Economico; Antonio La Spina, Professore di Sociologia del Diritto e Analisi e Valutazione delle Politiche Pubbliche all‘Università Luiss Guido Carli di Roma. Introduce Salvatore Taormina, Coordinatore del Dipartimento Pubblica Amministrazione della Fondazione per la Sussidiarietà – Dirigente Regionale.

A servizio esclusivo della nazione:l'onore del lavoro nella pubblica amministrazione

SALVATORE TAORMINA:
Bene, buon pomeriggio a voi tutti, grazie per la vostra presenza e grazie anche ai tanti amici che ci seguono via streaming. Diamo inizio a questo nostro incontro rilanciando brevemente i termini della provocazione, o se volete potremmo dire anche della sfida contenuta nel titolo di questo incontro. La costituzione italiana afferma all’articolo 98, leggo testualmente, “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione.” Vorrei sottolineare non del Governo, non dello Stato, non della Repubblica ma della nazione. Vedremo poi con l’aiuto dei nostri relatori il significato di questa espressione. Mentre l’articolo 54 ci dice che i cittadini a cui sono affidate pubbliche funzioni debbano adempierle con disciplina ed onore. Quindi si tratta di espressioni impegnative, certamente non rituali, parole come onore, servizio alla nazione, prima ancora che una dimensione giuridica dell’agire pubblico, chiamano in caso una dimensione morale e ideale, talmente condivisa tra i padri costituenti che decisero di presidiarla con una norma costituzionale. Ma dovremmo domandarci: cosa rimane oggi di questo capitale iscritto nelle pagine della nostra Costituzione? Per rispondere a questa domanda non si può che partire, a mio avviso, da quello che oggi è un vero e proprio nervo scoperto della vita sociale ed economica del nostro paese. Il rapporto conflittuale, direi estremamente conflittuale, che cittadini, corpi intermedi e imprese normalmente intraprendono con la pubblica amministrazione, che viene sempre più percepita come un ostacolo e non come una risorsa. Quindi verrebbe da dire: “bei concetti quelli della Costituzione ma la realtà sembra andare da un’altra parte”. C’è dunque, per dirla con il titolo del Meeting, una eredità che forse stiamo perdendo e che al contrario dobbiamo nuovamente riguadagnare, per tornare a possederla nel presente. Ora, se funzionari indolenti e corrotti, direi meglio ancora se dirigenti, normalmente vengono indicati come la causa di questo apparato pubblico che non funziona, meno frequenti sono considerazioni critiche sulla qualità della nostra legislazione. Una caratteristica, quella della nostra legislazione, che per quantità e qualità può assumere un vero e proprio rilievo criminogeno. L’espressione non è mia, lapidarie al riguardo le parole del presidente emerito costituzionale Flick che in una recente intervista ha dichiarato: “quanto più la scena è complicata e più si può inquinare con la corruzione. Sta di fatto che continua ad essere ingestibile il campo tra la pubblica amministrazione e l’impresa”. Parole estremamente eloquenti. Peraltro, nelle statistiche internazionali sulla corruzione, per quanto discutibili nella loro articolazione e nella loro genesi, ancora oggi vediamo l’Italia al sessantesimo posto della classifica globale, in compagnia di Cuba e seguita in Europa solo da Grecia e Bulgaria. Quindi è chiaro che in un panorama come questo torna prepotentemente all’attenzione il tema della corruzione nella pubblica amministrazione, ne è riprova il cantiere legislativo che dal 2012 si è messo in moto con una pletora di decreti attuativi e con una quantità di adempimenti che chi opera all’interno della pubblica amministrazione ben conosce e quindi ovviamente non ripeto. Evidentemente però vi è la consapevolezza che, in mancanza di un recupero di quell’attenzione ideale, professionalmente orientata, di cui ci parla la nostra Costituzione, gli attuali strumenti, pur necessari certamente da utilizzare al meglio, non è l’obiettivo quello di mettere in discussione questi strumenti, rischiano però di essere in molti casi, chi vi parla vi parla anche dall’interno dell’esperienza professionale della pubblica amministrazione, percepiti come un mero obbligo di legge da osservare solo per evitare responsabilità. Basti pensare, sono espressioni utilizzate dal presidente Cantone nell’ultima relazione presentata al Parlamento, il proprio dilatarsi del ricorso alle funzioni di consultazioni preventive dell’autorità nazionale all’incorruzione di norma utilizzato per ottenere il bollino, soprattutto in materia di appalti, per evitare di avere problemi dopo. Sono realtà ricorrenti. In una situazione che certamente è complessa come quella appena descritta, mi sono apparse, mentre pensavo a come introdurre questo incontro, particolarmente illuminanti per una possibile inversione di rotta le considerazioni che sono state svolte nel giugno scorso dal procuratore generale della Corte dei Conti durante il giudizio sul rendiconto generale dello Stato. Diceva il procuratore Galtieri che “irrilevanti effetti distorsivi delle irregolarità e degli illeciti penali, richiedono, in questa materia della corruzione, un approccio più sostanziale – riflettiamo su questa espressione – che, superando impostazioni dottrinarie strettamente fondate, affronti il fenomeno della corruzione in una logica sistematica che tenga in adeguata considerazione la diffusività del fenomeno e l’insufficienza delle misure apprestate. Concludendo – questo è l’aspetto secondo me più rilevante della provocazione offerta dal procuratore – il necessario recupero dell’etica nell’amministrare non può essere lasciato alla coscienza dei singoli ma deve essere accompagnato e favorito da un sistema costruito su una più intensa formazione e un giusto riconoscimento del merito soprattutto a livelli più elevati”. Quindi restituire il servizio svolto dalla pubblica amministrazione a quella proiezione ideale di cui la Costituzione ci parla, probabilmente richiede di tornare a investire sulla persona in funzione di un suo condiviso e consapevole protagonismo motivazionale e professionale. Credo sia questo il primo indispensabile fattore di quella transizione culturale di cui l’amministrazione ha davvero bisogno. Ovviamente gli strumenti per realizzare questa transizione possono essere molteplici e il dibattito di oggi ce ne offrirà una possibile traccia di approfondimento ma perdere di vista questa centralità del capitale umano potrebbe rivelarsi fatale. Vorrei dire, tanto più in un’amministrazione che forse non sarà elefantiaca così come si crede, per esempio è interessante sapere, l’ultimo rapporto OCSE che in Italia abbiamo un pubblico impiego che pesa il 13,6% sul totale dei lavoratori dipendenti contro una media OCSE del 18,1. Ma, ed è questo a mio avviso il vero tema dell’amministrazione anche in funzione di quella centralità della persona, dove abbiamo nella nostra amministrazione un’età media di cinquantacinque anni, è un’anzianità media di servizio di vent’anni. Come non immaginare che di fronte a questi numeri quella difficoltà che l’amministrazione ha di servire la gente sia il frutto di una mancanza di mix generazionale che invece sarebbe necessario, oppure di un atteggiamento di chi vive l’amministrazione credendo di sapere già tutto perché a cinquantacinque anni e vent’anni di anzianità è facile decadere in questa posizione. Ecco allora che in questo scenario è forse la prospettiva indicata dal principio di sussidiarietà a poterci offrire una svolta: la possibilità cioè di immaginare modelli complementari in cui soggetti ed esperienze che già sul campo si mostrano capaci in virtù di un patrimonio ideale, professionale condiviso, si mostrano capaci di affezionare nuovamente a quell’attenzione ideale in mancanza della quale qualsiasi intervento sarebbe destinato a decadere. Quindi questo accento forte sul soggetto prima che sui processi per evitare che accada, così come diceva il poeta, di sognare sempre sistemi tanto perfetti che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono. Questo pomeriggio ci offre una preziosa occasione di confronto su temi che io reputo così rilevanti per la vita sociale ed economica del nostro Paese e che ne sono certo verranno approfonditi anche in chiave propositiva non solo di semplice analisi grazie all’autorevolezza ei nostri ospiti che adesso voglio presentare. Il dottore Vito Cozzoli, già Capo dell’avvocatura della Camera dei Deputati e professore di diritto pubblico che è alla mia sinistra. Il dottore Antonio Balsamo, sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione e da anni impegnato in una attività giudiziaria particolarmente significativa, vorrei dire anche per la storia del Paese, vorrei ricordare fra le tante cose, se mi è consentito, l’estensione della sentenza del processo di primo grado al senatore Andreotti che l’ha visto protagonista come giudice a latere in quel processo. E il professore Antonio La Spina, professore di sociologia del diritto e analisi e valutazione delle politiche pubbliche all’Università LUISS Guido Carli di Roma. Quindi diamo subito inizio al nostro confronto e do la parola al dottore Cozzoli.

VITO COZZOLI:
Buonasera, grazie innanzitutto per questo invito, io faccio il mio debutto qui al meeting, è la prima volta che vengo e sono felice di essere stato invitato non soltanto di parlare oggi, di dialogare con voi ma di aver avuto la possibilità di conoscere questa esperienza di vita che è il Meeting. Oggi vorrei partire da alcune domande, dato anche che ci sono in questo auditorio giovani e meno giovani. La domanda principale è: ma perché oggi i giovani dovrebbero scegliere di lavorare per la pubblica amministrazione? Una scelta forzata dalle circostanze? La ricerca affannosa di un posto di lavoro oppure una decisione motivata, consapevole, cosciente? Oggi lavorare alle dipendenze della pubblica amministrazione è una scelta obbligata dalla ricerca di uno stipendio oppure una scelta di vita perché si vuole dare un contributo di servizio, una testimonianza per lo Stato, per la collettività, per il migliore funzionamento della cosa pubblica? Non è facile rispondere a queste domande, non lo è per voi, immagino, ma non lo è neanche per me che da ventisei anni lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione perché da una parte c’è l’onore, quindi veniamo al tema del nostro incontro, di lavorare per la pubblica amministrazione, il prestigio, la consapevolezza di servire la nazione, il sentirsi parte dello Stato e vi assicuro che questa è una molla straordinaria per la collettività. Dall’altra parte, io non nascondo e lo dico tranquillamente che ci stanno un po’ facendo passare la voglia di lavorare per la pubblica amministrazione. Pensiamo alla frammentazione amministrativa, ai pochi concorsi pubblici, alla perdita di competitività delle retribuzioni, alla demonizzazione anche del dipendente pubblico considerato come uno scansafatiche, la perdita di autorevolezza, la crescita dello spoil system che fa venire meno il principio della continuità amministrativa. Però a fronte di tutto ciò noi non dobbiamo abbatterci, siamo oggi qui per approfondire quanto sia importante, quanto sia fondamentale lavorare per la pubblica amministrazione. Non basta parlare male della pubblica amministrazione, non basta dire che la burocrazia è una palla al piede per i cittadini e per il mondo dell’impresa. Noi dobbiamo anche reagire, recuperando innanzitutto il nostro patrimonio di valori e allora partendo dal titolo del Meeting di quest’anno, che è un titolo veramente indovinato, noi abbiamo ereditato uno straordinario patrimonio di valori che i nostri padri costituenti ci hanno lasciato. Noi non possiamo, non abbiamo il diritto di perderlo, non possiamo abbandonarlo, dobbiamo invece riconquistarlo, dobbiamo rivitalizzarlo, dobbiamo attualizzarlo; e quali sono i valori che ci hanno lasciato i nostri padri costituenti che prima venivano ricordati? Innanzitutto ai sensi dell’articolo 54, 98 della Costituzione i pubblici funzionari non devono limitarsi, come tutti i cittadini ad essere fedeli, alla Repubblica, osservare la Costituzione e le leggi ma devono adempiere le pubbliche funzioni al servizio esclusivo della Nazione con disciplina ed onore, addirittura prestando giuramento. La fedeltà ha un doppio significato: in negativo, vi è l’obbligo di astenersi dal compiere atti che possono pregiudicare gli interessi fondamentali della Repubblica, dall’altro, in positivo, la fedeltà rappresenta anche una regola di condotta che impone di operare con consapevolezza e soprattutto con la volontà di custodire questi interessi. Cosa si intende poi per disciplina? Evidentemente il modo anche di esercitare la funzione, che deve però esplicarsi con rettitudine con l’esclusivo interesse della Nazione. L’onore è un tratto distintivo della funzione esercitata che esige probità, per non intaccare mai il principio delle istituzioni. Quindi i funzionari pubblici hanno doveri particolari, una responsabilità particolare dovuta al peculiare stato giuridico e anche agli interessi generali che sono chiamati a curare. La Costituzione, possiamo dire, si ispira all’affermazione dei principi dell’etica del dovere, però questa etica non può essere soltanto demandata al libero arbitrio oppure alla dimensione individuale, sono necessarie regole, sono necessarie anche sanzioni, come prima veniva detto, per quello che è il cosiddetto diritto delle responsabilità. Per altro, lo diceva il nostro moderatore, c’è un nesso tra la perdita di competitività del sistema produttivo italiano e la debolezza anche dell’attività de persona pubblico. Venivano ricordate le classifiche internazionali, due in business, corruption perception index, l’Italia non solo non brilla nel ranking ma è in posizioni molto disdicevoli. E anche sotto il profilo dell’etica pubblica, il nostro Paese appare bloccato, appare non al passo con gli altri Paesi. È prevalso un approccio, a mio sommesso avviso, troppo punitivo che non sempre caratterizzato dalla positività. Oggi parliamo di conflitto di interessi, parliamo di anti corruzione, parliamo di ANAC; la domanda è: basta tutto ciò? Sicuramente da una parte le pubbliche amministrazioni non controllano adeguatamente i propri dipendenti, non fanno valere e responsabilità di quelli scorretti, di quelli inadempienti. Un buon datore di lavoro è attento a pretendere ma anche a premiare il corretto adempimento delle prestazioni dei propri dipendenti, valorizzando il merito professionale e speriamo che prima o poi questo merito trionfi nel nostro Paese, sanzionando ovviamente i comportamenti impropri. Però oggi troppo spesso sono le inchieste, sono i processi penali a mantenere alta l’attenzione anche mediatica sulla condotta degli amministratori dei funzionari pubblici. La domanda è: bastano le inchieste? Siamo certi che la responsabilità penale non sia una moneta un po’ troppo pesante, un farmaco da usare con un po’ di parsimonia, visti gli effetti collaterali che può produrre come la paura di decidere o l’assuefazione? I rimedi al mal costume amministrativo forse devono tendere di più alla prevenzione, alla formazione piuttosto che alla repressione. Altri ordinamenti hanno fatto la scelta dei codici di condotta, pensiamo all’ordinamento americano, anche nel nostro Paese vige dal 1994 un codice di comportamento per i dipendenti pubblici. Questa è l’architettura del sistema, quello che è previsto dalla Costituzione, quello che è previsto dalla legge. Ma oggi forse siamo qui anche per comprendere la pratica oltre alla teoria e io quindi vorrei anche raccontarvi il più brevemente possibile la mia esperienza di vita, oltre che la mia esperienza professionale. Io tento di servire con onore la pubblica amministrazione da ventisei anni alla Camera dei Deputati, sono entrato nel 1991, la presidente era Nilde Iotti, sembra un’era del paleolitico superiore, e invece sono passati tanti anni, ho superato un concorso pubblico, siamo entrati in venticinque, eravamo quindicimila candidati. Ho lavorato in tanti ambiti amministrativi, commissione, la sede generale, l’avvocatura eccetera. Vi do una sensazione, quella che è la mia sensazione quotidiana: io da ventisei anni sono felice e orgoglioso di varcare il portone di Montecitorio. Faccio quello che ho sempre sognato di fare, mi sono laureato con Leopoldo Liaconi con una tesi sui gruppi parlamentari e perché ho sognato sempre di lavorare alla Camera? Perché con il mio lavoro ho l’aspirazione di supportare tecnicamente l’attività dei parlamentari, di coloro che decidono le sorti del Paese, questo comporta onori ed oneri: l’onore è certamente quello di lavorare gomito a gomito con i parlamentari nella Stanza dei Bottoni, di avere una quotidianità di rapporti con i decision makers. Tanti onori ma anche tanti oneri: l’onere di non poter sbagliare, perché la ricaduta di uno sbaglio è abissale, di essere sempre preparati, di non essere superficiale, di non essere parziale o partigiano, di essere libero, di non subire condizionamenti e questo comporta responsabilità, imparzialità, oggettività, serietà, competenza eccetera. E questi non possono essere soltanto dati psicologici rimessi a me, rimessi alla mia dimensione professionale. Sicuramente sono nel mio DNA ma è un metodo di lavoro anche dell’apparato che lavora secondo principi di interazione funzionali che non consentono una tentazione personalistica. Incredibilmente pensavo, no? Nel luogo di lavoro più politico in assoluto, la Camera dei Deputati, non è possibile politicizzare il proprio lavoro e quindi dopo ventisei anni ho il gusto di voler tentare di voler far bene il mio lavoro, il mio dovere, privilegiando la qualità del prodotto, privilegiando l’efficienza, consapevole della delicatezza delle mie responsabilità. E ho avuto anche la possibilità di mettere in pratica in un altro ambiente professionale questo metodo di lavoro quando, tre anni fa, sono stato chiamato a ricoprire l’incarico di capo di gabinetto del Ministero dello sviluppo economico Devo confessarvi che non ho cercato, né inseguito questa posizione. Ero in vacanza, ero con la mia famiglia, un mio amico mi ha chiesto se poteva dare il numero di telefono ad un Ministro della Repubblica che aveva assunto quella responsabilità e il Ministro mi chiese di svolgere l’incarico di Capo di Gabinetto. Inizialmente io declinai, declinai perché non nascondo c’erano delle possibilità di crescita professionale nel mio ambiente di lavoro rarissima, forse mi gioco la mia opportunità. Però poi, e arrivo al tema di cui oggi dobbiamo parlare, mi sono fatto una domanda: ma perché no? Perché non ti metti alla prova, perché non tenti di dare una mano al cambiamento? Tropo spesso ci limitiamo a parlare, ci limitiamo a pontificare, a dire che le cose non vanno bene ma non facciamo nulla per cambiarle, allora forse era arrivato il momento di farle. Io non posso dire, non sono io a dire se ho lavorato bene se il gruppo che ha lavorato con me ha lavorato bene o male. Posso dirvi soltanto che per me è stata un’esperienza straordinaria, una esperienza totalizzante, una esperienza coinvolgente. E non è stato soltanto una esperienza di lavoro, ma è stata una esperienza di vita che ho condiviso con un team di giovani, qui ce ne sono tanti, di giovani straordinari provenienti dal mondo della ricerca, dal mondo accademico. Hanno lasciato tutto, c’era addirittura uno che stava all’ MIT di Boston e ha scelto di fare questa esperienza di vita, per cogliere la sfida del cambiamento. I risultati, anche questi non sono io a doverli giudicare però il risultato è stato innanzitutto la consapevolezza di servire lo Stato nella maniera più nobile, tentando di risolvere i problemi delle persone e delle imprese del nostro Paese. Dalla soluzione di una crisi aziendale, ne abbiamo risolte appena ottanta, salvando venti mila posti di lavoro, dalla accelerazione di misure a sostegno delle imprese, alle start-up, alla digitalizzazione, industria 4.0 , il micro-credito, eccetera. Che cosa ho colto in questa esperienza? La passione non soltanto mia, ma delle persone che hanno lavorato con me, che veramente mi ha commosso perché questo gruppo di persone lavorava con una passione, una dedizione, una motivazione, non conoscevano la differenza fra il giorno e la notte, fra il lunedì e la domenica. Dicevano sempre sì anche alle richieste che gli venivano formulate in qualsiasi momento della giornata, nonostante anche tante difficoltà, nonostante diciamolo dopo tante resistenze interne, sicuramente abbiamo dato fastidio a parecchi tentando di rompere i monopoli di potere, ma perché questo? Perché c’era e c’è una molla in quelli che lavorano nella pubblica amministrazione che è quella di fare il massimo, di tornare a casa la sera con la consapevolezza di aver fatto bene il proprio dovere, di non accontentarsi di fare il minimo sindacale in nome però di un obiettivo, di un valore, che per noi, anche che siamo qui al Meeting, è qualcosa di più, è il bene comune. Una società che a tutti i livelli vuole essere al servizio dell’essere umano è una società che deve proporsi come obiettivo il bene comune. La persona non può trovare compimento solo in se stessa a prescindere dal suo essere con gli altri. Una società deve perseguire il bene comune perché garanzia del bene personale, del bene familiare, del bene associativo e della comunità. Di qui l’impegno dei cattolici, anche al servizio dello Stato: promuovere la giustizia, promuovere la libertà, promuovere il rispetto dei diritti della persona, l’efficienza della macchina statale, che è un diritto e un dovere i tutti i membri di una comunità politica. Per ritrovare il senso, la passione del vivere rettamente, però è necessario mio avviso anche per la modernizzazione della pubblica amministrazione per chi crede, come noi, ritornare alla forza ispiratrice del bene comune. La chiesa ha anche forse il dovere di offrire anche a noi impegnati al servizio delle istituzioni questo stimolo. Quindi, questo è anche un invito a tutti noi, ai giovani, noi fedeli laici non possiamo abdicare alla partecipazione politica, alla dimensione amministrativa, alle varie modalità per promuovere organicamente il bene comune. Dobbiamo essere mossi dal coraggio dell’impegno. Pensiamo all’esempio di un santo che da questo punto di vista è illuminante. San Tommaso Moro: quando la persona ascolta il richiamo della verità, allora la coscienza orienta con sicurezza i propri atti verso il bene. Proprio per la testimonianza resa fino all’effusione del sangue del primato della verità sul potere, San Tommaso Moro è venerato quale esempio impetuoso di coerenza morale E allora chi è impegnato nella cosa pubblica e protagonista della alta politica, anche come scelta religiosa, la formazione di politici credenti, di cittadini onesti, consapevoli, generosi, capaci di agire del mondo, è la nostra sfida, è la vostra sfida è la sfida anche di voi giovani. Non possiamo, non potete rinunciare all’impegno nelle istituzioni, al lavoro al servizio del bene comune. Prima parlavamo di sussidiarietà, a proposito di Tommaso Moro tra l’altro: la sussidiarietà è un principio molto spesso evocato qui al Meeting opportunamente. Allora vi do un’esperienza di una parrocchia romana guidata da un parroco illuminato, monsignor Andrea Celli che sta portando avanti da anni un’esperienza unica, ma che forse potrebbe essere replicata nel Paese: una scuola di formazione sociale e politica per ottanta studenti universitari che si confrontano con i leader politici, che vanno in ospedale, che vanno in tribunale, che vanno in carcere per capire come poter contribuire un giorno a far funzionare meglio la cosa pubblica, ovvero lo Stato. Lo Stato non è di altri, è nostro, lo Stato siamo noi. Come Tommaso Moro non ha negoziato la verità per il compromesso, così anche noi non possiamo abdicare dal nostro dovere di testimonianza e di impegno della fede, pur nella consapevolezza delle difficoltà. Anche nel lavoro nella pubblica amministrazione non possiamo far prevalere l’egoismo, l’arroganza, la cupidigia, la superficialità, l’inefficienza, non possiamo consegnare le istituzioni alla degenerazione spirituale e materiale. Dobbiamo essere testimoni di quella coscienza che proclama la causa dell’uomo, lo dicevamo prima, della persona umana come scopo finale di ogni progresso. Dobbiamo anche corrispondere alla chiamata, dobbiamo anche corrispondere alla vocazione di lavorare per la pubblica amministrazione; da questo punto di vista oggi io non registro nei giovani un interesse, come magari avevo io una volta, di poter collaborare di poter cooperare con la cosa pubblica e di servire la pubblica amministrazione per costruire un Paese migliore. Noi dobbiamo farlo perché siamo la testimonianza vivente della fede, siamo il sale del mond: abbiamo la capacità, la forza, la voglia, l’entusiasmo di far prevalere il bene, di poter cambiare le cose anche nella pubblica amministrazione. Da questo punto di vista, l’insegnamento sociale della chiesa non è intromissione nella vita delle istituzioni, pone un dovere di coerenza per i fedeli laici perché noi nella nostra esistenza non possiamo vivere una vita parallela, non possiamo vivere una dimensione spirituale e una dimensione secolare, dobbiamo fare una sintesi tra la vita e la fede per una testimonianza coerente e credibile proprio perché il credente sperimenta ogni giorno la passione della responsabilità e della testimonianza. Quindi, lo ripeto, non ci possiamo accontentare, dobbiamo essere attivi, dobbiamo metterci in moto per cercare la verità. Perché noi abbiamo la speranza, come cristiani, di poter contribuire e a far funzionare meglio la pubblica amministrazione, di renderla più vicina alle esigenze dei cittadini e delle imprese. Dobbiamo avere il coraggio di promuovere il cambiamento e non possiamo essere inerti perché l’agire quotidiano fa riferimento alla coscienza. La coscienza è oggi uno degli argomenti importanti di cui parlare. Si parla tanto di libertà di coscienza, di obiezione di coscienza, di rapporto della coscienza con la fede e le domande sono: come devo comportarmi? Come evitare il bene e fale il male? Chi sono chiamato ad essere? Come possiamo educare una coscienza potenziale che nei suoi giudizi attuali sia retta vera e certa? Ecco, la nostra società ha bisogno di persone serie, capaci che possano guidare il cambiamento, che possano guidare la cosa pubblica; però purtroppo oggi la propensione dei giovani è limitata verso il servizio alla cosa pubblica. L’impressione è che oggi impegnarsi nella pubblica amministrazione sia una battaglia perduta in partenza. Allora, io prima vi ho dato una idea, noi dobbiamo essere propositivi, quello della esperienza di una parrocchia romana per una scuola di formazione che potrebbe essere replicata, perché questa è la sussidiarietà: che la partecipazione di ognuno di noi, vivere ed agire politicamente, in conformità con la nostra coscienza, è l’espressione con cui i cristiani offrono il proprio coerente apporto attraverso il servizio alle istituzioni, per costruire una società più giusta e questo va proposto, va veicolato con chiarezza, con convinzione ai giovani, che sono i protagonisti di questo tempo postmoderno e da questo punto di vista il Concilio Vaticano II lo aveva colto in modo molto efficace perché questo resta una sfida attuale e urgente per la coscienza di tutti e particolarmente coerente con il titolo del Meeting di quest’anno. Afferma il Concilio: legittimamente si può pensare che il futuro della umanità sia riposto nelle mani di coloro che saranno capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza. E noi non possiamo smettere di sperare in uno Stato, in una pubblica amministrazione più efficiente ai bisogni dei cittadini e delle imprese, dipende anche e soprattutto da noi, grazie e buon Meeting.

SALVATORE TAORMINA:
Grazie Vito Cozzoli, anche per la testimonianza di passione e di concretezza che ha messo nel dire le cose che ci ha detto. E mi suscitava una domanda: ma questo orizzonte, che è stato evocato in questo intervento, è semplicemente il frutto di una sensibilità individuale? Propria di chi magari coltiva una attenzione verso alcuni temi di riflessione a sfondo ideale, a sfondo etico o anche a sfondo spirituale; abbiamo anche visto un chiaro riferimento alla Dottrina Sociale cristiana, oppure possiamo considerare che dietro a una sensibilità di questo tipo esista anche la possibilità di pensare a modelli che, da una sensibilità di questo tipo, nascano, senza immaginare poi che la pubblica amministrazione a fronte di cose così belle, provocazioni così interessanti come quelle che abbiamo sentito debba vivere poi di una legge sua propria. E a questo proposito vorrei proprio lanciare questa domanda o, se vogliamo, questa provocazione al professore La Spina che da anni è impegnato in questo terreno della valutazione delle politiche pubbliche, del tema della trasparenza e dell’efficacia dell’azione amministrativa nell’università italiana, ma ha svolto anche attività particolarmente impegnate a contatto con tante pubbliche amministrazioni italiane. Prego.

ANTONIO LA SPINA:
Grazie, grazie anzitutto per l’invito, anche per me è la prima volta a Rimini, sono io che sto imparando un sacco di cose, sia, diciamo, nei contenuti rispetto ad alcune delle iniziative che ho potuto seguire, poi ce ne sono tantissime e molte sono anche in contemporanea, sia anche nello spirito che colgo in queste giornate. Ora arrivo al punto che tu hai sollevato, però nel mio schema mentale chiaramente volevo partire un po’ dal titolo che a sua volta, come già è stato giustamente ricordato, si rifà a due articoli della costituzione: l’articolo 98, “I pubblici impiegati sono a servizio esclusivo della Nazione” e l’articolo 54 dove, non lo cito per esteso, si fa riferimento alla disciplina e all’onore. Ora il tema del servizio esclusivo è molto importante e ci ritornerò fra un po’ quando declinerò la questione della disciplina e dell’onore. Al servizio esclusivo della Nazione chiaramente è pure importante e già è stato sottolineato come non sia al servizio di individui, di gruppi, neanche soltanto degli utenti perché gli utenti di un servizio certe volte hanno le loro esigenze e possono avere anche i loro torti, i cittadini possono avere e hanno le loro esigenze, ma possono avere anche i loro torti, per esempio se pretendono di difendere l’abusivismo edilizio, quello renderà antipatico chi gli dice “no”, però si è al servizio della Nazione anche quando si adottano decisioni impopolari o si applica la legge magari. La davo per un’affermazione scontata, ma evidentemente non lo è. Però è anche vero che, scritta nel ’48 una frase del genere aveva un significato, magari anche quando io ero studente e per tanti anni anche durante l’inizio della mia attività di ricerca, è chiaro che quando pariamo di politiche pubbliche, pubblica amministrazione il referente è lo stato nazione, però è anche vero che oggi proprio questo termine “nazione” va interpretato in modo un po’ estensivo. Siamo dentro l’Unione europea, una quota sempre maggiore della sovranità nazionale oggi non è più delle nazioni, degli stati membri dell’Unione europea, ma è dell’Unione europea. Siamo dentro un mondo globalizzato, esistono istituzioni globali ed esistono problemi globali. Quindi talora, certamente il pubblico dipendente è dipendente di un certo stato, di una certa amministrazione, ma un riferimento che va anche al di là della nazione, della sola sovranità nazionale è importante, però questo ci porterebbe lontano quindi mi limito a questo accenno poi non ne parlo più. Invece quando parliamo di disciplina è un termine antiquato e anche molto antipatico, al giorno d’oggi disciplina, studio, carte sudate o le sudate carte, sono tutte cose un po’ passate di moda; ma magari ancora ancora se parliamo di disciplina con riferimento alla pubblica amministrazione, nel senso comune la percezione collettiva ci può anche stare, la gerarchia, la disciplina… Ma, ecco, detto così è sempre un po’ antiquato. Onore, certo, è un termine che ha una sua problematicità, ce l’ha in generale, ce l’ha poi in particolare in Italia e in particolare nel Mezzogiorno d’Italia, come si capisce dal mio accento io vengo dalla Svezia…e se pensiamo all’onore, al campo di certe subculture criminali, l’uomo d’onore e così via, pensiamo all’onore, a una certa, superata ormai fortunatamente, concezione dell’onore nel campo delle relazioni sessuali, delitto d’onore e così via, o la donna disonorata. O pensiamo, e qua non è invece un qualcosa che riguarda l’Italia o il Mezzogiorno d’Italia, all’onore cavalleresco, il punto d’onore per cui non si poteva sopportare uno schiaffo, un insulto, una mala parola, bisognava sfidarsi a duello. Tutte queste sono connotazioni negative del termine onore, mentre è chiaro che qua invece la connotazione è una connotazione fortemente positiva. E poi citerò un altro autore che in un certo senso aggrava ancora di più questo punto che ho appena citato, cioè la problematicità del concetto di onore: Hobbes. Hobbes, che tutti conosciamo, che ha delineato uno stato di natura in cui gli uomini, gli esseri umani, nei confronti degli altri uomini si comportano come lupi, per cui, seguire, uscire da questo stato di natura richiede niente di meno che un Leviatano, un soggetto dotato di un potere che ci costringa a entrare, per così dire, nella società, quella che lui chiama la società civile; poi è chiaro che il termine ha tanti altri significati, e ha tante altre connotazioni. In fondo che cosa cercano questi lupi, questi uomini che fanno parte di questo stato di natura, ma lo stesso avviene anche quando invece si passa alla società civile: il potere, la gloria e l’onore. Quindi l’onore hobbesianamente è una motivazione forte dell’azione umana. Il potere lo capiamo tutti, la gloria consiste nel riuscire a ottenere, a conseguire dei risultati speciali, eccezionali, vincere una battaglia, conseguire una certa carica. L’onore invece ha a che fare con quello che viene riconosciuto dagli altri. Ottenere la gloria significa compiere qualche cosa, rimanere onorati significa che nessuno mette in discussione la nostra onorabilità e quindi è necessario reagire nei confronti di coloro i quali la mettessero in discussione. Quindi l’onore è una proprietà in un certo senso statica, anche se però ha a che fare col riconoscimento da parte degli altri, e un po’ anche con quello che noi stessi percepiamo essere il nostro onore e la nostra onorabilità. E quindi è una concezione molto difficile, forte, secondo alcuni cinica, forse anche, dell’essere umano. Questi esseri umani inseguendo il potere, l’onore e la gloria magari certe volte sono preda di ambizioni smodate, non conoscono un limite, calpestano il prossimo, soprattutto i competitors, quelli che possono dare fastidio, sacrificano gli affetti più cari. Ecco, questo mondo di persone che vengono tenute a bada soltanto dallo Stato, ma quindi dalla pubblica amministrazione. Che poi il braccio operativo dello Stato, del Leviatano, è proprio la pubblica amministrazione. Però la stesso Hobbs, per sfuggire, poi a un certo punto se ne pente e subito si corregge, dice: “La magnanimità, la liberalità, la speranza, il coraggio – cito dal Leviatano –, la fiducia sono cose onorevoli”. Però subito aggiunge: “perché scaturiscono dalla coscienza del potere” quindi subito si corregge, ma secondo me sono regole in sè a prescindere dalla coscienza del potere, “una decisione tempestiva o la ferma determinazione di fare ciò che si deve, coincidendo con il disprezzo dei piccoli disturbi di fronte al pericolo, è cosa onorevole, mentre l’indecisione, l’incapacità di affrontare i problemi” lo dico stavolta con parole mie, è invece disonorevole. Tutte le azioni i discorsi che scaturiscono o sembrano scaturire da un’estesa esperienza, scienza, discrezione o spirito sono onorevoli, mentre le azioni che scaturiscono dall’incompetenza, dall’ignoranza, dall’arronzamento, come dico sempre in svedese, sono invece disonorevoli. Ecco che financo in Hobbes, un autore tremendo da un certo punto di vista, invece c’è una concezione dell’onore, che è una concezione forte, alla quale ci si può riallacciare. È onorevole intanto, chi è magnanimo, liberale, liberale nel senso di chi è disponibile verso gli altri, chi ha dentro di sé una speranza, financo Hobbes lo dice, figuratevi gli altri, è onorevole chi sa il fatto suo, chi nello svolgere un certo mestiere, nello svolgere una certa funzione, fosse anche un soggetto privato, fosse anche un libero professionista, ma a maggior ragione se è un soggetto, un dipendente pubblico o un funzionario pubblico. Potrebbe anche non essere un dipendente, l’articolo della Costituzione non si riferisce solo ai dipendenti pubblici, potrebbe essere un parlamentare, un assessore, un ministro, e fa le cose bene, le fa a regola d’arte, le fa alla luce di una scienza, di un’esperienza. Ecco, questo è essere onorevoli. Quindi l’onore non ha a che fare, anche se intuitivamente è chiaro che tutti a questo pensiamo, dicendolo in positivo soltanto con l’integrità, cioè col fatto che l’amministrazione non deve essere composta di soggetti corrotti, o di soggetti alle dipendenze di poteri criminali, a disposizione della ‘ndrangheta, per esempio, o di soggetti che invece sono alle dipendenze o in sintonia eccessiva, una certa sintonia ci vuole, ma una sintonia nelle minuzie con i Danti causa politici, per esempio, o politicanti, il cui volere insidia, perturba costantemente l’agire amministrativo, per cui anziché fare le cose diritte si fanno storte per compiacere certe esigenze, per esempio di tipo clientelare: tutto questo è chiaro che disonora l’amministrazione, quindi è il contrario dell’integrità. Però poi c’è una concezione dell’onore, alla quale ho appena fatto riferimento che vorrei un attimo sviluppare, per cui l’onore è fare le cose, cioè gestire quindi in questo caso la cosa pubblica, con professionalità, con competenza e con la capacità di servire in modo efficace l’interesse comune. Perché noi possiamo servire, provare, sforzarci anche in buona fede di servire l’interesse comune, ma poi servirlo male, dando luogo a sprechi, inefficienze, ridondanze, e talora, certo spesso ci si lamenta del fatto che i dipendenti pubblici siano troppi. Giustamente diceva Salvatore Taormina non è così, a paragone di altri Paesi l’Italia non ha poi così tanti dipendenti pubblici, adesso, in passato era di più, però al di là del numero dei dipendenti pubblici, talora può capitare che invece manchino dipendenti pubblici, o manchino soggetti con le adeguate qualificazioni rispetto a certi bisogni sociali, rispetto a certi territori, rispetto a certe esigenze, magari ce ne siano troppi o siano utilizzati in modo non appropriato quando invece parliamo di altre esigenze, altri territori, e così via. Ecco che, anche se qua il discorso dovrebbe essere molto più lungo e invece per ragioni di tempo chiaramente non lo posso sviluppare, i concetti di disciplina e di onore si possono anche… C’è qualche autore che sostiene che sono fondamentalmente delle dichiarazioni di tipo politico, e come talora si può pensare che contengono le costituzioni, quindi non hanno veramente un valore giuridico, invece altri autori sostengono che vanno invece calate nell’amministrazione, e quindi devono essere elementi interpretativi per il giurista, per l’amministratore, che lavorando nell’amministrazione non le deve vedere come delle formule, sia pure importanti, condivisibili, quindi come dire, puramente di carattere valoriale, ma deve avere un preciso contenuto giuridico e organizzativo a questo punto. E quindi disciplina e onore come, sia in negativo, chiaramente come abbiamo già detto e come già è stato accennato, e penso verrà accennato anche nella relazione che seguirà, come integrità, come assenza di corruzione, di permeabilità, di clientelismo, tutto questo è fondamentale, è la prima cosa che ci viene in testa, e deve essere così. Ma disciplina e onore anche come pubblica amministrazione, e quindi pubblici dipendenti, o comunque soggetti che esercitano funzioni pubbliche, che sono capaci di svolgere i compiti a cui la pubblica amministrazione è chiamata. Vale a dire, curare al meglio, date le risorse disponibili, che sono sempre inferiori rispetto alle attese, e gli interessi collettivi e individuali, ma quelli collettivi in generale che sono affidati alle cure della pubblica amministrazione. E la prima risorsa nel campo della pubblica amministrazione, ma in realtà in tutte le organizzazioni, anche nelle organizzazioni più ipertecnologicizzate, organizzazioni in cui sempre di più avremo tecnologie, macchinari, robot, è comunque la risorsa umana. Qualunque organizzazione, anche proprio un’organizzazione fatta di poche persone, a maggior ragione un’organizzazione fatta di tante persone, milioni di persone, come può essere una burocrazia pubblica o un intero apparato pubblico dello Stato, si regge e funziona quando la risorsa umana è quella adeguata. Ora, è vero, e quindi anche questo è stato ricordato, quand’è che noi avremo delle risorse umane adeguate al compito o ai compiti? Prima di tutto, c’è un problema di preparazione, sapere le cose adatte. Quale dovrebbe essere la preparazione di un pubblico funzionario? Anche qua, apro un capitolo che chiudo subito, di cui potrei parlare, non vorrei annoiarvi per tanto tempo, su cui mi sono sempre dedicato e mi continuo a dedicare, si potrebbe dire ci vuole una preparazione di carattere giuridico. Io stesso sono laureato in Giurisprudenza e me ne vanto, mi è molto servito, anche se poi ho fatto e continuo ad occuparmi anche di cose diverse. Sicuramente è così: ci vuole una forte competenza di carattere giuridico, perché le pubbliche amministrazioni applichino le norme. Amministrare significa: data la legge, c’è il principio di legalità. Però è soltanto questo? Un’applicazione, quindi una conoscenza soltanto di carattere giuridico, può essere tutto quello che ci serve per far sì che le pubbliche amministrazioni funzionino adeguatamente? No! Allora è una domanda retorica, tutti sappiamo la risposta. No, le amministrazioni sono piene di tantissime altre, competenze: medici, agronomi, chimici, ingegneri, a seconda delle esigenze. Però, al di là di quelli che sono i settori tecnici delle amministrazioni, in genere la competenza nell’amministrare (quindi anche se parlassimo di un ospedale o di un ufficio del genio civile, per esempio, ma parliamo in generale dell’amministrazione) deve essere giuridica, ma deve essere anche con altro, quindi delle competenze valutative, delle competenze di scienze sociali applicate. In un certo senso ci vuole, quindi, un percorso formativo adatto. Altrove si parla di science government, schools of government, anche in Italia ne abbiamo, scienze del governo viene tradotto in italiano, anche se non è una tradizione felicissima. Però io penso anche a un corso di studi in Giurisprudenza, visto che ci si lamenta del fatto che ci sono moltissimi laureati in Giurisprudenza che oggi non vengono più assorbiti dalla professione forense, cioè li assorbe, ma, diciamo, ci sono troppi avvocati, questo lo sappiamo (fermo restando, sarebbe stato meglio forse restringere un po’ gli accessi in passato). Comunque, uno sbocco importante potrebbe essere per ognuno un adeguato curriculum pensato apposta per gestire la pubblica amministrazione, quindi non potrebbe essere un curriculum soltanto giuridico, potrebbe essere un elemento del genere. Quindi la formazione è una cosa molto importante. Ho aperto e chiuso una parentesi, la chiudo subito, perché il discorso dovrebbe essere molto molto più articolato. Gli stessi Tedeschi, che avevano, fino a una ventina, trentina di anni fa, questa concezione, già una trentina di anni fa si resero conto che, invece, andava bene che ci fossero dei laureati anche in scienze sociali. Però ci vogliono soggetti che abbiano questa competenza anche nelle scienze sociali, che sia finalizzata alla buona amministrazione. Altra cosa fondamentale che è già stata richiamata, sono le motivazioni: una persona può essere molto competente in tutto ciò che è necessario per gestire, per esempio, un’azienda o un’organizzazione, e poi non avere la motivazione adatta, che è lo spirito di servizio. Quindi in qualche modo è un tema delicatissimo, ci mancherebbe, però è un tema fondamentale. Sarebbe importante anche selezionare soggetti che queste motivazioni ce le hanno. Sì, teoricamente un soggetto potrebbe crearsi queste motivazioni o comunque stimolare, come dire, far risorgere o emergere nel proprio intimo queste motivazioni, quando ha già vinto il concorso ed è dentro la pubblica amministrazione. Ma tutti capiamo che è molto difficile: se una persona non ce l’aveva fin dall’inizio, è difficile che ce l’abbia dopo; mentre, viceversa, se l’aveva fin dall’inizio e se va a trovare una pubblica amministrazione in cui gli fanno passare la voglia, gli fanno passare l’entusiasmo, possibilmente le perderà. Quindi è più facile perderle, certe motivazioni, piuttosto che trovarle. E allora è molto importante concentrarsi su quelli che queste motivazioni ce le hanno. Anche qua ho aperto una parentesi, che andrebbe sviluppata molto articolatamente, perché è una cosa non semplice da fare, ma si può fare, non è così difficile. Esistono gli esperti di relazioni umane, di personale, di risorse umane e, quindi, anche gli esperti di coloro i quali possono individuare nei soggetti certe motivazioni, per esempio, chiedendo il tipo di esperienza che una persona ha fatto nella vita prima di accedere alla pubblica amministrazione. Certo, poi vediamo concorsi con decine di migliaia di domande o centinaia di migliaia di domande e là capiamo che questo tipo di selezione non si potrà fare, ma, invece, sarebbe quella che sarebbe assolutamente cruciale, fondamentale. Dentro la pubblica amministrazione è necessario che ci siano (e vado a chiudere, perché i venti minuti sono quasi finiti) una serie di altri meccanismi, che riguardano l’addestramento, che riguardano le ricompense. Uno potrebbe pensare molto semplicemente (è una cosa intuitivamente che ci può pure stare) pagare di più coloro che fanno di più e meglio, e va bene, in linea teorica. Ma in realtà molto spesso questo non ha funzionato, anche nei Paesi dove queste cose le hanno prese più sul serio, cioè nei Paesi di lingua inglese. In realtà ci dicono sempre anche autori inglesi che quello gioca molto in questo tipo di professione, ma in altre professioni no, è chiaro (se si fa in altri campi, dove si è orientati al profitto, ovviamente lì il discorso cambia); in un tipo di professione come quella della pubblica amministrazione giocano molto più, sono cruciali le motivazione cosiddette intrinseche, mentre chiaramente il pagamento maggiorato è una motivazione estrinseca (con questo non voglio dire che vada tutto buttato a mare questo ragionamento della pay for performance, però va molto molto circoscritto). Invece bisogna puntare molto di più sulle motivazioni intrinseche e poi sulla valutazione, ché sulla valutazione si dovrebbe aprire un capitolo gigantesco, che chiaramente per ragioni di tempo è cosa che non faccio. Ora, avrei tantissime altre cose da dire, però voglio stare nei tempi, perché è giusto così. E allora mi limito soltanto a leggere due o tre frasi di quello che è (ogni tanto prendo e mi pare interessante) l’“American society for public administration”, che è una associazione privata, composta fondamentalmente di tantissimi dipendenti pubblici. Non tutti dipendenti pubblici, perché è un’associazione privata: chi vuole aderire aderisce o, meglio, chi viene ammesso aderisce. Siamo in una sorta di club di funzionari pubblici, ma lì c’è anche qualche esperto, qualche docente, qualche consulente, diciamo, quasi tutti sono dipendenti pubblici, i quali si confrontano fra di loro su quelle tematiche di cui abbiamo parlato. È un’associazione di ispirazione strettamente professionale. E ci sono delle affermazioni che a qualcuno di questa parte dell’Oceano Atlantico possono sembrare ingenue, perché, a parte “Siate preparati a compiere decisioni che potrebbero anche non essere popolari”, questo lo abbiamo detto prima. Però ci sarebbero tantissime frasi da leggere sui cui sarebbe interessante soffermarsi, ma, ripeto, non lo faccio per ragioni di brevità. Per esempio, “esercitare l’integrità – vi ho già citato –, coraggio, compassione, benevolenza e ottimismo”. Quindi questi sono i pubblici dipendenti statunitensi, che a titolo privato dicono a se stessi come ci si dovrebbe comportare, ecco, soprattutto come ci si dovrebbe e sentire dentro alla pubblica amministrazione. Attenzione: è una società serissima, pubblica una delle più importanti riviste che esistono al mondo (la “Public Administration Review”), cioè non è soltanto gente che ha idee belle, non è una cosa fatta solo di anime belle. Poi è gente che veramente amministra. E tutto questo, poi c’è tutta una serie di riferimenti all’onestà, all’integrità, a tutte queste cose che abbiamo detto. E poi “impegnarsi per l’eccellenza”, quindi non puntare al minimo sindacale, per così dire, e neppure a ciò che è un po’ di sopra del minimo, ma quello che noi faremo, ci sentiamo spinti a fare per ottenere magari il premio di produttività, sperando poi che questo premio non venga dato uguale a tutti, non venga dato per meriti di altri tipo, speriamo che sia così. Ma puntare all’eccellenza, alla professionalità e alla competenza. Questo tipo di esempio (poi non sto dicendo che tutti i pubblici dipendenti statunitensi sono così o che lo fanno sul serio, però è un esempio interessante e non è ovviamente l’unico, se ne possono trovare tanti altri nel resto del mondo), secondo me, è la declinazione moderna e anche post-weberiana, nel senso che non si fa riferimento soltanto all’applicazione della legge (certamente c’è tutta una serie di passi che ovviamente non vi dico per brevità) di quello che dovrebbe essere il pubblico dipendente, il pubblico funzionario, il civil servant o il servitore dello Stato, se lo vogliamo dire in italiano, di oggi e, quindi, un tipo di comunità professionale (si alludeva prima alle comunità professionali) che incarnerebbe l’idea della disciplina, in un senso molto moderno, e anche l’idea dell’onore, dell’onore in questo caso della pubblica amministrazione. Grazie per l’attenzione.

SALVATORE TAORMINA:
Grazie al Professor La Spina. È interessante conoscere che in una delle più grandi democrazie del mondo vige un sistema che affida la responsabilità di questa disciplina e di questo onore, prima che a un apparato normativo e sanzionatorio, a una comunità professionale, che potremmo definire di tipo “reputazionale”. Mi viene in mente l’esperienza delle antiche corporazioni di arte e mestieri medioevali, che avevano il compito di stabilire esse stesse le regole per svolgere al meglio l’attività di quella categoria ed erano esse stesse le prime interessate a far sì che quelle regole fossero rispettate per non discreditare la categoria. In qualche modo mi sembra che l’esempio che è stato riportato, molto interessante anche in chiave propositiva, rilanci su una prospettiva di comunità professionale. Ma veniamo a un dunque importante, diciamo. Perché sappiamo che tante volte mancanza di disciplina e di onore nella pubblica amministrazione finiscano per sfociare nella esperienza giudiziaria, diciamo. La cronaca è piena, tra furbetti del cartellino e tangentisti in servizio permanente ed effettivo, sappiamo tutti che è un punto di approdo quasi obbligato. Eppure, mi domando e lo chiedo al Dottore Balsamo, anche per la grande esperienza che lui ha avuto in campo di processi importanti esercitati sulla criminalità organizzata: come è possibile o se è possibile, anche nell’ambito della cornice ordinamentale attuale, recuperare anche nell’amministrazione della giustizia, rispetto alle strutture dell’amministrazione, quella dimensione più sostanziale dell’agire pubblico proprio dell’azione giurisdizionale (perché in fondo anche l’azione giurisdizionale è un agire pubblico, anzi uno di quelli per eccellenza). Prego.

ANTONIO BALSAMO:
Sì, anzitutto un sincero ringraziamento agli organizzatori perché per me partecipare al Meeting è riaprire un dialogo ideale cominciato esattamente 35 anni fa, nell’estate del 1892, che è l’estate in cui io faccio diciott’anni e allora il mio professore di Lettere mi propone di andare al Meeting di Rimini, che quell’anno era sul tema “le risorse dell’uomo”. Ecco, quell’anno non ci sono potuto andare, quest’anno invece sono venuto con mio figlio e sono particolarmente contento di essere qua anche perché vi devo dire che il tema con cui il Meeting sta affrontando una serie di questioni che sono veramente difficili: quella delle migrazioni, quella dei muri, quella del rapporto tra le diverse religioni. Mi fa tornare alla mente una frase che diceva spesso una persona che io, Salvo Taormina e Antonino La Spina che siamo vissuti nella Palermo degli anni Ottanta ci ricordiamo direttamente; i più giovani l’avranno vista nel film La mafia uccide solo d’estate; ecco, questo signore si chiamava Gaetano Costa ed era solito dire con grande semplicità: “ci sono persone che hanno il diritto di avere paura. Noi abbiamo il dovere di avere coraggio”. Ecco, l’impostazione del Meeting mi sembra esattamente questa rispetto a questi temi caldi e difficili. Poi, devo dirvi, un’altra caratteristica bella del Meeting è che mette in crisi tante certezze, io mi occupo da venticinque anni di giustizia penale e vedere ieri l’incontro coordinato dalla professoressa Cartabia mi ha fatto fare delle riflessioni che non avevo fatto mai sul senso della pena, su come si può cercare di ricostruire il senso dell’essere uomini, e anche ecco, mi ha fatto pensare a tante cose che potremmo cercare di sviluppare nel settore della de-radicalizzazione, e io credo che sia veramente che dobbiamo coltivare per il futuro della nostra civiltà, questa. E fra le altre cose, grazie a questo tema che mi è stato proposto, mi ha fatto riflettere per la prima volta su due norme della Costituzione che sono l’articolo 54 e l’articolo 98 della Costituzione, su cui vi confesso che non ci avevo mai fatto caso a che cosa dicessero. Mi sembravano un po’ degli arnesi del passato quasi; invece, nella Costituzione le parole sono importanti. Ecco, una prima riflessione che viene spontanea è che la Costituzione italiana non è il prodotto di una ingegneria costituzionale astratta, non è il frutto di modelli di copia o incolla di modelli nati in qualche parte totalmente diversa del mondo e calati qua; è il frutto del pensiero dell’esperienza di gente che aveva sofferto, aveva attraversato la dittatura e la guerra, aveva una conoscenza profonda dei vizi e delle virtù di tutto un popolo. Nella cultura di chi ha creato la Costituzione c’erano alcuni punti fermi; uno è che non c’è vera legalità senza libertà e il secondo è che la Costituzione è uno strumento di trasformazione graduale affidato alla responsabilità di tutti i cittadini italiani. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere. Ecco, allora, queste parole importanti della Costituzione ne comprendono due: una è nazione, una parola che c’è soltanto in tre norme della Costituzione, due si riferiscono rispettivamente ai parlamentari e ai dipendenti pubblici, accomunati in questo impegno di servire esclusivamente la nazione senza quindi interessi di parte. Il secondo è il termine onore, fra l’altro è usato in una norma che è il secondo comma dell’articolo 54, che fa seguito ad un’altra che è contenuta nel primo comma, che spiega appunto che tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. Quindi sembra suggerire che c’è qualche cosa di più dell’osservanza delle leggi che si deve richiedere ai dipendenti pubblici, fra l’altro non parla solo dei dipendenti pubblici. Parla di persone a cui sono affidate funzioni pubbliche: possono essere funzioni di tutti i tipi, funzioni legislative, amministrative, giudiziarie, ma poi soprattutto affidare, è come se volesse dire: “guardate che nel momento in cui svolgete una funzione pubblica dovete pensare che vi stiamo affidando la salute, il futuro dei nostri figli, la speranza di un popolo, ecco questo termine, affidare, vuole realmente alludere ad un surplus di fiducia che bisogna ispirare. E poi, ecco, questo collegamento con il giuramento: il giuramento è qualche cosa che attiene molto alla sfera della coscienza; io credo che voglia esprimere un bisogno di un impegno forte che coinvolge la sfera pubblica, come la sfera privata, nel servizio ai cittadini. Ecco, allora, io vorrei soltanto comunicarvi un paio di riflessioni, che nascono dalla lettura di queste due norme: la prima, che la scelta del costituente sembra contro ogni autoreferenzialità, sembra contro ogni contrapposizione artificiosa, sul piano etico tra i poteri dello Stato; ecco, diceva Giovanni Paolo II che mentre l’umanità si imbarca nel processo di globalizzazione, non può più fare a meno di un codice etico comune. Questa affermazione è ancora più vera per quanto riguarda le varie componenti dello Stato nel senso che se i vari poteri dello stato si comportano come monadi, se quindi non sono capaci di sviluppare questo potere, questo codice etico comune, io credo che siano destinati a replicare al loro interno gli stessi difetti che attribuiscono agli altri secondo il più classico degli schemi della doppia morale, che è una versione de noartri del relativismo etico, ecco parliamoci chiaro. Quello che mi sembra che voglia richiedere la norma è una alleanza e non una contrapposizione tra i poteri dello Stato per la realizzazione effettiva di valori etici comuni e di obiettivi trainanti. Secondo tema: questo concetto di onore è una questione su cui spesso si sono interrogati i penalisti che si sono chiesti: visto che l’unica norma che usa il termine onore nella costituzione dell’articolo 54, allora dove troviamo un fondamento costituzionale per la tutela dell’onore? E l’anno trovato in un’altra norma che è l’articolo 3 che inizia dicendo “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale” e quindi evidentemente esclude ogni comportamento lesivo della dignità. Siccome mi è piaciuta molto quella esposizione che faceva poco fa il professore La Spina, vorrei aggiungerci molto più modestamente una idea mia. Comportarsi con onore significa prendere sul serio la dignità di ogni cittadino, anzi di ogni uomo. Mettere al centro dell’azione dello Stato, di ogni azione dello Stato la persona umana che deve sempre rappresentare un fine e non un mezzo. Ecco, se mi permettete di fare un piccolo riferimento concreto a qualche cosa che secondo me è fondamentale per realizzare questo principio, anche se vi sembrerà un discorso un po’ lontano, è la riforma delle intercettazioni telefoniche. C’è una legge delega, che è stata appena approvata secondo me la capacità di trattare la persona umana come un fine e non come un mezzo passa anche attraverso il contenuto che aveva la riforma delle intercettazioni telefoniche e ambientali. Perché io credo che da lì si veda la capacità di avere un rispetto vero della dignità di ogni uomo; quello che è uno strumento invasivo deve essere limitato soltanto a fini di giustizia. La metafora dell’uomo di vetro è una metafora nazionalsocialista, questo deve essere chiaro. La nostra cultura costituzionale è esattamente l’opposto di questo modo di pensare; io credo che queste premesse possano trovare degli sviluppi importanti proprio nel settore della lotta alla corruzione. C’è un discorso particolarmente bello, di qualche mese fa, di Papa Francesco che insiste sul collegamento fra lotta alla corruzione e promozione dei diritti umani. Io credo che uno degli aspetti più positivi che si sono affermati negli ultimi anni sia la valorizzazione del tema della prevenzione accanto a quello della repressione. La prevenzione non deve diventare una produzione di pezzi di carta, di piani anticorruzione tanto apparentemente perfetti quanto praticamente inutili. Io credo che invece un modello serio sia quello che abbiamo sentito nelle relazioni precedenti che è sotto varie forme la comunità reputazionale, la comunità professionale. Ecco, io ci aggiungerei un altro termine che è quello della comunità educativa e se mi permettete due ricordi personali. Ci sono delle esperienze che mi hanno segnato. Anzitutto una piccola premessa. Ieri vedendo la mostra sul lavoro c’era una riflessione bellissima che ho sentito molto mia, era fatta da un giovane, si chiamava Matteo Stefanelli e dice: “non esisterebbe lavoro senza i miei colleghi. Se io mi alzo tutti i giorni e vengio in ufficio, non è per l’azienda vissuta come entità astratta ma per le persone che lavorano qui. L’azienda si può chiamare come ti pare ma se non sei felice di vedere i tuoi colleghi ogni mattina, dopo un po’ molli e capisci che non ne vale la pena”. A questo punto, vi volevo esporre due ricordi molto personali; uno è un ricordo veramente molto bello, quello di persone che come si diceva ieri nell’incontro sulla giustizia riparativa hanno messo in pratica l’idea che ogni uomo è qualche cosa di molto più grande rispetto alla sue colpe, non può essere mai identificato con i suoi errori e ha il diritto comunque al massimo rispetto da parte degli altri uomini. Ecco, io questo atteggiamento l’ho visto espresso da persone che avuto la fortuna di conoscere in un momento in cui ventisei anni fa ho iniziato a fare questo lavoro. Una si chiamava Giovanni Falcone, che nel libro Cose di cosa nostra tra le altre cose scriveva: “conoscere i mafiosi ha influito positivamente sul mio modo di rapportarmi con gli altri e sulle mie convinzioni”. Ho imparato a riconoscere l’umanità anche nell’essere apparentemente peggiore, avere un rispetto reale e non soltanto formale per gli altri. Un altro è il più umano e santo che ho conosciuto, si chiamava Rocco Ghinnici, dopo tanti anni ho saputo dai suoi familiari che invitava i propri figli ad andare e a giocare con i figli delle persone detenute che lui stesso aveva fatto arrestare perché avevano commesso effettivamente dei reati, erano trattenute nel carcere annesso alla pretura dove lui amministrava la giustizia, però riteneva giusto che i propri figli giocassero con i figli di queste persone detenute. Ecco, guardate che io non sto costruendo qua dei santini, mi sto soltanto cercando di trasmettere una parte di quel tessuto di valori su cui secondo me in Sicilia si è costruita in un certo periodo un’antimafia vera, che non ha niente a che fare con quell’antimafia di cartone che sembra costruita sulle riedizioni moderne del miles gloriosus, ecco, per intenderci di Plauto. È un tipo di cultura che per me è agli antipodi di quella del lancio di monetine agli imbragati. Ecco, il secondo ricordo è molto più triste, lo devo dire: riguarda, però io penso lo stesso che è il caso di discuterne anche perché ho visto che c’era una mostra dedicata a De André, un’espressione molto bella di De André è quella che “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”. Ecco, allora, sostanzialmente in questa ottica, io vi devo dire che mi è capitato tante volte di vedere persone che conoscevo e che avevo conosciuto ben diverse, che a un certo momento assumono dei comportamenti eticamente discutibili, per usare un’espressione politicamente corretta. Riflettendoci bene io ho visto che ci sono stati tre segnali di allarme che hanno di solito preceduto questi comportamenti, e sono stati la progressiva perdita di carica ideale, l’arroganza del potere e la pratica della doppietta morale. Quando si sviluppano questi campanelli d’allarme, ci sono tutte le condizioni per il verificarsi di determinati atti anche purtroppo molto brutti. Allora io credo che dobbiamo chiederci: come possiamo calare in termini tecnici, con un riformismo serio, questa norma costituzionale sulla disciplina e l’onore di tutti i soggetti a cui sono affidate funzioni pubbliche? Io credo che la risposta importante può essere nel principio di sussidiarietà, che non è soltanto qualche cosa che regola il rapporto tra lo Stato e le formazioni sociali in generale, ma è anche un tema forte sul rapporto tra le reazioni giudiziarie e le altre forme di reazione giuridica e sociale alla criminalità. Ecco, questa è una questione su cui io, per la prima volta, ne ho sentito parlare tanti anni fa dal professore La Spina, però, devo dire che mi ha poi appassionato molto. Il principio di sussidiarietà è un tema classico del diritto penale: esprime l’idea del diritto penale come estrema ratio; però di solito è visto come qualche cosa che attiene alle scelte di incriminazione del legislatore. In realtà potrebbe avere delle implicazioni importanti sul piano del processo penale e anche sul piano del rapporto, più in generale, la giustizia penale e il mondo economico-sociale e anche il mondo della Pubblica Amministrazione. Ecco, ci sono due proposte di riforma che secondo me sono molto importanti, che riguardano due settori di confine del diritto penale, che però esprimono una tendenza di fondo che, a mio parere, è il futuro della giustizia: un primo settore è quello del Codice Antimafia. Voi sapete che c’è una proposta di riforma attualmente in discussione… Per favore, non fatevi ingannare, qua non si tratta di inserire nel nostro sistema penale dei principi ispirati al pensiero di Torquemada, non si tratta di introdurre le pene del sospetto, qua si tratta semplicemente di ripensare un modello alternativo rispetto a quello della pena, si tratta di sfuggire a una visione del diritto penale che è incentrata soltanto sull’individualismo, sul primato della pena detentiva, sul monopolio dello Stato nelle risposte alla criminalità; si tratta invece di costruire un diritto penale mite, di stampo post-moderno – c’è in molti Paesi anglosassoni un dibattito interessantissimo sul concetto di post-modern criminal law – che in sostanza cerca di cogliere la dimensione collettiva, sistemica – come si diceva nell’introduzione –, economica dei fenomeni criminali, e quindi di adattare la risposta secondo criteri di gradualità, ad una realtà che non è quella del delitto commesso da una singola persona, che quindi non si può esaurire nella conoscenza di un singolo fatto, di una singola condotta senza comprenderne lo scenario, il retroterra, gli effetti: tutto quell’insieme di elementi che sono necessari per inquadrare realmente il fatto nel suo significato all’interno di un contesto. E poi, soprattutto, per non applicare il principio della responsabilità personale come una legittimazione della logica del capro espiatorio, che notoriamente, per chi vi è sottoposto presenta l’inconveniente che paga per tutti, ma per gli altri presenta l’inconveniente che non si paga assolutamente niente, giusto? Cioè, tutti quelli che non sono capri espiatori non hanno bisogno di interrogarsi sulle ragioni per cui si sono verificati determinati fatti. Ecco, invece, il sistema della prevenzione, che è nato sul terreno della lotta alla mafia, ma è stato poi esteso a moltissimi altri settori, compreso quello della corruzione – per cui attualmente è in vigore il modello delle misure di prevenzione – è di trovare una risposta diversa, che non parte dalla pena detentiva, dalla restrizione della libertà personale: parte invece dalla comprensione di quali sono gli assetti di potere sottesi a determinate forme di devianza e incide sugli interessi veri. Guardare alla sostanza della risposta, come giustamente sollecitava pocanzi Salvo Taormina. In realtà questa tematica del Codice Antimafia in questo momento presenta una pocanzienda dimostrativa importantissima, che è quello dello studio di nuove misure, di bonifica aziendale che non presentano un contenuto traumatico – per intenderci, non sono il sequestro e la confisca dell’azienda con i pericoli che ci sono sul piano della discontinuità aziendale –: sono invece delle misure di vigilanza prescrittiva, che cercano di recuperare alla legalità un’organizzazione complessa. Ecco, c’è un altro settore in cui si sta esprimendo la stessa tendenza, che è quello della responsabilità penale degli enti, su cui ci sono delle interessantissime proposte di riforma che partono dalle esperienze anglosassoni in cui, in buona sostanza, l’impresa è vista molto spesso come un partner essenziale per l’accertamento della criminalità economica. Ci sono, ad esempio, nel sistema giudiziario statunitense i non prosecution agreements, che in sostanza sono degli strumenti che consentono di rinunziare o di differire l’esercizio dell’azione penale a determinate condizioni, fra cui: una collaborazione attiva dei responsabili di un’azienda per scoprire determinate forme di malaffare e la messa in opera di meccanismi seri volti a prevenire il nuovo verificarsi di comportamenti dello stesso genere. In sostanza è un modo per risolvere un problema sostanziale serio senza gli strumenti traumatici del diritto penale, contando su una applicazione autentica del principio di rieducazione come affermazione di valori, anche sulla base di una forte motivazione reputazionale perché, evidentemente, c’è un incentivo notevole per l’impresa, per l’organizzazione complessa che è dato dalla possibilità di evitare di essere coinvolta in un processo penale. In buona sostanza, io credo che un modello del genere rappresenti il futuro della giustizia penale e rappresenti anche qualche cosa che andrebbe studiato molto bene nei rapporti tra giustizia penale e Pubblica Amministrazione, proprio per evitare quello che diceva all’inizio il professore Cozzoli, che passi la voglia. Io credo che le persone per bene che esistono nella Pubblica Amministrazione debbano essere invece incoraggiate a riacquistare la voglia, anche perché, in uno Stato autenticamente liberale, non si può pensare di affidare la reazione alla criminalità né al solo apparato dello Stato, come avviene, appunto, nel casi di Stato autoritario, neanche soltanto alla società, come nel modello della società senza Stato, la stateless society. Invece, appunto, occorre pensare a forme di reazione combinata in cui le migliori energie della società, delle forze economiche della Pubblica Amministrazione combattono la stessa battaglia della Magistratura. Ecco, io ci vedo in questo una estensione ad altri mondi di un pensiero che aveva espresso in maniera stupenda Giovanni Paolo II nella Centesimus Annus, quando aveva insistito molto sull’economia della conoscenza e sulla responsabilità sociale delle imprese. Io credo che dobbiamo costruire tutti insieme una responsabilità sociale della giustizia. Infine, per concludere, permettetemi soltanto di dire un’ultima cosa: stamattina c’era Alberto che diceva: “il Meeting ha bisogno di voi”. Io credo che tutti abbiamo bisogno del Meeting per rimetterci in crisi, per porci tante domande. Grazie.

SALVATORE TAORMINA:
Ringrazio anche Antonio Balsamo per la sua testimonianza così diretta e così propositiva: ci dice di un cantiere in atto e di una possibilità di immaginare funzioni diverse di uno Stato, di una Nazione di cui noi siamo parte, che cooperino tutte al bene comune. Ho molto apprezzato quel riferimento che prima veniva fatto alla necessità che diverse componenti di diversi poteri dello Stato remino tutti in direzione di questo bene comune. E un’ultima annotazione: mi piaceva riprendere quell’accentuazione sulla parola “affidare”, affidare le pubbliche funzioni, che ha il suo compendio nella parola “responsabilità” – “responsabilità” significa “rispondere a qualcuno”: innanzitutto rispondere a questo desiderio, a questa volontà di bene. Si diceva “ringraziamo il Meeting perché c’è”. Il Meeting c’è anche perché tutti siamo partecipi nel costruirlo e costruirlo anche dal punto di vista del contributo economico e quindi, così come gli anni passati, anche quest’anno è possibile partecipare alla costruzione del Meeting, anche attraverso delle donazioni economiche. A questo scopo all’interno dei numerosi padiglioni troverete la postazione “Dona ora”: le donazioni dovranno avvenire esclusivamente presso i desk dedicati – appunto, contraddistinti da questa posizione “Dona ora” – dove sarete accolti dai volontari in maglietta verde che potranno raccogliere il vostro contributo, perché il Meeting continui a vivere e a riproporsi. Grazie e buona sera.

Data

25 Agosto 2017

Ora

15:00

Edizione

2017
Categoria
Incontri