Chi siamo
INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
Presentazione dei libri ALLE RADICI DELLA CRISI. Le ragioni politiche economiche e culturali di un processo ancora reversibile di AA.VV. (Ed. Rizzoli) e L’EQUIVOCO DEL SUD. Sviluppo e coesione sociale di Carlo Borgomeo (Ed. Laterza). Partecipano: Carlo Borgomeo, Presidente della Fondazione CON IL SUD; Maurizio Carvelli, Amministratore Delegato di Fondazione CEUR; Mauro Magatti, Professore Ordinario di Sociologia Generale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; Giorgio Vittadini, Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà.
A seguire:
IL FULCRO SOSPESO. Henri de Lubac e il dibattito intorno al soprannaturale
Presentazione del libro di John Milbank, Docente di Religione, Politica ed Etica all’Università di Nottingham (Edizioni Studio Domenicano). Partecipano: l’Autore; Andrea Bellandi, Docente di Teologia alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale; Marco Salvioli, Docente presso lo Studio Filosofico Domenicano di Bologna.
INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
Ore: 11.15 eni Caffè Letterario A3
Presentazione dei libri ALLE RADICI DELLA CRISI. Le ragioni politiche economiche e culturali di un processo ancora reversibile di AA.VV. (Ed. Rizzoli) e L’EQUIVOCO DEL SUD. Sviluppo e coesione sociale di Carlo Borgomeo (Ed. Laterza). Partecipano: Carlo Borgomeo, Presidente della Fondazione CON IL SUD; Maurizio Carvelli, Amministratore Delegato di Fondazione CEUR; Mauro Magatti, Professore Ordinario di Sociologia Generale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; Giorgio Vittadini, Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà.
A seguire:
IL FULCRO SOSPESO. Henri De Lubac e il dibattito intorno al soprannaturale
Presentazione del libro di John Milbank, Docente di Religione, Politica ed Etica all’Università di Nottingham (Edizioni Studio Domenicano). Partecipano: l’Autore; Andrea Bellandi, Docente di Teologia alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale; Marco Salvioli, Docente presso lo Studio Filosofico Domenicano di Bologna.
CAMILLO FORNASIERI:
Bene, cominciamo questo momento mattutino. Abbiamo tre proposte, ma i primi due inviti alla lettura li uniamo. Sono un libro dedicato alla situazione del Mezzogiorno italiano e un libro dedicato alla crisi e alle sue radici. Il primo è una proposta dell’editore Laterza, l’autore è Carlo Borgomeo che è alla mia destra e che ringrazio per la sua presenza: lui è Presidente della Fondazione “Con il sud”, che ha il compito di radunare forze economiche, sociali e di presenza sul territorio del terzo settore, per dedicarsi a una lettura seria della realtà del Mezzogiorno, controcorrente rispetto alle politiche che in questi anni hanno segnato la storia italiana. Il secondo libro ha lo stesso metodo, tende ad andare alle radici di un fenomeno, quello della crisi, in cui siamo coinvolti tutti. Il sottotitolo dice “le ragioni politiche, economiche e culturali di un processo ancora reversibile”. E’ un lavoro fatto insieme – lo racconteranno gli ospiti – da ricercatori di diverse discipline, tutti impegnati con una chiave seria di lettura della realtà. La seconda parte del sottotitolo, “un processo ancora reversibile” significa un motivo di speranza, perché occorre capire come mai la maggior parte della stampa, di coloro che hanno offerto chiavi di lettura della crisi, ha dovuto ammettere la propria incompiutezza e arrendersi. Ce ne parleranno anzitutto Giorgio Vittadini, che coordinerà questo momento e introdurrà questi aspetti complementari dell’ascolto, Mauro Magatti, Docente di Sociologia all’Università Cattolica di Milano, che ringraziamo molto, e Maurizio Carvelli, che è stato l’ideatore, quello che ha messo insieme le forze e ha offerto lo spunto per questo lavoro di riflessione sulla crisi, lui è Amministratore Delegato alla Fondazione CEUR. Giorgio Vittadini, apri e conduci un po’ questi due temi. Grazie.
GIORGIO VITTADINI:
Allora, qual è la ragione che sta alla base dei due libri? Sono libri diversi. Uno è di scenario: secondo un’ottica plurima di tipo politologico con Borghesi, economico con Sapelli, sociologico con Magatti e giuridico con Simoncini, si vede lo scenario da cui nasce la crisi mondiale e come oggi noi siamo di fronte a un crinale, un cambiamento che non è congiunturale ma parte dal ’45 in poi. Che tipo di cambiamento? Come sentiremo, un cambiamento antropologico, umano, come se andasse in crisi la visione dell’uomo moderno basata su quell’uomo egoista, su quel homo homini lupus di Hobbes, l’uomo oeconomicus la cui razionalità consiste nella massima soddisfazione dell’utilità individuale. Come vedremo dalle presentazioni, questa crisi apre invece a un ripensamento dell’uomo, quindi si tratta di “emergenza uomo”, anche nel senso che è un allarme ma anche un punto di rottura, un punto d’accumulazione verso qualcosa di nuovo. Ed è interessante perché allora, invece di essere solo un’analisi, si mette al cuore questo tema umano, antropologico. Ma allora il Sud, come questo primo argomento, di solito trattato in termini semplicemente di analisi, alla fine della quale non capiamo se ne sappiamo più di quando abbiamo cominciato, perché un’analisi, per definizione – parlo da statistico – è dispersiva, ti dà tante informazioni ma non ha capacità di sintesi intorno a una categoria. Anche il Sud è un esempio di questo tipo: sono ormai migliaia i ragionamenti per cui il Sud non è decollato, qual è la crisi, i problemi di errore della politica e altro. Ma, allo stesso modo, è interessante un libro sul Sud in cui il tema della difficoltà è trattato partendo da questa emergenza umana, in positivo e in negativo. Il primo è scritto da quattro grandi personaggi del mondo accademico, nonché amici. Poi Carvelli spiegherà in che occasione si sono messi insieme. Nel caso di Borgomeo, c’è un protagonista: io l’ho conosciuto quando c’è stata l’unica vera rivoluzione del Sud, quando, con la legge De Vito, ha cominciato a seguire progetti di giovani che sono stati un punto positivo, e alcuni di questi, dopo tanti anni, ci sono ancora, un tentativo di mettere al centro l’esperienza giovanile imprenditoriale. Dopo tantissimi anni, la Fondazione Sud ha lo stesso punto. Allora, è interessante vedere una persona che si mette, con questa stessa chiave, la persona, non a fare il discorso filosofico, etico, dal di fuori, c’è tutta l’impresa poi però bisogna essere bravi, fare un po’ di etica e responsabilità sociale: il punto di mancato sviluppo è invece questa riflessione sull’uomo che si inserisce sull’economia. Allora, vediamo un esempio di come temi che di solito ci portano fuori, perché anche quello del Sud ci porta fuori, alla fine invece ci aiutano. E’ un tema che mi è particolarmente caro perché, pensate, quando ho fatto la maturità classica portai un autore che allora era della sinistra alternativa, Zitara, Unità d’Italia e nascita di una colonia, e un classico della storiografia economica del Sud, il Sereni, Il capitalismo nelle campagne: quindi, mi ha interessato moltissimo conoscere Borgomeo da operatore, prima, e adesso come uno che riflette in modo diverso su questo tema. Quindi penso che questo incontro porterà certamente un valore aggiunto legato al titolo del Meeting.
CAMILLO FORNASIERI:
Partiamo da Borgomeo, che mette a inizio del libro una frase di Giorgio Ceriani Sebregondi, a cui si rifà come a una sorta di Borgomeo anticipatore, magari meno operativo. Per inquadrare questo tema del Sud, dice: “Evitare di cadere nell’errore di chi, trovandosi di fronte ad un albero che dà pochi frutti, invece di provvedere a curare la malattia dell’albero provvedesse ad appendere dei frutti sui suoi rami”. E’ il punto su cui si muovono l’impegno e la riflessione interessante di Borgomeo. Ma ci racconti.
CARLO BORGOMEO:
Grazie per questa opportunità e per avere scelto di farmi presentare questo libro insieme all’altro volume, nella logica che ha richiamato molto correttamente Giorgio Vittadini. In poche battute, perché ho tentato di riassumere un ragionamento, io che non faccio per mestiere né lo studioso né tantomeno lo scrittore ma, come ricordava Vittadini, ho avuto la fortuna di lavorare al Sud per oltre un trentennio, conoscendolo abbastanza bene. E mi sono fatto una domanda che è forse quella che si fanno tutti, anche se poi la allontanano immediatamente: com’è possibile che in sessant’anni il problema sia ancora lì, praticamente uguale? Com’è possibile? Ieri c’è stata una bellissima tavola rotonda con personaggi di grande spessore, di grande cultura politica ed economica: in due ore, la parola Sud non è mai stata pronunciata. Perché non è mai stata pronunciata? Non perché quei signori siano insensibili al tema ma perché, palesemente, non si sa più che cosa dire, è stato detto tutto. E poi ci sono tanti luoghi comuni. Allora, la domanda è questa, un po’ semplicistica, brutale: come è possibile? Qual è la spiegazione che ci diamo? Probabilmente, c’è una spiegazione che molti di noi hanno e che però si vergognano di manifestare apertamente, che c’è una specie di differenza antropologica: alla fine, il Sud è così perché i meridionali sono così. Io non mi arrenderei a questa spiegazione, anche perché su questo ci sono delle bellissime pagine di Benedetto Croce il quale spiegava che ci sono differenze anche nei comportamenti, però indotte da fatti storici. Ma i fatti storici si superano, quindi, se non ci vogliamo arrendere alla impostazione di un famoso studioso che si chiamava Lombroso, il quale stabilì che per la conformazione della testa dei meridionali non si poteva che avere un risultato così e che quindi era inutile perdere tempo, mi sono chiesto se c’è un’altra spiegazione. La spiegazione che io mi do e che naturalmente è il filo conduttore del libro, che può e deve essere discussa, è che, semplicemente, per il Sud non c’è stata una politica, non c’è stata un’offerta politica. L’unica politica forte che ha funzionato – lo ha richiamato ieri il Ministro Del Rio – sono stati i primi cinque o sei, diciamo pure dieci anni, della Cassa del Mezzogiorno, in cui la politica aveva deciso che c’era bisogno di una impostazione di solidarietà nazionale e, con i soldi degli Stati Uniti, del piano Marshall, fece nascere la cassa per il Mezzogiorno dedicata alle infrastrutture. Questa proposta politica dopo un po’ non ha tenuto ed è stata sostituita dalla famosa scelta di un personaggio che io per molto versi ammiro, stimo, che però secondo me ha sbagliato, che è stata la grande industrializzazione di base. Bisognava accelerare lo sviluppo del Sud: siccome i percorsi tradizionali erano troppo lenti, scatta una grande maledizione per il Sud che è la fretta, il risultato immediato, il numero di posti di lavoro da misurare immediatamente. E si fanno degli errori, si fanno i grandi centri siderurgici, i grandi petrolchimici. Guardate, l’obiezione che faccio non è un’obiezione che oggi sarebbe facile, dopo sessant’anni, e cioè la distruzione dell’ambiente: allora questa cultura, questa sensibilità non c’era. L’errore è fare dei grandi insediamenti che, voluti dall’esterno, arrivavano sui territori. Ci sono delle frasi agghiaccianti nella politica di sviluppo, in cui si diceva: siccome noi siamo forti, non ci interessa del contesto, siamo noi che determiniamo le condizioni di contesto, facciamo tutto noi. E questo è scritto a pagina uno del manuale dello sviluppo: così lo sviluppo non si fa. Questa scelta ha guidato per sessant’anni le politiche per il Mezzogiorno, con un risultato in termini di effetti raggiunti che è sotto gli occhi di tutti, ma con un risultato gravissimo in termini di selezione della classe dirigente. La classe dirigente è stata selezionata in relazione alla sua capacità di denuncia del ritardo, il meccanismo è stato questo, scusate la brutale semplificazione ma abbiamo poco tempo: io riesco a fare politica se denuncio i ritardi e i guai, se do la colpa al centro e se riesco ad ottenere dei soldi, delle risorse che poi io, con la mia rete di consenso, trasferisco al Sud. Capite che questa questione, al di là degli aspetti etici, è micidiale, perché seleziona quelli incapaci di rappresentare le speranze, i percorsi di sviluppo: solo denuncia. Nel libro, per chi avesse la pazienza di leggerlo, c’è qualche episodio che all’inizio fa sorridere ma poi terrorizza, responsabili di istituzioni meridionali i quali, a tutti i costi, si difendevano dai messaggi che volevano indicare che quella regione, quel territorio stava crescendo. Presidenti di Regione i quali, se sentivano dire che la loro regione andava bene, si preoccupavano, non erano contenti. Perché si preoccupavano? Perché questo faceva saltare il meccanismo e il loro ruolo politico: loro erano forti se la regione stava male, se potevano denunciare il divario economico. Allora, siccome penso che i minuti a disposizione siano praticamente finiti, qual è la mia riflessione centrale? E’ che la politica possibile è quella che cambia obiettivo. L’obiettivo al quale la mia generazione, ma ahimè anche le generazioni successive, sono state abituate, era: bisogna che il Sud abbia il prodotto interno lordo del Centro Nord. Questo obiettivo è per adesso irraggiungibile ma, se ci pensate bene, anche sbagliato. Non so quanti meridionali ci sono e quanti non meridionali conoscano il Sud, ma se si va nei posti peggiori del Sud, qual è la reazione che abbiamo? Se si va a Scampia, a Librino, al quartiere Archi di Reggio Calabria, a Paolo VI di Bari, se si va a Crotone, se si va a Gela, qual è la reazione? Come sono poveri? No, la reazione è: ma come fanno a vivere in una situazione di tale degrado civile? Questo è il divario del quale dobbiamo occuparci. E l’obiettivo non è quello di pareggiare il reddito del Centro Nord, l’obiettivo è quello di pareggiare le condizioni di convivenza civile del Centro Nord. Per fare questo, bisogna avere il coraggio di una forte innovazione, bisogna dire che non ci interessa quell’obiettivo e quindi essere un po’ più attenti alla qualità degli interventi. Guardate, noi ci stiamo abituando a un meccanismo che, se uno si ferma e riflette con calma, è paradossale: le regioni meridionali vengono giudicate nella loro capacità di fare il loro mestiere, se spendono i soldi. Ma voi conoscete un organismo, un’impresa, una famiglia, qualche aggregato che venga giudicato in base alla capacità di spendere, senza nessun occhio agli obiettivi? Ma questo è disastroso dal punto di vista della comunità. La quantità, solo la quantità, con le relazioni sociali spesso bruciate. Allora, l’obiettivo del libro è duplice: primo, mette al centro della questione meridionale – cosa che non è stata mai fatta – la questione sociale. Noi siamo stati tutti figli di una cultura – il ragionamento si intreccia molto con le questioni che diceva Giorgio – per cui il welfare, i servizi sociali, i diritti della persona seguivano la crescita. Dobbiamo convincere noi stessi, e fare una battaglia culturale e politica, che è esattamente il contrario. Lo sviluppo c’è se c’è un minimo di capitale sociale, lo sviluppo c’è se c’è un minimo di comunità, lo sviluppo c’è se la gente pensa che regole non siano un’astrusa posizione esterna, ma un meccanismo per stare insieme meglio. Questa è la prima conclusione: spostare l’asse della lotta per il Mezzogiorno con una condizione assoluta, la lentezza. Dice: ma sei pazzo? No, non lo sono, sono pazzi gli altri che, da sessant’anni, ci dicono che in tre anni risolvono, che in due anni arrivano 200mila miliardi, che cambiano le cose. E’ sessant’anni che va avanti così. Io dico che ci vuole lentezza, è un processo lungo ma sul quale non si può sbagliare. E in questo viene fuori – e concludo – il ruolo determinante delle forze sociali, non quelle tradizionali, Confindustria e sindacati, ma del Terzo Settore, di chi sta sul territorio, non con una dimensione etica, che pure basterebbe, ma con una dimensione politica. Questi soggetti sono in grado di rimettere al centro correttamente la questione dello sviluppo, lavorando per la comunità, per l’accoglienza, per lo stare insieme. E io nel libro do una spiegazione del motivo per cui sono questi i soggetti, dei quali conosciamo i pregi e i difetti: io faccio un mestiere, la Fondazione Con il Sud, in cui sono esaltato dalle esperienze del Terzo Settore ma contemporaneamente ne conosco e ne vedo i limiti, come in tutte le cose umane. Ma qual è la differenza? Che in quest’area si è sviluppata una dimensione che la politica tradizionale per il Sud ha sempre messo nel cantuccio, e cioè la responsabilità dei soggetti. In quel percorso/denuncia che vi dicevo – “datemi l’aiuto dall’esterno che ci penso io a risolvere qui” -, la responsabilità dei soggetti locali era inutile, anzi, era pericolosa. Nel Terzo Settore, proprio perché è stato fuori dai grandi giochi delle politiche per il Sud, si è sviluppata molto più forte una attitudine all’assunzione di responsabilità. E allora la grande speranza, naturalmente rinforzata dal lavoro che faccio quotidianamente al Sud, sempre in relazione con il Terzo Settore, è questa: che la politica per il Sud finisca di essere una sequela continua di annunci a cui non crede più nessuno. Io penso che abbiate anche voi la stessa sensazione che ho io, che quando un grande politico parla di Sud dà la sensazione di non credere che sia possibile risolverla, che bisogna dirlo ma che il risultato non arriverà. E allora, cambiamo del tutto, non ci interessa se il Centro Nord ha 18 punti di PIL in più o 32, ci interessa sapere che il tasso di abbandono dell’obbligo scolastico, nel meridione, è da terzo mondo, che la situazione di alcuni quartieri è da vergognarsi. Io sono stufo di andare a Napoli a dire quanti sono i disoccupati, lo so che sono tanti. Io vorrei che i napoletani, come me, si vergognassero di abitare a 12 km da Castelvolturno, che non so se qualcuno di voi ha mai visto. Questo non è un giudizio etico, è un giudizio di politica e di sviluppo; quel territorio non si svilupperà se al suo interno avrà queste contraddizioni. E allora, cambiare obiettivo con una certa radicalità, dicendo chiaramente che a quel discorso non crediamo più, spostare l’asse su una gerarchia di iniziative che mette al centro lo sviluppo delle relazioni sociali, le condizioni di vita, il senso di comunità. Ripeto, è difficile, è un po’ lento, però abbiamo la prova, diciamo la controprova: tutto il resto in sessant’anni non ha funzionato.
CAMILLO FORNASIERI:
Analogamente, sul tema della crisi do la parola a Carvelli: ci sono contributi diversi a fronte di un unico metodo di conoscenza che si contrappone a quello spuntato quanto armato dei mezzi di comunicazione, dove il fattore un umano non entra in campo nella comprensione della storia. Questo io prende le mosse, nei vari contributi, tornando a ritroso nel tempo per capire la crisi, non solo perché, come sempre, una cosa di oggi è il risultato di una cosa del passato, oppure per una scelta di interdisciplinarietà, quella specie di chimera didattica che tutti, nei vari poli intellettuali e universitari, ricercano. Qui è veramente una questione di sostanza: il fattore umano è fattore di libertà, come accenna anche Magatti nel suo saggio, nel cambiamento del pensiero, della storia, nel modo di considerare la politica, come illustra benissimo Borghesi nel suo excursus storico, dalla fine dei due blocchi fino all’89, e in avanti fino al 2001. Tutto questo si intreccia e arriva al nostro tempo, alla situazione di adesso. Il “ribaltamento” del titolo, “ancora reversibile”, è un fattore umano che non va più invocato come quando ci sono gli incidenti dei treni, dove c’è sempre un fattore umano. Non è un incidente, è il fattore della storia: e il giudizio che si ha su di esso è decisivo. Quindi, Carvelli, raccontaci come è nato perché è anche bello questo spunto; a Magatti il compito di dare dei flash su quello che insieme hanno trovato di grande interesse sulla crisi.
MAURIZIO CARVELLI:
Grazie. Io descrivo come è nata questa idea del libro, conseguenza di una Summer School che, insieme alla Fondazione CEUR e alla Fondazione della Sussidiarietà, hanno realizzato a Milano l’anno scorso, che continua anche quest’anno e, spero, l’anno prossimo. Questo titolo, Alle radici della crisi, nasce sostanzialmente dalla domanda che mi sono posto dentro la mia azienda. Io ho promosso due fondazioni che si occupano di studenti universitari, dell’ospitalità in collegi e studentati e della formazione di una parte di questi, quasi 800 ragazzi che sono eccellenti, talenti. All’interno della mia attività, come per tutti gli imprenditori è arrivata la crisi, la tempesta perfetta che continua a essere una tempesta perfetta. Di fronte a questa tempesta, sono nate, come per tutti gli imprenditori, una serie di domande che hanno fatto di questa crisi un’occasione virtuosa. In realtà, questo parallelo tra micro e macro, tra quello che è accaduto nella mia azienda e quello che è il macro nella società e nell’economia, è stato il tema affrontato nella Summer: è un parallelo che farò oggi e che mi interessa sottolineare, perché la scoperta più importante è stata questa domanda del perché la crisi e del meccanismo virtuoso che, in ogni crisi, si inserisce attraverso la forma delle domande, perché è accaduto a me, perché sta accadendo a noi. Soprattutto in un momento come quello che abbiamo vissuto fino a cinque anni fa, dove ci trovavamo in un meccanismo intoccabile, che non veniva assolutamente scalfito da nulla. Noi vivevamo in un mondo che sembrava dovesse proseguire la sua corsa senza particolari sballottamenti: c’era ogni tanto qualche crisi ma tutto rientrava perfettamente. Invece, in questo meccanismo perfetto, che pareva non dovesse mai entrare in crisi, improvvisamente ci siamo trovati di fronte la realtà. E improvvisamente tutto è iniziato a crollare: ecco quindi la domanda del perché non ci siamo accorti di quello che stavamo facendo. Io me la sono posta, anche guardando i ragazzi e gli studenti universitari che sono miei ospiti, guardando i loro occhi dove c’era la paura dei padri ma anche il loro desiderio e i loro sogni. Non mi sono potuto sottrarre a far sì che questa esigenza di verità, la necessità di una risposta a questa domanda, fosse posta a un gruppo di persone che potesse aiutarci, e aiutarmi, per trovare una strada ragionevole. Cito solo una cosa, per rispondere a quella che è la questione più importante che mi è rimasta e che vi ripropongo. “A un certo punto”, scrivo nella Prefazione, “i rischi della finanziarizzazione dell’economia, dello statalismo” leggi l’organizzazione nelle aziende, la burocrazia, i supertecnici nelle imprese, “il prevalere della rendita sul lavoro, sono problemi di realismo, di ragionevolezza e di moralità, prima che problemi sociali, strutturali e politici. Nascono cioè da una questione antropologica, come ha detto la Caritas in Veritate di Benedetto XVI”. Lo dico in brevissimo, la crisi è un problema culturale prima che un problema tecnico, strutturale, perché se lo fosse si troverebbe la soluzione e avremmo tolto il problema. Il problema è invece culturale, è un problema dell’uomo. Una crisi culturale significa che non è chiaro lo scopo, non è chiaro dove stiamo andando. E questa questione ha un’importanza strategica fondamentale che fa capire, primo, che la crisi non terminerà domani, proprio perché è legata all’educazione e allo scopo; e secondo, che bisognerà mettere mano a molto ma in particolare alla formazione delle persone. In questo, per me, l’indicazione nel micro è preziosa ed è per questo che io ringrazio le persone con cui ho lavorato, da Vittadini a Sapelli, in primis, ma il professor Magatti, il professor Borghesi, che vedo qui presente, il professor Simoncini, che ci hanno aiutato a svolgere questa cosa, soprattutto per quella educazione e quel parlare il linguaggio della verità che il presidente Napolitano ci ha richiamato all’inizio del Meeting e che anche questo libro suggerisce. Grazie.
MAURIZIO MAGATTI:
Grazie della possibilità di prendere la parola in questo incontro di persone. Io ho partecipato a questa avventura: in poche parole non posso certamente riassumere le tante idee, anche degli amici e dei colleghi con cui abbiamo condiviso questo percorso, per cui mi assumo la responsabilità di dire poche cose, a proposito di questo tema della crisi. Lasciamo stare un attimo la storia: se pensiamo alla nostra vita personale, quanti sono stati i momenti di crisi o i momenti di non crisi? In un certo senso, la crisi c’è perché viviamo, la crisi c’è perché siamo dentro un processo che ci cambia e che noi contribuiamo a cambiare. E bisogna ogni volta cogliere l’opportunità che la crisi, soprattutto quando è intensa, forte, prova a suggerirci. Sono passati cinque anni dal 2008, credo che dovremmo riuscire a realizzare l’idea che il problema non è tornare al primo settembre 2008, perché non ci torneremo, e probabilmente non è nemmeno desiderabile tornare al primo settembre 2008. Il problema è provare a immaginare cosa riusciamo a pensare per il primo settembre 2018 o per il primo settembre 2023: e come possiamo immaginare quello che accadrà nel 2018 o 2023? Provando ad ascoltare quello che la crisi sta cercando di dirci, provando ad ascoltarla e a porci le domande che la crisi ci sta ponendo. Ci sono quattro livelli di questa crisi che vanno tenuti, almeno analiticamente, distinti, altrimenti non si capisce neanche di cosa stiamo parlando. C’è un livello antropologico: noi siamo dentro una storia non solo secolare ma addirittura millenaria della libertà. Una storia della libertà in cui l’uomo, gli uomini prendono coscienza di sé, allargano lo spazio di azione, diventano più liberi: la democrazia, il mercato, la libertà religiosa, tante cose. Una storia millenaria: e questo processo si allarga, si amplia e questa crisi segna una crisi di questa lunga storia che ha a che fare con la concezione antropologica, con l’idea dell’uomo, con l’idea di libertà che abbiamo elaborato in quest’ultimo frammento della storia, quello che si apre, per essere schematici, con il ’68, che chiude la fase post- bellica, dal punto di vista culturale. Poi succederanno tante cose economiche, politiche: ecco, la fase che si apre col ’68, in cui emerge nelle società occidentali avanzate il tema dell’io, perché c’eravamo liberati, su scala di massa abbiamo raggiunto condizioni di ragionevole libertà e si è affermato l’io. Quindi, c’è un piano antropologico, un piano storico- politico, la globalizzazione la regolazione dei mercati, anche il fatto che questa stagione che abbiamo alle spalle nasce con la caduta del muro di Berlino e ci consegna in una situazione in cui c’è la Cina, c’è il Brasile, c’è l’India, una questione politico-istituzione planetaria, che è un secondo livello. E poi c’è un terzo livello, il livello dell’Europa. Nel frattempo, abbiamo costruito l’Europa che non sappiamo ancora bene cosa sia, e questa crisi ci sta dicendo: cari europei, volete mettervi insieme, immaginare un futuro insieme oppure questa crisi è destinata a mettere in discussione la vostra unione? C’è un piano europeo e poi c’è un piano italiano: e dentro al piano italiano c’è un piano del Sud. Un piano italiano che riguarda il fatto che l’Italia è stata molto marginale al periodo storico che si è appena chiuso, la Seconda Repubblica, per così dire, è stata il modo con cui l’Italia ha partecipato al processo di espansione. Dal 1989 al 2008 noi siamo stati molto marginali a quel fenomeno storico e arriviamo a questa crisi dovendo smaltire il ritardo che abbiamo accumulato negli ultimi vent’anni, e in più provare ad affrontare una nuova stagione che si apre. Quindi, abbiamo il doppio problema: capite che questa crisi ha tanti piani che vanno considerati diversamente, almeno nella nostra testa. Non è che li possiamo risolvere tutti, però dobbiamo cercare di capire che cosa stiamo facendo. Qual è il fulcro – dovendo fare una scelta, avendo pochi minuti – che, in particolare parlando al Meeting, mi sembra più da sottolineare? Come accennavo prima, a me piace pensarmi e pensarci dentro questa storia della libertà, che ha ancora tante pagine da scrivere perché, intanto, ci sono uomini e donne che ancora devono accedere ad una condizione di libertà. Ma per noi occidentali, la questione della libertà per il 21esimo secolo, perché questa crisi ci introduce al 21esimo secolo, è una cosa importante – perché questa crisi ci sta dicendo che, fatta salva l’importanza della memoria, non c’è nemmeno futuro – per ciò che riusciamo a immaginare nelle nuove condizioni storiche rispetto al secolo che sta nascendo. La crisi ci sta parlando del futuro, non del passato. In questo scenario, in questo ingresso nel nuovo secolo, il tema è: qual è la nuova tappa della libertà che possiamo immaginare emergere da questa crisi? Credo che questa stagione storica che nasce dal ’68, in cui abbiamo avuto accesso al benessere, alla democrazia, in cui abbiamo avuto accesso ad un pluralismo culturale impensabile, questa prima stagione storica in cui, almeno in Occidente, abbiamo fatto esperienza di condizione di libertà di massa, è stata un po’ deludente. Se dobbiamo immaginare una nuova stagione, il cuore della questione riguarda quello che io chiamo l’immaginario della libertà. Mi pare sia come se le democrazie, le economie occidentali, arrivate in questo grande sforzo a creare condizioni di libertà diffusa, avessero preso, in una forma un po’ adolescenziale, la strada più semplice. Siamo diventati liberi, finalmente non c’è più il padre, la tradizione o l’autorità che ci dice cosa dobbiamo fare. L’idea dell’individuo, dell’individualismo, è che io sono padrone di me stesso, legislatore di me stesso, io faccio quello che voglio: ci siamo raccontati questa idea e naturalmente il sistema economico ha risposto a questa domanda. La finanziarizzazione ha risposto a questa domanda infinita, immaginando una finanza infinita. La finanza è un pezzo del sistema tecnico-economico, la crisi ci sta dicendo: cari signori liberi, che siamo noi – perché noi siamo liberi in una storia della libertà che deve ancora scrivere tante pagine -, cari signori liberi, vi siete liberati e adesso cosa diavolo volete fare della vostra libertà? Mi sembra che questa crisi stia dicendo alle società avanzate: ma l’essere liberi è correre dietro a qualunque possibilità ti passi davanti, senza nessun senso, disegno, logica, senza nessun valore? E’ questo? Essere liberi è essere aperti – che è aspetto importante della libertà – al non senso? In questo, Papa Ratzinger è stato precisissimo quando dice che c’è una crisi della ragione: certo che c’è una crisi della ragione antropologica, è evidentissimo. Allora, voi capire che la crisi non riguarda solo la finanza, non riguarda solo gli Stati ma riguarda concretamente la nostra cultura di persone e di donne libere. Voglio concludere con un paio di citazioni. La prima in onore al Meeting: ieri mi hanno portato a vedere la mostra di Chesterton e non posso esimermi dal fare una citazione di Chesterton, mi sembra un atto garbato nei confronti di chi mi ha invitato e ha organizzato la mostra. Diceva Chesterton che ci sono due tipi di ribellione, è sempre molto arguto, no? Il primo è quello in cui lo schiavo vuole qualcosa che il tiranno ha. Il secondo è quello in cui chi è sottomesso domanda qualcosa che il tiranno non ha. Accosto questa frase a una citazione in cui mi sono imbattuto pochi giorni fa e che risale al 1927, pubblicata sull’Harward Business Rewiew da un famoso economista, uno dei fondatori della Lehman Brothers, che scrive la seguente cosa che fa impressione. Dice: noi dobbiamo slittare, passare da un’America centrata sui bisogni, da una cultura centrata sul bisogno a una cultura centrata sul desiderio. La gente deve essere educata a desiderare e fin qui, naturalmente, niente di male, ma aggiunge, a volere nuove cose, persino prima che le vecchie siano completamente consumate. I desideri dell’uomo devono prendere il posto dei bisogni. Ci sarebbe molto da dire su questa citazione, certamente la storia della libertà è la storia dell’emergenza del desiderio, ma il problema è di quale desiderio stiamo parlando. Massimo Recalcati, un caro amico, dice: non un desidero reso godimento, un desiderio che continuamente ha davanti l’oggetto che vuole raggiungere e che, naturalmente deludente, riparte con un altro oggetto. L’infinitazione del desiderio. Ecco, la crisi della libertà, la crisi dell’economia, ha a che fare col nostro desiderio. C’è stato un progetto attorno a questa questione che oggi vede in qualche modo il suo fallimento. Il tema non è andare indietro, capite, il tema è far lievitare questa storia della libertà. Dire libertà sapendo che la libertà, quando c’è, si confronta con la sua autodistruzione; essere liberi significa poter andare di qua e di la e, dunque, non andare da nessuna parte, che mi sembra un dramma antropologico abbastanza diffuso. Noi possiamo andare da tutte le parti e non andiamo da nessuna parte. E la società che io chiamo tecno-nichilista, che ha avuto il suo fallimento nella grande crisi finanziaria, ci sta dicendo: cari signori liberi, tornate a riflettere sulla vostra libertà. Ci siamo liberati delle democrazie avanzate per fare che cosa? Per fare esistere quale mondo? Per desiderare quale realtà? Chiudo con un’altra citazione di Havel, che richiamo qui perché è stato anche recentemente ripubblicato e io sono stato molto contento di aver letto alcune sue riflessioni. Havel fu uno dei dissidenti, una delle grandi figure della liberazione dal dominio sovietico, poi divenne Presidente della Cecoslovacchia, insomma, una grande figura. E Havel ci ricorda un altro aspetto. Diceva: guardate che io combatto il sistema sovietico, non perché penso che in Occidente tutte le cose vadano bene ma perché il sistema sovietico è l’avanguardia del sistema di dominio impersonale, in cui la persona non c’è più. Non c’è più la persona nella sua libertà vera, nella sua concretezza, nella sua responsabilità, per richiamare quanto diceva prima Carlo Borgomeo. Havel diceva, immaginando un mondo che ancora dobbiamo costruire: “Mi piacerebbe che riuscissimo ad immaginare un mondo dove sia possibile non vergognarsi di essere capaci di amore, di amicizia, di solidarietà, di compassione, di tolleranza ma, al contrario, di liberare queste dimensioni fondamentali dall’esilio del privato e di accettare come unici punti di origine di una comunità dotata di senso di lasciarci guidare dalla nostra stessa ragione e di servire in ogni circostanza la verità come nostra esperienza personale”. Ecco, la crisi ci sta dicendo che la prima stagione della libertà di massa non sta più in piedi e che, se non riusciamo a suscitare un movimento culturale che abbia voglia di dire libertà più responsabilmente, più personalmente, più autenticamente, non ci sarà sistema tecnico, non ci sarà sistema politico, non ci sarà nessuno che ci toglierà dai guai. La storia della libertà è una gran bella cosa, diventare liberi, diventare liberi insieme, ma la storia della libertà ci espone anche a enormi fasi di distruzione e di regressione. Se voi guardate la prima parte del ’900, vi rendete conto che la storia della libertà è entusiasmante ma può essere anche una storia drammatica. Grazie.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie della bellissima e preziosa riflessione di Magatti, sempre acuto e vivo. Su questo tema della libertà, noi abbiamo ricevuto, nel messaggio di Papa Francesco, il ricordo di quella frase di Giovanni Paolo II che fa vedere la continuità nel tempo che abbiamo raccontato anche oggi, attraverso varie vicende che toccavano il tempo vissuto, l’uomo e la via della Chiesa. Questa è la coscienza permanente che occorre lo slancio, il nostro slancio, per vivere una certezza e creare cose nuove, come il bucaneve che sbuca dalla neve, nella copertina di questo libro che vi invitiamo a leggere, insieme a quello di Borgomeo. Grazie a tutti i relatori, li salutiamo e invito gli altri a venire.
Il libro che presentiamo si intitola: Il fulcro sospeso, delle Edizioni Studio Domenicano, diretto da Giorgio Carbone. Abbiamo qui oggi un componente, Docente presso lo Studio Filosofico Domenicano di Bologna, Marco Salvioli, che ha curato questa edizione. Lo salutiamo, innanzitutto. Il libro è di John Milbank, che è qui alla mia destra, un caro amico del Meeting, che ha arricchito questa edizione italiana di un suo studio, nato pochi anni fa, sul famoso libro di riflessioni di Padre Henri De Lubac, Surnaturel. Infatti, Il fulcro sospeso ha come sottotitolo Henri De Lubac e il dibattito attorno al soprannaturale. Ne parla con noi, oltre all’autore, Andrea Bellandi, che è Docente di Teologia alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, che ci aiuterà da subito ad inquadrare questo argomento, che prende le mosse dal libro di Henri De Lubac, grande padre, teologo, ispiratore di passi del Concilio e anche molto amato dalla nostra storia. Nel ’46, incentrava la sua attenzione sul tema della natura e della Grazia, che sembra essere una disquisizione teologica e filosofica molto interessante, con riflessi immediati su tutto il resto dell’impostazione del pensiero, perché la filosofia era teologia e la riflessione sul fatto religioso nella vita dell’uomo può suggerire certezze o ambiguità che creano poi strade verso il significato. Tommaso diceva “la conoscenza è una cosa semplice”, tanto che riteneva che quanto aveva scritto fosse in fondo contenuto nell’esperienza umana di ciascun fedele cristiano, cosciente ed educato. Anche il titolo, Il fulcro sospeso, da una parte indica – mi pare – il dialogo tra teologia e filosofia, dall’altra, questo tema di un fulcro su cui si muovono due realtà, quella di una presenza che cambia e crea, quella di una natura che vive e libera. Ad Andrea Bellandi, l’inizio. Grazie.
ANDREA BELLANDI:
Dico subito che quello di John Milbank non è un libro semplice, uno di quei libri da portare sotto l’ombrellone. Non è un volume di grandi dimensioni ma un testo in cui ogni pagina va centellinata: rileggendolo, si scoprono aspetti che, a una prima lettura, possono sfuggire. E’ quindi un’opera che richiede al lettore un minimo di coinvolgimento attento e anche una base storico-filosofica e teologica: è comunque un libro che si può affrontare. D’altra parte, l’autore non è il primo arrivato: professore di Religion Politics ed Ethics presso l’Università di Nottingham, ed ivi direttore del Center of Theology and Philosophy, si occupa da anni di queste tematiche a cavallo tra filosofia e teologia, ed è uno dei maggiori conoscitori del gesuita francese Henri De Lubac. Allora, due parole su questo autore francese, De Lubac.
Per me, come per altri miei coetanei che negli anni ’70 hanno incontrato l’esperienza ecclesiale di Comunione e Liberazione, questo autore è stato uno dei primi compagni di cammino suggeriti dallo stesso don Giussani, in un’epoca in cui ben altre letture, spesso di taglio socio-politico, andavano per la maggiore, anche nei seminari. Insieme ai testi di von Balthasar, di Guardini, di Danielou, di Newman, le opere del gesuita francese giravano tra le mani di noi studenti, anche per la preziosa opera di traduzione fatta dalla editrice Jaca Book, proprio in quegli anni successivi al Concilio. Erano particolarmente letti i testi sulla realtà della Chiesa, che forse sono anche i più conosciuti al grande pubblico: Meditazioni sulla Chiesa, Paradosso e mistero della Chiesa, Corpus mysticum. Meno conosciuti, invece, i testi riguardanti l’argomento preso in esame dal libro di Milbank, ovvero il rapporto natura-Grazia e il tema in generale del soprannaturale. Comunque, De Lubac è un autore che affascinava noi giovani seminaristi di allora e che continua ad affascinare oggi. Giustamente, il professor Milbank lo annovera, nel suo libro, insieme a Sergej Bulgakov, nella ristretta schiera dei grandi teologi del XX secolo. Così come la sua opera, Surnaturel, è dal professore indicata come il testo teologico chiave del XX secolo, perché in esso, come in altri testi di De Lubac, per citare una significativa espressione di Milbank, “vi si può trovare una specie di grammatica dell’intelligenza e della pratica cristiana”, sia a livello individuale che comunitario. Vediamo ora la questione posta al centro dello studio di Milbank, ovvero il dibattito sul soprannaturale e sul correlato rapporto natura-Grazia, che non rappresenta una questione marginale ma capitale, che concerne l’uomo, la realtà e quindi la dimensione razionale e insieme religiosa della vita. “Si tratta precisamente del reale” per citare una bella frase del regista Bresson, ricordato opportunamente dall’autore sia nell’introduzione che al termine del suo libro: il reale, ovvero il cosmo, le cose ma soprattutto la persona, l’io che, secondo un’espressione di don Giussani, rappresenta
l’ “autocoscienza del cosmo”, quel punto in cui il cosmo intero raggiunge il suo acme, in cui la natura prende coscienza di sé. Milbank usa un’espressione analoga: “l’uomo è quel microcosmo che tiene insieme l’intera creazione”. Ebbene, ecco l’interrogativo di fondo su cui De Lubac si è misurato e che attraversa un po’ tutto il libro: il reale, e in esso l’io, quale punto di autocoscienza è pensabile come un dato chiuso in sé, autonomo, che segue un proprio percorso naturale? E correlativamente, la chiamata di Dio, la vocazione al soprannaturale o alla “divinizzazione” (per usare un’espressione impiegata dai padri greci) costituisce soltanto qualcosa di giustapposto, una dimensione estrinseca, e quindi di fatto facoltativa per la vita, o viceversa, invece, è l’unica e autentica vocazione inscritta nel reale? Vocazione che emerge come esigenza radicata e radicale di compimento in tutte le cose, secondo quella bellissima espressione evocativa, già impiegata da Jacopone da Todi: “Amor, amore, omne cosa conclama”. Amore, amore, ogni cosa grida a questa realtà ultima e originaria. Capite bene che questa non è una questione di poco conto o puramente teorica: lasciando al professor Salvioli l’onere di entrare più nel dettaglio storico del tema dibattuto, e anche forse di spiegare l’accattivante titolo del testo di cui, essendo il curatore del libro, è il vero esperto, sottolineo solo due aspetti a proposito del rapporto natura-Grazia. Primo: dalla risposta che si dà a questa questione del rapporto tra natura e Grazia, scaturiscono conseguenze di enorme portata dal punto di vista culturale, che hanno segnato e segnano tutt’oggi la comprensione che l’uomo ha di sé e del proprio rapporto col destino, col mistero di Dio. L’ipotesi di una natura pura, che è in sé teoricamente pensabile, autosufficiente, così come si è sviluppata a partire dalla tarda Scolastica, è di certo uno dei fattori che sta alla base del processo di secolarizzazione della modernità, sicuramente. Ovvero, di quello che la Fides et Ratio definisce “la nefasta separazione tra l’ambito della ragione e quello della fede”, due ambiti che finiscono per essere indifferenti l’uno all’altro, autonomi, ognuno perseguente i propri fini. E’ questa la critica che spinge De Lubac e che Milbank ben presenta nelle sue pagine, ad accusare di deleterio estrinsecismo una tale separazione, separazione che conduce ad un umanesimo senza religione e a una religione senza umanesimo. Questo non è solo storia passata: in contesti diversi, è la tentazione permanente che accompagna il pensiero filosofico-teologico anche oggi. Da qui, l’attualità del tema: pensiamo solo, ad esempio, alla battaglia intrapresa da Benedetto XVI per l’allargamento dei confini della ragione. “La ragione” per usare sempre un’espressione di Benedetto “è vista oggi come un bunker, come un edificio di cemento armato senza finestre in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non invece come un’inesorabile apertura alla realtà totale”. Bene, lo stesso De Lubac, come ricorda giustamente Milbank, ha intravisto anche nell’epoca postconciliare, quando certi dati sembravano acquisiti, il riproporsi larvato, un po’ nascosto, di questo dualismo-estrinsecista tra natura e Grazia nelle posizioni che teoricamente erano opposte, e sono opposte, ma praticamente convergenti, da una parte, delle correnti liberali di tendenza raineriana, dall’altra, di quelle conservatrici. Gli opposti che poi si toccano, o per difendere i presupposti di una natura autonoma oppure per difendere le prerogative di una Grazia disincarnata. Questo giudizio di De Lubac, fra l’altro, gli provocò un isolamento sofferto, dopo il Concilio, anche fra la sua stessa Compagnia di Gesù. Ma pensiamo anche ai toni di tenore spiritualista e moralista con cui il cristianesimo e l’esperienza religiosa vengono spesso presentati e vissuti: disincarnati dalla vita. In fondo, il dibattito, le radici di queste visioni, stanno proprio in questo rapporto natura-Grazia vissuto in modo dualistico ed estrinsecista. La seconda osservazione, e comincio ad avviarmi alla conclusione, è la significativa e non casuale coincidenza, proprio nel decennio successivo al secondo conflitto mondiale, quindi negli anni ’50, tra le analisi di De Lubac, di carattere più storico, e due testi che in Italia contribuirono a riannodare i nessi tra natura e Grazia, e che tanto hanno influito sulla ripresa di un’esperienza autenticamente cristiana nel nostro Paese. Mi riferisco qui ai due contributi pubblicati da Massimo Borghesi, e presentati proprio l’anno scorso qui al Meeting, dell’allora arcivescovo di Milano Giovan Battista Montini, la famosa lettera pastorale del ’57, e del giovane teologo Luigi Giussani, la prima versione del poi noto, arcinoto, Il senso Religioso. Entrambi, Montini e Giussani, conoscitori degli studi della scuola francese di Jean Danielou e di Henri De Lubac, posero al centro dell’esperienza umana come tale il senso religioso, inteso come “sintesi dello spirito”, espressione di Montini, ovvero quale sua struttura fondamentale e connaturale. Scriveva allora Giussani nella prima versione de Il Senso Religioso, e cito questa parole perché esprimono la stessa preoccupazione che stava alla base degli studi di De Lubac: “Il senso religioso è una dote caratteristica della nostra natura, che dispone l’anima ad aspirare verso Dio, quasi la protende nel tentativo di afferrare Dio in qualche modo. Fra tutte le capacità della nostra natura, quella del senso religioso è evidentemente la fondamentale, è un elemento della struttura della nostra natura. Il senso religioso è l’iniziativa di Dio che ci crea”. Sono parole che De Lubac avrebbe sottoscritto in pieno, e che lo stesso Catechismo della Chiesa cattolica, nel ’90, nel primo capitolo intitolato Homo Capax Dei, l’uomo capace di Dio, avrebbe successivamente parafrasato in questi termini. Cito l’inizio del catechismo: “Il desiderio di Dio è inscritto nel cuore dell’uomo, perché l’uomo è stato creato da Dio e per Dio, e Dio non cessa di attirare a sé l’uomo, e soltanto in Dio l’uomo troverà la verità e la felicità che cerca senza posa”. Si tratta proprio di quel “desiderium naturale videndi Deum” che le opere di De Lubac sul soprannaturale hanno sottolineato con particolare vigore. Ecco, vado a concludere perché il tempo è tiranno. Ovviamente quanto finora da me detto costituisce solamente l’ossatura di fondo dello studio assai più puntuale, complesso, articolato del professor Milbank, studio che non intende essere – come egli specifica nella Prefazione – un resoconto comprensivo della intera teologia di De Lubac, ma piuttosto una focalizzazione sulla controversia concernente il soprannaturale, cercando anche di indicare alcune conseguenze teologiche che da essa si possono trarre. Ne cito due ma mi soffermo su una, brevissimamente, che ho trovato oltremodo interessante, ovvero l’esegesi scritturistica e il processo di sviluppo della dottrina cristiana. Faccio un accenno all’esegesi scritturistica: la stretta correlazione di natura e Grazia ha una significativa ricaduta anzitutto nella interpretazione della Scrittura, perché anche qui si gioca una battaglia contro l’estrinsecismo: tra una lettura puramente naturale – diremmo prigioniera dell’esclusivo metodo storico-critico – e una lettura invece opposta, spiritualistica, che però rischia di prescindere dal semplice testo, o persino di contraddirlo. Ecco, questa conseguenza in ambito scritturistico è interessantissima, e le pagine di Milbank a questo proposito richiamano metodologicamente quanto sottolineato anche nelle pagine introduttiva del Gesù di Nazareth di Benedetto XVI, quindi di estrema attualità. Ma sono tanti gli aspetti che rendono stimolante, attuale quest’opera di Milbank, ad esempio il discorso sul femminino. Sono aspetti su cui non possiamo entrare: quindi, non è una lettura da fare sotto l’ombrellone ma un testo da meditare e da cui imparare molto. E’ un testo, infatti, che tratta – ripeto la citazione – “precisamente del reale”. Grazie.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie Bellandi, davvero bella la sua esposizione, ci ha fatto capire – è una domanda che avevo anch’io – come mai uno come Milbank, che si occupa anche di etica, politica, società, sia andato proprio a cogliere quel punto. L’abbiamo ben intuito da queste parole. Adesso, Salvioli, un accenno, cercando di contenere i tempi, così lasciamo anche un po’ spazio al nostro autore.
MARCO SALVIOLI:
Innanzitutto ringrazio l’organizzazione del Meeting per questo invito a presentare un libro di John Milbank, pubblicato dall’edizione Studio Domenicano, che vi attendono allo stand presente al Meeting. Nel poco tempo che mi è stato dato, cercherò, per immagini e slogan, di mettere in luce il motivo per cui ho iniziato a studiare il pensiero di John Milbank, da domenicano, quindi da discepolo di san Tommaso d’Aquino, da aspirante teologo, e l’importanza della riflessione di Milbank per il panorama italiano. Procedo dall’ultima cosa che ha detto lei riguardo a perché un teologo come Milbank, che si occupa di politica, di etica, di questioni molto engagée, ha scritto un libro su De Lubac, sul tema estremamente teologico, teoreticamente intenso, del rapporto tra Grazia e natura. Semplicemente perché, se non ci fosse questa visione lubachiana che va a superare l’estrinsecismo, noi da cristiani dovremmo considerare la politica e la società come entità con le loro leggi, a cui, al limite, si potrebbe aggiungere, come la ciliegina sulla torta, quello che la rivelazione ci dice. E questo non è pensabile da un punto di vista radicalmente cristiano. Uno dei motivi che mi ha spinto a proporre Milbank, a studiare Milbank, è questa sua polemica estremamente witty, come dicono gli inglesi, arguta, nei confronti di una teologia falsamente umile, la teologia falsamente umile della modernità che dice: sì, io vi propongo il Vangelo, vi propongo Cristo, il Dio fatto uomo, la Grazia come partecipazione alla natura divina, ma non è che ci creda poi molto, eh! Possiamo andare d’accordo, insomma, col mondo secolare, che si è rinchiuso in una concezione di natura autoreferenziale e autonoma, con le proprie leggi che sì, forse sono state iniziate da Dio, ma con le quali poi Dio, e il fatto soprattutto dell’incarnazione, hanno poco a che fare. Ecco, la proposta di Milbank, a mio parere, va a smascherare l’intrinseca debolezza, il pensiero autenticamente debole di una modernità che rinuncia, per una falsa umiltà, alla sfida del Vangelo, la fa propria e ne delinea le conseguenze. Le conseguenze sono quelle che diceva molto bene il professor don Bellandi, riguardo alla comprensione della realtà a partire dalla Grazia e in visione della Grazia divina, della realtà in ogni campo, non vi è campo che non sia toccato dall’evento dell’incarnazione, dalle sue conseguenze. Proprio per questo, si potrebbe vedere il libro che vi propongo, sostanzialmente, come un corollario al tema del Meeting di quest’anno, Emergenza uomo. “Emergenza uomo” significa: attenzione, pericolo, l’uomo è in pericolo. Ma “Emergenza uomo” significa anche, secondo la prospettiva che indicava il professor Magatti prima, uno sguardo che si protende verso l’avvenire, verso il XXI secolo che è iniziato, l’emergere dell’uomo, l’emergenza, l’atto di emergere dell’uomo. Questo testo prende atto della morte di Dio proclamata da Nietzsche, e della conseguente morte dell’uomo riconosciuta da Foucault, e dice: “Signori, perché l’uomo riemerga, occorre tornare a quel paradosso singolare che è inscritto in un’espressione di san Tommaso d’Aquino rilanciata da De Lubac, nel ’46, nel libro Surnaturel, contenuta in un’espressione appunto paradossale: “il desiderio naturale di vedere Dio al centro del cuore dell’uomo”. L’uomo è questo paradosso. Chesterton, in una frase tratta da L’uomo eterno, che appongo come epigrafe della mia Presentazione, dice: “Non è naturale considerare l’uomo come cosa naturale”. Ecco, l’uomo emerge qui, quando viene posto in essere dalla Grazia, cioè dall’intimo della natura divina, a Sua immagine e somiglianza, ed è chiamato ad essere, come dicono i padri greci, divinizzato, ad essere reso partecipe della natura divina; non solo nell’intimo della propria coscienza devota e pia, ma in ogni azione. Quindi, un’opera di divinizzazione nella politica, nella società, nell’arte, nella cultura, proprio perché l’uomo è aperto alla cultura, è aperto all’arte e proprio in questo, segno del suo essere aperto alla Grazia divina. Una realtà cristiana basilare, fondamentale: “Dio s’è fatto uomo perché l’uomo possa partecipare alla natura divina”, Sant’Atanasio. Nulla di nuovo, è un ressourcement, un tornare alle fonti, alle origini, ma in una maniera convincente per la situazione culturale odierna, molto convincente e molto radicale. A questo punto, volevo mettere in luce due questioni, molto brevemente. La prima riguarda questo rapporto tra il Vangelo e il cristianesimo, che l’opera di De Lubac, riletta autorevolmente da John Milbank, mette in luce. Dice Milbank, con una frase che è di una capacità sintetica inenarrabile: “Il cristianesimo è un umanesimo, altrimenti viene frainteso: ne va della realtà dell’incarnazione. L’umanesimo secolare, d’altronde, è l’antitesi assoluta del Vangelo”. Vedete la forma paradossale, dinamica? Il cristianesimo è un umanesimo, l’umanesimo del Cristo. E l’umanesimo secolare, figlio di una bad theology, dice il professor Milbank, di una cattiva teologia, ne è l’antitesi assoluta. Quindi, l’antitesi del Vangelo non va cercata fuori ma in quello che la cultura occidentale ha prodotto. Grande sollecitazione a una revisione critica del nostro orizzonte culturale. E infine, appunto, la grande convinzione con la quale Milbank propone in questo libro il fatto che non è la divinizzazione causa della creazione, cioè non è che il Signore ci chiama a partecipare della Sua vita perché ci ha creato, ma ci crea per chiamarci a partecipare della sua vita. E questo, ancora una volta, è un ribaltamento paradossale, che però dice la realtà dell’essere creati in Cristo, come dice Giovanni e come dice Paolo. Per cui, è un ritorno che ci permette di leggere la realtà in modo integralmente cristiano. Un ultimo accenno, perché il tempo corre, al titolo. Il titolo in inglese è Suspended middle, il medio sospeso: è una citazione letterale dalla traduzione in inglese di un’opera su De Lubac di Hans Urs von Balthasar. La traduzione italiana stava male, l’abbiamo tenuta all’interno del testo ma per il titolo abbiamo scelto un’altra versione, Il fulcro. Perché il fulcro ha questa capacità, non solo di dire qualcosa che non è né filosofico né teologico, ma il discorso nuovo del Vangelo, il discorso nuovo che proviene dall’evento dell’incarnazione. Ma è anche capace, come fulcro, di permettere un dissodamento dell’attuale situazione culturale ancora divisa, come dice la Fides et ratio, drammaticamente divisa tra una filosofia, scienze umane che difendono la loro autonomia, dimenticando anche di essere state create, e una fede che è per chi vuole, per chi ha deciso così, quasi una sorta di innamoramento che, va beh, ti è capitato, mi spiace per te. Una volta, a un mio professore di università, ho detto: “Guardi, ho deciso di entrare nell’ordine domenicano”. Mi ha guardato come a dire: “Mi dispiace”. Se avessi detto che era morta mia mamma, forse il suo sguardo sarebbe stato meno tragico: questa è un po’ la visione. Questa separazione, che è tutta interna all’Occidente, ha le sue ragioni, che in altre opere il professor Milbank esplora, che vengono dissodate e aperte ad un discorso nuovo che qui viene chiamato “non ontologia”, con una parola un po’ difficile, ma che lancia il sasso avanti: non è un teologo che si ferma ai vecchi dibattimenti, nonostante proceda da essi e da una sottile analisi della storia e dei problemi, tutta interna alle vicende, in questo caso, di san Tommaso e della sua interpretazione. Qui le accenno solo perché il tempo non mi consente di spiegarvele, ma sono ben attestate dal libro, quindi vi invito caldamente a leggerlo. Concludo su questo tema: il libro su De Lubac, scritto da John Milbank, è un aiuto estremamente valido per chi vuole pensare. Il professor Bontadini, professore di Filosofia all’Università Cattolica, diceva: “Il cattolico in quanto cattolico deve pensare di più”. Quindi, anche se non sotto l’ombrellone ma in casa, comodamente seduti, vi invito a leggere questo testo, centellinando pagina dopo pagina, proprio come esercizio del pensiero che si lascia illuminare dalla parola, dalla Grazia di Dio. Con san Tommaso, che è qui indicato, ancora oggi, al di là delle varie interpretazioni, come un pensatore radicale, un pensatore che si spinge veramente avanti perché va al nucleo del problema, ed è un problema, una questione che ha il sapore dell’eternità, e quindi non passa mai di moda. Ebbene, il punto è questo: l’umanesimo cristiano. Cosa vuol dire oggi proporre una civiltà cristiana che sappia dare contorni ispirati al Vangelo alla società, all’arte, alla cultura, nella consapevolezza che quest’azione non va né ad aggiungersi come la ciliegina sulla torta, né a stravolgere l’intima struttura della società, del convivere insieme, della natura stessa, perché è posta in essere per raccogliere quel dono? Il dono può essere rifiutato ma, concludo, la natura, la società, la storia sono posti in essere per raccogliere quel dono. Grazie.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie, padre Marco, più che aspirante teologo. Una volta capito che Il fulcro sospeso è quello dell’ombrellone delle spiagge libere che io frequento… Adesso sentiamo John.
JOHN MILBANK:
Grazie, grazie tante. Vorrei ringraziare moltissimo per le bellissime presentazioni che mi sono state fatte dai due relatori che mi hanno preceduto, e vorrei ringraziare padre Salvioli e i suoi collaboratori per l’eccellente traduzione di questo mio piccolo libro in italiano. La copertina del libro vi dice che dovreste leggerlo in una notte, forse è meglio leggerlo in casa e non sulla spiaggia. Vorrei dire qualcosa di importante riguardo all’edizione italiana che, fra l’altro, è più lunga di quanto non fosse l’edizione inglese, perché De Lubac, nel frattempo, tra l’edizione inglese e l’edizione italiana, è diventato di nuovo oggetto di controversie tale per cui, nell’edizione rivista in italiano, ho voluto anche tenere in considerazione tutte le nuove discussioni che sono emerse, con particolare riferimento a quello che è emerso negli Stati Uniti, in cui sembra si promuova la nascita di un nuovo neoscolasticismo, che si concentra ancora sulla dualità tra natura e Grazia. Per me è un particolare piacere presentare questa edizione al Meeting, perché si è già detto che lo spirito di De Lubac è proprio lo spirito di don Giussani, e penso che Comunione e Liberazione cerchi di realizzare in pratica la visione di un umanesimo integrale che sia orientato verso il sovrannaturale, includendo ogni aspetto di natura e di vita verso questa visione. Adesso il tempo è pochissimo: sono tre le considerazioni che mi limiterò a fare. Intanto, volevo far riferimento al rapporto tra natura e Grazia che rappresenta l’oggetto della controversia più importante nel pensiero cattolico moderno. Si tratta di una problematica estremamente complessa. Penso che, da una parte, dobbiamo dire che il cristianesimo è riuscito a raggiungere un risultato importante, liberando il regno delle cose naturali, l’ambito naturale, rendendo quindi la politica, l’arte e il cosmo secolari. Questo significa che noi non adoriamo più le forze naturali o lo Stato o immagini realizzate dagli essere umani. E però, il problema sta nel fatto che il neo-scolasticismo fraintende, non capisce appieno quanto è successo. Quindi, secolarizzare qualche cosa non significa togliere il fascino. Significa piuttosto che ci rendiamo conto che l’arte, la politica e le conoscenze sono opera della libertà dell’uomo. La libertà umana vera vuole comunque che la società, l’arte, la natura siano orientate a Dio, e non solo ai fatti razionali dell’esistenza divina, ma misteriosamente anche all’unione tra il cosmo e Dio, attraverso lo spirito degli angeli e degli esseri umani. In modo tale che secolarizzare, e questo è un paradosso, vuol dire garantire ancora più incanto alla realtà, vuol dire che abbiamo capito che la cristianità ci dà un’ontologia dell’amore. Il paradosso che sta al cuore del pensiero di De Lubac è che ciò che, secondo lui, è essenziale per l’essere umano, essenziale per lo spirito umano, è anche essenziale per il cosmo, perché non esiste cosmo senza spirito. Ciò che è essenziale per lo spirito è qualcosa che apparentemente non è essenziale, qualcosa che sembra semplicemente un dono. E quindi, la gratuità, l’extra, ciò che viene aggiunto, ciò che è in più, in realtà alla fine poi risulta essere più essenziale di ciò che è essenziale, di ciò che è fondamentale. Questo pensiero viene considerato come incoerente dai neoscolastici, ma in realtà fa solo dire che la realtà va persa, che la realtà è amore e, se Dio è amore, allora diventa ancora più che necessario. Ha quindi inserito, trasmesso amore nella struttura della creazione, come ci ha insegnato anche san Tommaso: l’essere è un dono attraverso il quale l’essenza esiste, che rende quindi viva l’essenza. Essere è un dono più necessario del necessario. La seconda considerazione che volevo fare: come diceva Chesterton, “gli esseri umani sono i più deboli fra tutti gli animali”, non riusciremmo a sopravvivere senza una società, senza la cultura, senza la tecnologia. Ma questo, in realtà, sta alla base della nostra natura divina, l’arte è qualche cosa che viene aggiunto, però è anche essenziale. San Tommaso trova spesso un’analogia tra arte, cultura e il resto. Gli esseri umani vengono completati dall’arte di Dio, che è la Grazia; Dio trasmette l’arte a un artista e all’essere umano nel guidarli verso una visione beatifica. C’è un’ultima cosa che volevo dire, poi concluderò, ed è che l’illusione in base alla quale gli esseri umani pensano di potersi autogovernare, l’illusione secondo la quale ci può essere un ordine naturale che non è mirante al supernaturale, questa illusione non viene prodotta dagli atei o dai nichilisti ma piuttosto dalla teologia pietistica sbagliata che immagina che io, difendendo la natura pura, difendo la gratuità del dono divino. Invece questo corrisponde a negare che la gratuità costituisca, viceversa, la realtà più vera. E il risultato della natura pura è che abbiamo perso la nozione dell’aspetto teleologico della società. Perché la natura pura cristiana è peggio della natura pagana, che comunque fa riferimento a un cosmo sacro. Invece, la pura natura diventa in pratica la dimensione autogovernantesi e il liberalismo è il figlio del neoscolasticismo. Il motivo per cui le persone si descrivono quali conservatori, facendo un errore, nell’ordine domenicano americano, in particolare, la ragione per cui vogliono ripristinare un approccio neoscolastico, è per poter diventare liberali americani e sostenere un ordine che sia così però in contraddizione con l’insegnamento sociale. Alla fine, non sono dei conservatori ma sono in realtà molto moderni. E questo tradisce anche l’intellettualismo di san Tommaso, perché si esalta la volontà, così come qualcosa che sta al centro della pura natura. Allo stesso modo, se pensiamo alla Grazia divina come a un valore arbitrario, che non viene dato, allora è qualche cosa che non è essenziale alla struttura dello spirito dell’uomo, anche se è libero. E quindi, si pensa a Dio in termini sovravolontaristici, ed è per questo che ho cercato di dimostrare nel mio libro che in realtà san Tommaso, anche più di altri, crede nell’unità tra natura e Grazia, e all’idea che ci possa essere solo una fine naturale, se è effettivamente orientata alla fine sovrannaturale. Se vogliamo salvare veramente l’umanità, allora dobbiamo vivere secondo la prospettiva radicale ma genuinamente ortodossa del Cardinale Henri De Lubac.
CAMILLO FORNASIERI:
Bello, molto bello, interessanti anche tutte le implicazioni che John ha solamente abbozzato. Abbiamo ricevuto dei grandi contributi, sapremo farci portavoce e lettori di questo splendido contributo che nasce da un lavoro di riflessione ed esperienza che Milbank tra di noi sta seminando. Grazie, grazie ancora, grazie allo Studio Domenicano.
Trascrizione non rivista dai relatori