Chi siamo
IL FUTURO DELLA TRADIZIONE
I giovani dialogano con Fausto Bertinotti, Presidente della Fondazione Cercare Ancora. Introduce Andrea Simoncini, Professore Ordinario di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Firenze.
Il futuro della tradizione
ANDREA SIMONCINI:
Grazie a tutti, benvenuti, io ringrazio in maniera particolare Fausto Bertinotti e Lella, la moglie che è qui in prima fila, perché in realtà per venire qui da noi , per dimostrare questo grande gesto di amicizia nei confronti del Meeting, si sono sobbarcati un viaggio praticamente un esodo biblico, perché è durato tantissimo, in auto venendo da dove erano in vacanza. Insomma, è stato veramente un grande gesto di amicizia e vorrei cominciare con un grande grazie per questo gesto grande gesto di amicizia. Insisto: a Fausto e a Lella.
FAUSTO BERTINOTTI:
Grazie a voi. In questo senso più a Lella, perché io guidavo e a rischio era lei.
ANDREA SIMONCINI:
E lei mi ha espresso qualche perplessità sul tuo stile di guida, ma questo non è argomento di oggi. Allora, con questo dialogo io vorrei introdurlo brevemente anche dicendo come è il format, la struttura di questo dialogo che facciamo oggi. Il titolo, se volete è un po’ una versione sintetica del titolo del Meeting: “il futuro della tradizione”. E volevamo il più possibile che questo dialogo fosse appunto un dialogo e non tanto una lezione sul tema. Per far questo è nato, come sempre più di frequente sta succedendo nel Meeting, un lavoro, soprattutto la nostra idea è che è interessante come la tradizione dialoga coi giovani, cioè con gli eredi, per usare il titolo del Meeting. Allora c’è un gruppo di ragazzi dell’università, che poi durante l’anno ha anche tenuto i rapporti con Fausto a seguito dei vari interventi pubblici, delle possibilità di incontro che ci sono state e quindi l’idea di questo momento all’interno di questa nostra giornata. L’idea di questo nostro incontro, è quello di poterli chiamare poi sul palco a porre queste domande, alcuni di questi ragazzi che hanno lavorato su questi temi e hanno poi enucleato alcune questioni focali, infiammate, sul tema tradizione, futuro, eredità, patrimonio e prospettiva. Abbiamo scelto i quattro, li cito subito: Davide, Edoardo, Andrea e Bernardo che ci aiuteranno in questo dialogo dopo, li chiamerò e con loro si innescherà questa forma di discussione, di conversazione. Io però volevo, anche per dare un po’ l’avvio a questo nostro incontro. Io volevo partire: il tema è che cosa ci è stato consegnato, è il rapporto tra la tradizione e il futuro e per introdurlo io questa estate mi è capitato di leggere un libro, l’ultimo penso, di Massimo Recalcati, (forse qualcuno di voi lo conosce) è uno psicanalista, ma anche giornalista, saggista: questo libro si chiama “Il segreto del figlio”. Perché in realtà il rapporto tra la tradizione e il futuro è in realtà il problema al fondo, al suo archetipo è il problema tra padre e figlio. Al fondo la questione della tradizione, delle tradizioni in cui noi siamo nati e delle tradizioni che rappresentiamo, la tradizione di Fausto è ben nota e la conosciamo tutti perché ne è stata una parte, un protagonista importantissimo, la tradizione operaia, la tradizione sindacale, la tradizione poi del partito comunista e di tutto lo sviluppo della sinistra politica, che è nata all’interno di questo. Ecco , il problema al fondo della tradizione Recalcati lo riduce, lo condensa, nel rapporto padre-figlio. E lui dice: esistono come due grandi modelli, due grandi racconti del rapporto padre figlio. Il primo è quello di Edipo, Edipo come dicono i classicisti, i puristi. Edipo e Laio, la grande tragedia, nel modello di Edipo, l’unico possibile rapporto tra il figlio e il padre è che il figlio uccide il padre. Lo stesso apparire del figlio, lo stesso nascere del figlio segna l’inizio della fine del padre, tanto che il padre vuole uccidere il figlio. Il rapporto tra le generazioni è un rapporto totalmente simmetrico, in cui l’uno vuole esattamente l’opposto dell’altro. E qual è il destino? Il destino di questa impostazione? È che ogni generazione è come destinata, costretta a uccidere la precedente. L’altro modello che usa in questo libro per raccontare del rapporto padre e figlio, è il modello del racconto del figlio ritrovato, come lui chiama quello che noi normalmente chiamiamo la parabola del figliol prodigo. Lui giustamente dice: già chiamarlo prodigo, cioè sperperatore, ha una sua impostazione valutativa. Lui dice, questa grande parabola di Luca, questo grande racconto di Luca, ci dà un rapporto tra padre e figlio molto diverso. Il figlio chiede l’eredità al padre e, spiega lui, che per una concezione tribale come era quella di cui parliamo, in cui si collocava il racconto del Vangelo di Luca, quelle strutture sociali tendevano a tenere insieme il patrimonio: chiedere metà del patrimonio voleva dire una violazione fortissima delle regole, delle consuetudini, dei consumi. Eppure questo padre acconsente, acconsente a lasciare che l’eredità venga usata dal figlio, venga addirittura sperperata. Poi c’è questo ritorno, questa condizione, questa poterla usare l’eredità e la condizione di rincontro. E lì, la cosa che mi ha colpito è che lui dice: nel rincontro tra il figlio e il padre, nel racconto di san Luca, il padre prima ancora che il figlio dica qualsiasi cosa lo abbraccia. Il figlio aveva pensato a una strategia, aveva detto: ora gli dirò “mi propongo come lavoratore, anche gli ultimi salariati tuoi sono pagati meglio di come sono messo io adesso”, quindi, prova a riportare su un piano simmetrico la cosa, contrattuale e invece lì emerge la grande asimmetria del racconto di san Luca in cui il padre è capace di questo gesto inaudito. Quindi una tradizione in cui il figlio è qualcosa di diverso dal padre, ma è come se lo ricomprendesse. Allora, a me sembra che noi ci troviamo, adesso questa analogia che usa Recalcati per spiegare il rapporto, mi pare che possa valere oggi. Che possa valere nel provare a spiegare quali sono le forme, le idee i modi di vivere la tradizione in cui noi siamo stati collocati: una tradizione da abbattere, da distruggere o una tradizione da riabbracciare e da essere continuamente riabbracciati. Te Fausto, come senti in prima battuta il tema: futuro della tradizione?
FAUSTO BERTINOTTI:
Grazie a te, e grazie a voi per questa attenzione che mi dedicate ancora una volta. Grazie davvero. Forse esagerata, perché vedrete già da questa risposta che stiamo un po’ nei guai, almeno io sto nei guai, provo a darvene conto. Mi terrei strettamente sulla cosa che adesso Andrea ci ha proposto: il mito e la parabola, perché secondo me sono abbastanza illuminanti della nostra condizione – Anzi, per dirla come io la penso – l’una, il mito è la nostra condizione attuale la nostra condizione di persone, di cittadini di questo mondo in cui sembra che il rapporto tra padre e figli possa passare solo per l’uccisione del padre, cioè per la soppressione della tradizione, avvolti come siamo in un mito di futuro che tuttavia, non facendo i conti con la tradizione, è abbagliante laddove invece risulta inquietante; perché è un futuro disumanizzato. In che senso questo futuro rompe con la tradizione? Nel senso che ci propone un mondo nel quale l’essere umano è totalmente soggiogato da quella cosa che chiamiamo innovazione, modernizzazione, cioè se volete così, dal mondo delle macchine e delle merci. Per questo non abbiamo bisogno del passato, per questo dobbiamo uccidere il padre. Dobbiamo uccidere il padre perché non possiamo essere sorvegliati dalla sua memoria, nella politica questo è clamorosamente evidente, dobbiamo andare verso un futuro in cui diventeremo dei naufraghi, ma dobbiamo necessariamente andarci perché siamo portati dagli eventi e noi ce la facciamo piacere, in qualche modo ci adattiamo e per poterci adattare, dobbiamo disfarci della tradizione che è proprio ingombrante. Per questo noi viviamo avvolti nel mito di Edipo. All’opposto c’è la parabola che appunto comunemente chiamiamo del figliol prodigo, che è quello che non c’è. È quello che non c’è e di cui avremmo bisogno. È l’evento, è il mondo possibile, ma non concretamente davanti a noi. Nella mia tradizione si potrebbe chiamare il sogno, nella tradizione nostra, nostra, di tutti: è la speranza. La speranza però non come inerte, dolciastra compensazione di un reale che non ci piace, ma la speranza di Bloch, la speranza come investimento di futuro, la speranza dell’altro mondo possibile. Ed è appunto questa straordinaria condizione di libertà, in cui il padre, prima ancora di, sono debitore di questa intuizione a don Juliàn Carròn, prima ancora di abbracciare il figlio, lo lascia andare, lo lascia andare pur sapendo che compirà degli errori, lo lascia andare su una strada che pensa sia una strada sbagliata, confidando, che la libertà dell’esperienza, lo renderà capace di avvedersi dei passi compiuti, ed è perciò che lo abbraccia, senza neppure aver bisogno di sentire cosa dirà, perché è sicuro della missione che si è compiuta. Questo mondo, auspicabile noi non ce l’abbiamo. Che cosa però abbiamo? Abbiamo una storia del noi che è quella che stiamo malamente abbattendo. Ci torneremo nel corso di questa conversazione, ma è quella che è stata chiamata la perdita dell’evidenza. Che cosa è stato il “noi” della mia tradizione? Il “noi” della mia tradizione è stata una cosa storicamente precisa, che si chiama movimento operaio. È un noi che ha consentito di non battere la strada edipica, è il mondo che ha consentito che i padri non venissero sentiti come avversari o realtà ingombranti da abbattere. Fin tanto che questa storia è stata in campo con la sua speranza, con il suo sogno, con l’idea cioè di potere cambiare il mondo e renderlo migliore, la ricerca dell’altro come necessità tua e non come limite, la possibilità di costruire una società liberata, i padri anche quando segnati dai drammi e dalle tragedie della storia, ti appartenevano. Perché la continuità con la loro storia, rappresentava il tuo compito, la tua missione, il “noi”, quel “noi” era la possibilità di sottrarsi alla dimensione edipica, purtroppo incapace di avvicinarci alla parabola del figliol prodigo, perché era un noi tanto forte, da poter chiedere il sacrificio della libertà. Della libertà della persona. Era un noi un noi che chiedeva persino il sacrificio della persona per poter inverare quel mondo migliore. Quindi incorporava una contraddizione, ma quella storia finisce non con questa consapevolezza, ma con la vittoria del complesso di Edipo; cioè finisce con l’idea che bisogna disfarsi della tradizione, non fare i conti. Guardate è così vera questa cosa che con il ‘17, con la rivoluzione d’ottobre, con la storia del comunismo, non si fa i conti, anche drammatici, con una storia terribile, insieme ad essere grande, no, semplicemente viene dimenticata. Sarà significativo che la mostra sul ’17 la fa il Meeting di Comunione e Liberazione e nessuna forza della sinistra politica in Europa! Ci sarà una ragione! La ragione è che appunto in questa vostra storia la tradizione è presente, è presente e viva questa tradizione. Dall’altra parte ce se ne è disfatti. E così se però non si è guadagnata l’innocenza, si è diventati colpevoli di una dannatio memoria che insieme alla giusta necessità di fare i conti criticamente, costituisce semplicemente il passaggio all’altra sponda. In altri tempi si è trattato del tradimento dei chierici. Qui non è solo il tradimento dei chierici è il fatto che si è perso il noi, cioè in questa ansia di uscire dalla storia e dalla tradizione, si è appunto caduti nella trappola di Edipo. Bisogna uccidere il padre per andare verso il futuro. Soltanto che così deprivato della tradizione, questo futuro incombe su di te, non ti vede protagonista. Tu, che in questo futuro sei soltanto un suddito ed è perciò che hai bisogno di uccidere il padre. Spero, speriamo che ci aiuti la parabola del figliol prodigo a ritrovare una strada in cui i conti, anche drammatici, con la tradizione, consentano di pensare di innovare sulla storia e non invece sulla cancellazione della storia e delle tante esperienze personali che l’hanno costituita anche drammaticamente. Grazie.
ANDREA SIMONCINI:
Proprio su questo tema del “noi”, che adesso hai evocato, Davide, avevi una questione, mi pare, proprio su questo tema.
DAVIDE:
Buongiorno presidente, si sulla scia di quello che ha appena detto e anche in seguito a quello che ha detto durante alcuni incontri mi interessava approfondire questo tema che ha tirato fuori in questo momento. Lei diceva, durante uno dei suoi incontri: “questo io non sta in piedi senza un contestuale noi. Occorre la riscoperta della persona e la costruzione della comunità, solo insieme può esserci alla risposta alla desertificazione a cui stiamo assistendo. Mi sembra che, in questo momento storico siamo davanti a due eccessi: da un lato un “io” esuberante che sfocia nell’individualismo; documentato da un associazionismo raro e fragile, anche tra noi studenti universitari; dall’altro lato un noi che soffoca la libertà dell’io, come l’esempio che faceva durante l’incontro della comune di Parigi, in cui gli stessi partigiani scomparivano all’interno del nuovo cosiddetto “stato”, per questo, volevo chiederle: che tipo di noi occorre affinché l’io non venga calpestato, ma anzi che questo io sia storicamente incidente? E anche un’altra domanda, che tipo di noi ci consegna la sua tradizione?
FAUSTO BERTINOTTI:
Grazie. Il noi che ci consegna la mia tradizione ne ho accennato un po’ adesso, è un noi insieme forte ed esaltante e anche opprimente. Adesso per dirla molto schematicamente: il noi che la mia tradizione ha affermato concretamente, non quella che eppure si è affacciata come possibilità concreta, come sogno come speranza, ma anche come parziale realizzazione, quello diciamo che si è chiamato il comunismo reale, il socialismo reale o i partiti della sinistra, il movimento operaio, che in qualche modo sono stati, seppure diversamente, simili, è un “noi” che sostanzialmente riduce la persona a una componente plasmata da questo “noi”, ed è in realtà il non riconoscimento della persona e da qui nasce la limitazione della libertà. La limitazione della libertà nasce dall’idea che c’è una causa in nome della quale tu puoi e devi alienare le tue esigenze, le tue istanze, le tue speranze e i tuoi sogni. Questa cosa la si vede nel ’17 subito, la causa è l’idea che mette in moto una forza per liberale l’umanità dalle forme di alienazione di sfruttamento, di povertà e di miseria che ha conosciuto. Questa causa viene in qualche modo dopo una stagione molto promettente in cui il popolo irrompe sulla scena e allora le persone sono vive, vitali, la causa prende il sopravvento, diventa una specie di Molok e chiede la fedeltà invece che la partecipazione. Guardi, questa tradizione, ha dato luogo poi a delle esperienze umane straordinarie, in cui le persone sono tornate a essere vive e hanno percorso le loro strade dentro, ma la tendenza era quella, allora prendiamolo come rischio: la comunione oggi. Il mondo è, secondo me, spesso attraversato, specie l’occidente, dal primato della condizione che lei richiamava dell’individuo e la desertificazione del noi. Insomma questo individuo che occupa la scena e diventa in qualche modo insieme il carnefice e la vittima della società in cui viviamo, vittima, perché questo presunto individualismo anche lui cancella la persona e fa dell’individuo semplicemente l’immagine del successo, della riuscita, della dimenticanza dell’altro e progressivamente questo individuo non si avvede che arriverà un individuo che lo fagociterà questo individuo è la tecnica, la scienza, la sua assolutizzazione, cioè qualcosa che gli prenderà la mano e lo porterà per strada. Lui ha pensato attraverso l’individualizzazione di esaltare la persona, in realtà è venuto in corso a quello che viene chiamato l’ordo liberismo e il liberismo che nasconde a sua volta una cosa ancora più inquietante: appunto un’assolutizzazione dell’automa, della macchina, della tecnologia, della scienza di cui questo individuo è semplicemente un elemento di ingranaggio che deprivato della coscienza e del noi diventa semplicemente funzionale a questo mondo catastrofico che ci si presenta davanti. All’opposto che cosa produce come reazione? Produce (come reazione tendenziale naturalmente) il fondamentalismo. Cioè produce come difesa dal mondo delle macchine, dal mondo dell’alienazione del consumo un’idea fanatica in cui la violenza distruttiva, un nuovo nichilismo che si presenta davanti come unica possibilità, ma scusate, il terrorismo non è figlio di questa concezione? Non è figlio cioè di un’idea della comunità che a sua volta diventa così totalizzante da chiedere a te il sacrificio persino della vita per poter contrastare questo nemico esterno, insomma il proprio amico/nemico si ripresenta sulla scena perché scompare il “noi”, il “noi” non sta né nella comunità, né nell’individuo, sta fuori. Il “noi” è un processo di costruzione del popolo, se non c’è un processo di costruzione del popolo, il popolo si disintegra e da una parte ci sono gli individui soli alla balia del mercato della tecnologia e della scienza e dall’altra c’è una comunità chiusa, violentemente chiusa che individua nella mondanità il nemico e lo combatte con tutte le armi a partire a da quelle della violenza: secondo me non c’è altra strada per combattere l’uno e l’altro che la costruzione del popolo. Che la costruzione di popolo.
ANDREA SIMONCINI:
Grazie Davide. Fausto, mi permetto di fare un affondo su questo passaggio perché mi sembra che abbia toccato un punto, uno snodo molto interessante e molto delicato. Questo rapporto “io”-“noi”, questa costruzione del popolo, cosa costruisce un popolo? Cosa costruisce una comunità che non sia una sostituzione dell’”io”, un’abolizione dell’uomo –per citare Lewis–, ma e quindi cosa costruisce un soggetto capace di una relazione con il passato che ha posto le condizione perché arrivasse quella comunità? Allora, nella nostra tradizione educativa, don Giussani ha sempre identificato in un fenomeno questa capacità di relazione tra il passato a cui sei consegnato e l’individuo: si chiama educazione. Il tema dell’educazione è il tema di ciò che costruisce un popolo come coscienza di popolo. Mi sono andato a riprendere una cosa che dice Giussani che riprende quali sono i punti che costituiscono un processo di educazione, ti volevo chiedere come tu senti, lui dice: “ per me quello che possiamo dire sull’educazione –lo dice in un testo che si chiama “il rischio educativo” a cui lui ha consegnato di più tutta la sua impostazione pedagogica– lui dice: a me interessano soltanto questi tre punti. Il primo, per educare occorre proporre adeguatamente il passato, senza questa proposta del passato della conoscenza del passato della tradizione il giovane cresce cervellotico o scettico, se niente propone di privilegiare un’ipotesi di lavoro il giovane se la inventa in modo cervellotico, oppure diventa scettico, molto più comodamente perché non fa neanche la fatica di essere coerente all’ipotesi che si è presa. La sfida, ho scritto, è la tradizione consapevolmente abbracciata che offre una totalità di sguardo sulla realtà. Secondo punto: il passato può essere proposto ai giovani solo se è presente dentro un vissuto presente che ne sottolinei la corrispondenza con le esigenze ultime del cuore, vale a dire dentro un vissuto presente che ne dia le ragioni di sé, solo questo vissuto può proporre ed ha il diritto ed il dovere di proporre la tradizione, il passato. Terzo: ma la vera educazione deve essere un’educazione alla critica, fino a 10 anni o anche prima, il bambino può anche ripetere: “lo ha detto la signora maestra o lo ha detto la mamma” perché? Perché per natura, chi ama il bambino può mettere nel suo sacco sulle spalle – questa è un’immagine di Giussani molto nota– quello che di meglio ha vissuto nella vita, quello che di meglio ha scelto nella vita in questo sacco dietro le spalle, ma a un certo punto la natura da al bambino, a chi era bambino l’istinto di prendere il sacco, di metterselo davanti agli occhi, in greco si dice “proballo” da cui viene problema, deve dunque diventare problema quello che ci hanno detto, quindi proporre adeguatamente il passato, ma il passato può essere proposto solo se è vissuto in un processo presente e deve essere oggetto di critica, cioè di valutazione” questo può essere il modo con cui l’ “io” e il “noi” si generano?
FAUSTO BERTINOTTI:
Si, secondo me a una condizione: per cui io proverei, se posso, a forzare il pensiero di Don Giussani, in una direzione un po’ estremistica –ma tanto voi ormai avete una complicità in me, mi perdonate– ed è l’assolutizzazione del secondo elemento della triade, cioè il primo e il terzo non si possono fare senza il secondo, tu puoi metterci tutta la buona volontà e l’intelligenza che vuoi, la cattedra che vuoi, l’università che vuoi, ma tu non sarai mai in grado di illustrare la tradizione secondo il canone che don Giussani descrive, non puoi farlo senza il secondo punto e non puoi introdurre l’elemento critico terzo senza il secondo. Il secondo che cos’è? Il secondo parla di noi. Il secondo responsabilizza ognuno di noi e tutti insieme. Il secondo punto ti propone il tema “che fare”, tu oggi nel mondo in cui a Roma città eterna sgombrano piazza di indipendenza dai migranti (che stanno da 5/6 anni in Italia) con gli idranti e con i manganelli, mentre siamo contenti che dall’altra parte del mediterraneo i flussi si sono fermati indifferenti ai fatti che quelli crepino nei Lager. Che cosa facciamo noi in questo mondo? È la domanda capitale, cioè è quello che oggi è richiesto per rendere viva la tradizione e per potere incorporare la critica del presente. C’è un autore, che alcuni autori sanno a me molto caro, che è Walter Bejamin che affronta la stessa questione, identica di quella che propone don Giussani e usa un termine che vi propongo, perché fa i conti con il noi e con la tradizione in un modo molto illuminate, il termine è “rammemorazione” che cosa è la rammemorazione per Benjamin? La rammemorazione è far vivere nel presente la consegna dei vinti giusti, cioè appunto della tradizione, di coloro che nella storia dell’umanità hanno provato a costruire il “noi” e a costruire un noi libero, liberato, capace di grandi relazioni, personali e umane, capace di dare senso e significato alla vita dell’uomo. La rammemorazione, è quello che tu provi a fare qui recuperando siccome loro sono stati giusti, ma vinti che cosa? La loro storia concreta? Ma no, la loro ambizione, quel desiderio, quella sensibilità, quel sogno, quella speranza che gli ha fatti essere protagonisti del loro tempo, dalla rivolta degli schiavi, ai Ciompi alla comune di Parigi, perché no, alla costruzione delle forme di religiosità che hanno dato a questa speranza una concretezza di vita. La rammemorazione è provare a fare ancora viva l’ambizione, la mia tradizione quella parola si chiama uguaglianza. Fare vivere nel nostro mondo l’uguaglianza è l’unica possibilità concreta di poter parlare con proprietà della tradizione altrimenti quello diventa o un racconto o un imbroglio. E così la capacità critica, ma guardatela concretamente, nell’Europa che stiamo vivendo, ma perché è molto poco presente un pensiero, una pratica critica, ma perché in realtà essendoci separati dalla tradizione e non facendo vivere quell’ambizione nel presente la capacità critica non esiste più; è soltanto datativo ciò che ti determina il nuovo corso. Ancora Walter Benjamin usava un’immagine, con cui concludo, l’immagine è quella del balzo di tigre; dice: “tu che devi affrontare il grande cimento del futuro, tu come guardi al futuro? Per tentare di afferrarlo, questo futuro sfuggente, che ti sfugge tra le dita, quanti giovani appunto ci propongono questo tema così importante, così difficile, come acchiappi il futuro, come diventi protagonista del futuro, diceva, devi fare il balzo di tigre. La tigre per affrontare la preda deve riposizionarsi all’indietro, per dare l’energia e la forza per balzare in avanti; è quello che tu devi fare concretamente. Il secondo punto di don Giussani, cioè far vivere la tradizione nel presente, è la consegna che viene a tutti noi in questo oggi così difficile.
ANDREA SIMONCINI:
Grazie. Vieni, vieni Edoardo. E mi viene in mente che rammemorazione di Benjamin ha la radice di memoria che nella nostra tradizione esprime qualcosa di molto vicino a questa cosa che tu ci hai suggerito. Edoardo!
EDOARDO:
Chiaramente lei ha già in parte un po’ risposto alla mia domanda. Rivivere la tradizione serve anche a costituire un’identità, questo rammemorare e oggi nella sua intervista, mi colpiva che lei sottolineasse il fatto che mancasse nella Sinistra odierna una griglia critica, in quella che lei chiama per convenzione la Sinistra odierna, una griglia critica. E questa è una cosa che noto anch’io, facendo la rappresentanza universitaria, conosco tante persone che si rifanno a quella tradizione lì. Però è come se ci fossero tanti punti che sono ritenuti dei passi di un cammino verso una società più giusta, ma che poi almeno io non riesco a ricondurre ad unità di fondo e qui si pone il problema dell’identità. Cos’è questa tradizione oggi? Visto che lei sostiene da un po’ di tempo la necessità di un dialogo tra la sua tradizione e le forze più vive della società, in particolare con i cattolici, con noi, c’è un’eredità da riguadagnare, se la sua tradizione vuole presentarsi con un’identità chiara al dialogo oppure l’identità è da ricostruire in itinere, nel corso del dialogo stesso? Grazie.
FAUSTO BERTINOTTI:
Grazie, Edoardo. Io penso che bisognerebbe provare a coniugare i due termini che lei ci ha proposto, cioè ricostruire avendo un punto di partenza, un punto di leva e costruire nel dialogo camminando insieme. Io penso cioè che le due cose siano necessarie, non ce la fai a camminare insieme senza una metà. La individuazione, la ricerca della meta che è, come mi insegnate il problema della fede, cioè il problema di credere almeno di sapere dove andare, verso dove andare, questo grandissimo tema che il movimento operaio aveva creduto di risolvere, la meta è il socialismo, la fuoriuscita della società capitalistica, l’ordine nuovo, una nuova società, la meta. E su questa meta il camminare insieme, con altri, anche se questa storia è stata molto controversa e spesso smentita dalle pratiche, però camminare con altri. Ora, il punto che le propongo e che vi propongo è che questo compito oggi è necessario per salvare l’umanità da un rischio di catastrofe che è presente nella nostra storia oggi, io credo. Poi questa catastrofe può prendere la forma tragica e drammatica, violenta della guerra, della distruzione fisica di umanità o può prendere la forma più nascosta, meno tragica, di una progressiva sussunzione dell’uomo dentro le cose, di una cosificazione dell’umanità. Una perdita cioè di coscienza dell’io e del noi, in una sostanziale riduzione dell’uomo a cosa, in una competizione che diventa una competizione delle merci. Questi due scenari secondo me sono oggi presenti, gli scenari della guerra, quello che il Pontefice chiama la terza guerra mondiale a pezzi e si vede bene quanto la sua analisi fosse totalmente fondata malgrado la sordità impressionante della politica, degli stati e dei governi, e dall’altra questa meno visibile – ma tu te ne stai occupando – penetrazione dentro di noi delle tecnologie, delle scienze incorporate, quasi che noi diventiamo una protesi della macchina e non una macchina una protesi nostra. Un personaggio affascinante di qualche tempo fa, il subcomandante Marcos, diceva parlando dei guerriglieri “attenzione, non portate per troppo tempo un’arma con voi, perché nel lungo periodo voi diventerete una protesi dell’arma e non l’arma la proiezione del vostro corpo”. Quello che vale per l’arma vale per un’arma più subdola che è la tecnologia, che è la macchina. Non solo l’arma, la macchina se la tieni troppo addosso a partire dai nostri cellulari ti farà diventare una protesi tua, una protesi priva di coscienza critica diciamo. Quindi secondo me noi siamo a rischio, l’umanità è a rischio. Allora la costruzione dell’identità ha a che fare con entrambi gli elementi che ci propone. E se non fosse un termine troppo ambiguo direi da una parte con la costruzione dei valori, meglio dei principi e dall’altra con il camminare insieme lungo un’esperienza di fare insieme, di fare comunità, di fare relazioni, di fare umanità, cioè io penso molto a che la costruzione del popolo è oggi ossessivamente il nostro compito fondamentale. La costruzione di popolo, la nostra salvezza non starà nell’istituzione. Siano le istituzioni dello stato, siano le istituzioni delle parti politiche , sociali…no! La nostra salvezza sta nella costruzione di popolo cioè di una coniugazione di gente, di io e noi hic et nunc, qui a costruire associazione comune, realtà è questa la costruzione della nostra umanità. Nella mia tradizione questa cosa si chiama eguaglianza. Quindi se tu mi chiedi se lei mi chiede qual è il rimettersi in cammino secondo il recupero della tradizione la mia risposta rispetto alla mia storia è ricominciare dall’eguaglianza. Da quella uguaglianza che del resto non appartiene solo alla mia tradizione, ma anche alla vostra, non ho bisogno di ricordare la famosa formula di san Paolo nella lettera ai Galati, né servo, né signore, né giudeo, né gentile, né uomo, né donna tutti uguali. In questo senso le nostre tradizioni che non casualmente hanno a che fare con la fede muovono da questo principio illuminante i destini dell’umanità. L’eguaglianza. Ma l’eguaglianza per essere costruita ha bisogno di un popolo ed è questo, io credo, che ciò che comporta la costruzione di una identità aperta, di una identità in favore di e non contro qualcuno. Noi nella mia eredità c’è anche una cosa da cui dobbiamo liberarci: che l’identità possa essere costruita contro qualcuno, contro un nemico. No! L’umanità la dobbiamo costruire nella umanità da costruire. Grazie.
ANDREA SIMONCINI:
Mi introduco sempre abusando perché poi mi tocchi su questi…uguaglianza, eguaglianza anzi. Nella storia cos’è che genera l’eguaglianza? Perché c’è una versione di questo cuore dell’esperienza del popolo che a un certo punto ha detto “perché ci sia l’eguaglianza occorre la legge, fuori dalla legge non c‘è l’eguaglianza cioè fuori dallo Stato non c’è l’eguaglianza, cioè fuori da quelle istituzioni che tu poco fa dicevi non fuori dal popolo e ti chiedo: che rapporto c’è tra la parola eguaglianza e la parola dignità? Cioè perché dici parola eguaglianza e lo capisco rispetto alla tradizione e cosa questo ti evoca perché cosa, se c’è una osservazione empirica che siamo tutti diversi ma questo valore fondante del nostro essere uguali su cosa lo appoggi? Perché c’è una traduzione di questo che dice senza la legge senza lo stato senza il potere siamo inevitabilmente nelle mani della natura che ci fa diversi o c’è ..quando tu dicevi, occorre qualcosa fuori da noi, allora a me lì mi è sobbalzavo e dicevo sarà l’idea di dignità ?
FAUSTO BERTINOTTI:
Mi verrebbe da dire che l’idea di eguaglianza essendo una promessa chiama in causa una moltitudine di relazioni e spesso anche i partigiani dell’eguaglianza hanno omesso queste relazioni. Cioè hanno pensato che fosse una istanza totalizzante. Così contraddicendo l’evidenza che siamo tutti diversi. E naturalmente questa cosa secondo me va capita storicamente, perché quando tu sei racchiuso negli ultimi ho detto ha proposito racchiuso, non vivi tra gli ultimi, ma sei racchiuso, sei costretto, sei impedito a uscirne e non c’è solo il mondo antico fatto di questo impedimento, basterebbe rileggere le pagine di don Milani su “lettere ad una professoressa” per rendersi conto di come tu puoi avere una chiusura degli ultimi, un impedimento pensate. Quindi questa condizione è stata una concausa del carattere totalizzante dato all’eguaglianza; siccome siamo, che poi riecheggia gli ultimi saranno i primi se diventeranno domani perché non subito?, e non ho bisogno di arrivare alla storia moderna, basta pensare agli anabattisti cioè a questa idea che ha fatto irruzione nella storia mille volte in forme religiose o in forme laiche o in forme politiche dell’immediatezza della realizzazione con ogni mezzo, anche quello violento, dell’eguaglianza. Soltanto che questa storia va capita ma non difesa e proiettata in avanti, perché questa concezione è ciò che impedisce all’eguaglianza di diventare esperienza di vita comune, ricerca di vita comune. L’ultima forma, è quasi una bestemmia per chi viene dal mio mondo politico, l’ultima forma di espressione di questo carattere totalizzante è stato il primato attribuito alla legge e allo stato, precisamente. C’è, l’ultima forma con cui l’eguaglianza ha preso la consistenza di potersi realizzare con ogni mezzo è stata la costruzione dello stato. Allora siccome non riusciamo nelle relazioni sociali, nei rapporti umani, nella costruzioni di comunità, a farci uguali, chiamiamo in causa una entità superiore, lo stato, la legge, con la quale la realizziamo dall’alto, questa esperienza, ma i miei padri non avevano visto la contraddizione insanabile tra le due cose: l’eguaglianza e la realizzazione dall’alto attraverso lo stato. Perchè questo elemento intanto produce una diseguaglianza, tra coloro che sono in qualche modo comandati e chi comanda, e infatti nella società così dette socialismo reale la disuguaglianza si è prodotta sul terreno del potere, l’ha in qualche modo eliminata sul terreno economico, sociale, fortemente ridotta e l’ha assolutizzata sul terreno del potere tra chi poteva comandare e chi soltanto poteva obbedire. Dunque, si è imparato che l’ultimo tentativo di costruire l’eguaglianza con il forcipe non funziona. L’eguaglianza è una meta ma è anche una pratica, per questo io credo che nella storia a cui appartengo la lezione più importante non è, non sono le elezioni, il voto, il governo, ma sono le case del popolo, le leghe sindacali, le associazioni, le cooperativi, insomma il costruire relazione insieme. Ciò che resa di quella grande storia è essenzialmente questo, è la costruzione di comunità. Tante volte mi viene chiesto: ma che cosa proprio ti interessa di comunione e liberazione? Voi me lo consentirete. Quello che mi interessa di più è vedere la formazione di un popolo. Mi interessa più della vostra capacità di attrazione, delle tante cose interessanti e intelligenti da cui imparo, ma quello che mi pare più promettente è questo farsi popolo e, se non vi offendete, questo a me ricorda la mia storia migliore, mi ricorda le feste dell’unità, gli scioperi, le organizzazioni comunitarie, grazie
ANDREA SIMONCINI:
Andrea
ANDREA:
Buongiorno!
FAUSTO BERTINOTTI:
Buongiorno.
ANDREA:
La domanda che volevo farle un po’ ha già anticipato la risposta secondo me. Comunque pensando al titolo del meeting di quest’anno mi veniva da chiedermi: io che eredità ho ricevuto da mio padre? E mi veniva in mente che le volte che ci troviamo a discutere con mio padre che ha fatto l’università negli anni settanta, nel periodo di grandi ideai politici per cui spendersi mi accorgo di come quello di cui lui mi parla è un mondo ormai lontanissimo da quello in cui sono io e non so neanche il modo diverso di vivere rispetto a come viviamo noi ragazzi universitari e ingenerale noi ragazzi. Mi sembra che è come se quello che la vostra generazione quei modi diversi però quella vostra generazione ha vissuto ha costruito, non si fosse tramandato alla mia generazione. Allora le volevo chiedere appunto, che cos’è che rimane in lei di quello che lei ha appunto ereditato e se rimane qualcosa. Come che si tramanda? Se apparentemente appartiene a un mondo che ormai non esiste più?
FAUSTO BERTINOTTI:
Grazie. Domanda molto impegnativa, Intanto perché l’eredità dei padri quando il tempo lo consente è una eredità aperta che tu puoi assumere o non assumere. Torniamo alla parabola del figliuol prodigo; il padre ha una eredità da tramandare, ma qual è la sua eredità? È la libertà! Cioè lui non pretende di dire al figlio: fai come facevo io. Fai quello che vorrei io che tu facessi, no! Fai la tua strada gli dice. Quindi c’è una eredità promettente dei padri che è suscitare la tua curiosità, la tua vita e il tuo percorso, ma perché questo accade ci devono essere i padri, scusate la banalità. Il punto è che la tua generazione secondo me è senza padri, spero di non offendere nessuno in sala. È senza padri perché i padri si sono eclissati con le loro storie. Sto parlando naturalmente delle storie civili, non delle storie personali, tuo padre sarà pieno di grandi insegnamenti da padre in figlio, ma io sto parlando del rapporto tra le generazioni. La generazione dei padri è scomparsa. Ed è scomparsa perché parlo dalla mia parte, perché il mondo a cui abbiamo appartenuto, lo dico con grande dolore, è finito. Noi io sono figlio del novecento e quel novecento è stato sepolto nella storia grande e terribile, ma segnato da una sconfitta storica e contemporaneamente si è prodotta una rivoluzione che era fuori da questa storia, la rivoluzione del capitalismo moderno. Del capitalismo finanziario globale, di quei cinque sette persone che oggi hanno ricchezze equivalenti a quelle di interi popoli. Quindi, noi siamo l’indomani per quello che mi riguarda di una sconfitta storica e drammatica. Siamo come i maya, come facciamo a trasmettere qualche cosa? È avvenuta una rottura per cui la storia del novecento è davvero come quella degli egizi e dei maya è una storia densa di storie grandissime, ma interessa gli archeologi, non la vita quotidiana. Allora i padri se vogliono provare ad esserlo devono cominciare a camminare con voi, e provarci a camminare su una nuova storia perché quella eredità del passato, vi ricordate, può farsi solo con il balzo di tigre. Cioè può farsi solo se vengo con lei e imparo da lei, non pretendo di insegnargli qualcosa, imparo strada facendo, l’unica cosa che ho da dirle è attenzioni che quei maya quegli egizi quel movimento operaio una cosa giusta in testa ce l’avevano è che le donne e gli uomini tutti devono poter essere nelle condizioni di esprimere la loro dignità di persona e perciò bisogna conquistare l’eguaglianza.
ANDREA SIMONCINI:
Chiudiamo con Bernardo.
BERNARDO:
Buongiorno Presidente.
FAUSTO BERTINOTTI:
Buongiorno.
BERNARDO:
Osservando la dialettica politica del nostro paese…
FAUSTO BERTINOTTI:
Scusi, allora io posso uscire.
BERNARDO:
A volte sembra che per avere un’identità la condizione necessaria e sufficiente sia avere alcune idee forte e precise e non scostarsene mai, mentre pochi sembrano invece veramente impegnati con la complessità delle vicende che attraversiamo. Avendo potuto ascoltarla in altre occasioni in questi anni e avendola vista anche ora ho potuto vedere quanto per lei sia importante, al contrario, rimettersi sempre in discussione senza il bisogno di una fissità di posizioni. Allora le chiedo: visto che le proprie posizioni e i propri giudizi possono cambiare, qual è per lei il fattore più importante per la sua crescita umana, professionale e politica? Che cosa in questi anni l’ha caratterizzata e non è mai venuto meno. E ultima cosa, che cosa ogni volta ha reso possibile cercare ancora?
FAUSTO BERTINOTTI:
Grazie, grazie molte. Intanto vorrei dirle che secondo me avere idee forti e sottoporle al dubbio non è una contraddizione. Cioè avere idee forti e riflettere criticamente sulle stesse, anche per cambiarle, è una possibilità concreta, difficile, ma possibilità concreta. Se invece le due cose si scindono secondo me è un disastro. Avere idee forti e immutabili o non avere idee forti è veramente un disastro e oggi mi pare che il pericolo maggiore venga dalle secondi. In questa parte del mondo. Dalle prime in altre parti del mondo, cioè idee forti, fondamentalismo, da questa parte del mondo, non avere idee o come si dice avere pensiero debole. Ora secondo me il pensiero debole produce persone deboli entità deboli e popoli disarmati quindi la condizione è quella di avere idee forti e insieme provare a metterle in discussione sulla base dell’esperienza. Lei mi chiede ma che cosa, la ringrazio molto e posto che sia vero, che cosa le ha permesso di fare questa esperienza? Guardi a costo di essere monotono, la consapevolezza di appartenere a questo popolo in cammino assolutamente se le mi dice: da cosa hai sempre cominciato dopo molte sconfitte sempre un po’ scherzando posso dire che di poche cose io sono esperto ma in sconfitte sono espertissimo, che cosa ti ha permesso di ricominciare? Guardi, davvero, lo sguardo dei tuoi di quelli a cui tu senti di appartenere, mi creda non c’è nessuna demagogia. Lo sguardo di quella donna di quell’uomo, di quella lavoratrice, di quel lavoratore, di quel pensionato che dice “dai, riproviamoci” quando ero all’inizio del sindacato in un congresso a Bologna, era il mio primo congresso della CGL ero poco più che un ragazzo, se ne andava dalla CGL una figura mitica, Fernando Santi, un uomo di queste terre. Diceva di sé: sono un vecchio riformista padano, un uomo di grandi principi, straordinario. E se ne andò concludendo il suo discorso disse allora io vi saluto, esco di scena, ma vorrei dirvi che sono un uomo di grandi ambizioni e quindi la mia ambizione è che domani, dopodomani, quando io non sarò più qui, un bracciante pugliese o un operaio di Milano posa dire: Fernando Santi, quello era uno dei nostri. Ecco, quello era uno dei nostri è l’ambizione che permette di ricominciare.
ANDREA SIMONCINI:
Siamo arrivati un po’ al punto direi non alla conclusione perché a me pare che questo dialogo non solo adesso, materialmente….
FAUSTO BERTINOTTI:
Incombe.
ANDREA SIMONCINI:
Incombe e non solo adesso potrebbe proseguire per tanto tempo, ma forse è bello a un certo punto sospenderlo…
FAUSTO BERTINOTTI:
Certo, assolutamente.
ANDREA SIMONCINI:
Perché cosi diventa l’appuntamento e poi perché ho la fortuna di insomma, abbiamo in tanti la fortuna di praticarlo questo dialogo
FAUSTO BERTINOTTI:
Molto reciproca.
ANDREA SIMONCINI:
Oggi abbiamo affrontato tanti temi e mi pare che ci siamo aiutati. Almeno in tante tue osservazioni ci hanno, secondo me, aiutato a capire questo grande mistero dell’utilità di un pezzo di strada fatto assieme, in cui pur rimanendo, o per ora almeno essendo diversi, ma l’uno capisce più l’altro, conosce più l’altro. Devo dire che tante delle cose che tu hai detto oggi mi hanno aiutato moltissimo a capire di più la mia di tradizione, così come parlandone ho capito di più quella da cui vieni.
FAUSTO BERTINOTTI:
Assolutamente.
ANDREA SIMONCINI:
Allora volevo soltanto chiederti questo come spunto finale. Perché a un certo punto hai toccato un tema, citando sicuramente in maniera inconsapevole, il tema della archeologia, non sapendo che abbiamo in prima fila (almeno penso che tu non lo sapessi, perché sennò saresti stato temerario nell’affermazione) due grandissimi archeologi di fama mondiale.
FAUSTO BERTINOTTI:
Allora chiedo scusa per l’improvvida inclusione!
ANDREA SIMONCINI:
No, ma non è stata improvvida, non lo è stata. Giorgio e Marilyn Buccellati, che sono due carissimi amici del Meeting. A un certo punto tu hai accennato a questo passaggio – che tra l’altro è carissimo al pensiero e al lavoro di Giorgio e Marilyn –, cioè che (questo noi non ci pensiamo, ma certe volte è come dire se noi avessimo un po’ rimosso questo dato, che è un dato della storia) le tradizioni possono interrompersi. Ci sono tradizioni interrotte? Tu lì citavi i Maya, appunto: potremmo pensare alla grande epopea della civiltà mesopotamica. Ci sono tradizioni che a un certo punto s’interrompono nella storia. E questo è un dato, noi, vivendo all’interno, è come se questo tema della sfida della storia e della possibilità che s’interrompa anche la nostra… Noi abbiamo una promessa, non prevalebunt, però sai siamo tutti lì che combattiamo, non è che… sul day by day siamo tutti sulla stessa frontiera. Ecco, cos’è? A me viene sempre in mente un verso di Montale: solo un imprevisto ci potrà salvare (NON è UNA CIT LETTERALE). C’è un punto che in qualche maniera, come dire anche se non detto, ha attraversato un po’ tutta la nostra discussione. Anche il fatto di incontrarsi, se ci rifletti: tutto nasce a Caorle da una presentazione di un libro di don Giussani, dove ti hanno invitato – i miei amici non sapevano e dicono «hanno invitato Bertinotti a presentare don Giussani… chi mandiamo? Simoncini», perché, capito, era una cosa un po’ di frontiera. E io quando ti ho visto la prima volta e quando è cominciato un po’ poi questo dialogo – che, ripeto, è andato avanti da allora in tante occasioni e poi con tanti altri interlocutori ben più autorevoli di me – io non pensavo che potesse ripartire un dialogo, che adesso vedo anche la stampa e tutti stanno un po’, tutti osservano con grande curiosità. Non era previsto in qualche modo. Questo rapporto tra l’avvenimento imprevisto, ciò che accade nella storia è la speranza, quello che tu hai detto è la speranza avere un rapporto come il figliol prodigo, il figlio ritrovato, col padre. Ecco, cos’è? Che rapporto c’è tra questa ripartenza e su cosa possiamo poggiare? Montale dice: «solo un imprevisto». Questa ripartenza è l’avvenimento, è l’evento – come spesso tu hai detto.
FAUSTO BERTINOTTI:
Io credo che si capisce perché Montale dica così. Anch’io, come sai… poi a proposito del nostro rapporto, figurati quanto era imprevisto per me. Non mi aiutava neppure la Provvidenza, quindi figurati. E anzi nei momenti in cui sono più inquieto, dico come Montale, ci può salvare solo l’imprevisto. In realtà, non ci credo. Perché credo che sia necessario un elemento insieme all’imprevisto, che è la preparazione. Voi poi in questo siete maestri. C’è un’attesa vigile dell’imprevisto – c’è un’attesa inerte e c’è un’attesa vigile. C’è un’attesa dell’imprevisto che non lo realizza, ma vi concorre. Noi non sappiamo come vi concorre – se potessi rubarvi altro tempo vi farei dei casi precisi della storia che conosco, ma no lasciamo stare –. Allora, una cosa più facile per tutti noi: Isaia, la domanda alla sentinella, «Sentinella, a che punto è della notte?» (Is 21,11). La domanda è capitale e la risposta che noi diamo (che è scritta appunto nello sviluppo di Isaia) è secondo me proprio la preparazione. «Sentinella, a che punto è la notte?». La risposta che noi diamo ha molto a che fare con l’attesa dell’imprevisto. Intanto, se rispondiamo che è notte, cioè che è scomparsa l’evidenza (citazione ovvia), cosa vuol dire che è scomparsa l’evidenza? Don Julián lo dice, secondo me benissimo, in questa intervista, che a me è piaciuta così tanto, al Mundo (quella di maggio, mi pare; maggio-giugno).
ANDREA SIMONCINI:
Al Jotdown.
FAUSTO BERTINOTTI:
Quando gli dicono «Ma cosa vuol dire che è scomparsa l’evidenza?», lui dice – anche mondanamente, non solo spiritualmente – l’evidenza è stata per un lungo periodo la giustizia sociale, la dignità della persona, la libertà, insieme alle questioni riguardanti la fede. Questa evidenza oggi.. noi siamo deprivati di questa evidenza. Dunque, la sentinella ad «a che punto è della notte?» non risponde «vicino all’alba», ma dice «siamo nella notte». Ora, nella notte cosa è richiesto? La perdita dell’evidenza ha a che fare con un’altra questione molto affrontata da voi, quella famosa della domanda di Thomas Eliot: «È la Chiesa che ha abbandonato l’umanità, o è l’umanità che ha abbandonato la Chiesa?». Resa nel secolo questa domanda: «è la politica che ha abbandonato il popolo, o è il popolo che ha abbandonato la politica?». Si potrebbe dire – ne parlavamo prima con un amico – tutte e due le cose; secondo me, prevalentemente è la politica che ha abbandonato il popolo e il popolo si è disgregato. Allora, nella notte per realizzare un’attesa vigile e non de-responsabilizzarci, cosa dobbiamo fare? Io ho trovato una risposta straordinaria in un lungo scritto di Dossetti di riflessione sulla domanda alla sentinella: lui usa un termine che io non posso usare qui – come ho detto prima, questi amici che ci hanno fatto le domande (e che ringrazio tantissimo, perché domande intelligenti e davvero molto stimolanti, davvero grazie tante) l’ho detto a loro, non lo posso dire a voi perché sicuramente si presterebbe a un equivoco); lo dico, però, in una traduzione del pensiero di Dossetti, «dobbiamo tornare alle radici, anzi alla radice». Quel cercare ancora e tante cose è lo sguardo che ti aiuta, ma è cercare la radice dell’umano: noi dobbiamo re-indagare la radice dell’umano. Dobbiamo cioè riproporci il tema della fede, delle fedi, del senso della vita umana rispetto a una meta che ci diamo, una meta, un cammino da percorrere. Questa attesa vigile, tuttavia, non basta: occorre confidare nell’imprevisto. L’imprevisto è questa facoltà che esiste e resiste. Papa Francesco lo dice nella sua ultima enciclica, quando, proponendo un’analisi terribilmente critica del modello economico e sociale attuale e andando vicino (oddio, stavo dicendo delle cose terribili, che non posso dire del Papa), andando vicino a un’ipotesi di rischio catastrofico (adesso, non dico che il Papa sia nichilista, perché sennò gliene dicono già tante, ci aggiungiamo anche questa – guai), ma confida immediatamente, come arretrandosi, su ciò che è intrinsecamente dell’uomo, cioè la sua possibilità salvifica di costruzione di sé e del destino futuro. È questo l’imprevisto: l’imprevisto è ciò che irrompe sulla scena e che tu non potevi sapere prima. Se ti sei preparato, l’imprevisto può giocare a favore della libertà e della liberazione dell’umanità invece che tradursi nel suo possibile rovescio. Io credo questo, fortissimamente. Quindi, direi, contiamo sull’imprevisto e prepariamoci ad esso. Per chi ha l’ambizione a questa tarda età di dirsi ancora comunista, l’imprevisto è tutto ciò che ci può salvare. Grazie. Grazie a voi. Grazie davvero tante, grazie mille. Siete molto cari, mi siete molto cari. Grazie.
ANDREA SIMONCINI:
Questo applauso esprime, direi la … scusate, io volevo riprendere solo un aspetto che, secondo me, potrebbe un po’ sorprendere di questo rapporto tra l’imprevisto e l’attesa. Allora è proprio vero, noi siamo qui per questo imprevisto: chiunque dieci anni fa, ma anche cinque anni fa, si fosse messo lì a fare ipotesi di strane congiunzioni astrali non avrebbe immaginato questo. Però mi ha molto colpito questa idea dell’esser pronti, cioè del desiderio, della domanda, perché è questo il punto che sicuramente in questo tratto di strada assieme, che sta diventando un «processo» (per usare le parole di Papa Francesco), più interessato al tempo, alla durata che allo spazio, questo processo chiede un’attesa, chiede una preparazione. Allora qui vi faccio fare un passaggio che non so quanti coglieranno: l’imprevisto è il Meeting, l’imprevisto è che si possa ancora oggi realizzare una cosa così che ricorda le feste dell’Unità, ma che appunto prosegue inattesamente, e inattesamente anche perché ognuno di noi lo costruisce. Non so se state capendo dove… E no, però, è così: l’attesa attiva dell’imprevisto è che il Meeting si regge, continua e dà queste possibilità di incontro, perché tutti noi lo costruiamo. E noi non abbiamo più quei meccanismi politici, para-politici: insomma, il Meeting, se esiste, è perché ognuno di noi prende sul serio l’ipotesi di contribuire. Voi vedete disseminati in giro questi angoli con scritto «Dona ora», e questi angoli con su scritto «Dona ora», sono i luoghi dove appunto si può fare una donazione di fundraising. E siccome le cose le facciamo sempre seguendo quello spirito che ci muove, che è particolare, non è il generico chiedere dei soldi a fronte delle spese: andate a guardare! Questi angoletti rossi sono storie: si racconta come la fabbrica del Duomo di Milano si regge così, come la rinnovazione della Basilica della Natività di Betlemme è andata avanti così, come tantissime cose nella storia si reggono così. Allora, proprio perché il popolo e la comunità è non solo questo comune sentire, ma anche questo comune abitare, aiutiamoci a tirar su questa casa comune anche in questo modo. Io ringrazio ancora Lella e Fausto per questa bella opportunità di dialogo e invito tutti a proseguire nel programma del Meeting. Grazie.