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POVERTÀ SANITARIA: ESPERIENZE INTERNAZIONALI A CONFRONTO
Partecipano: Anthony Dunnett, Presidente di International Health Partner; Paolo Gradnik, Presidente del Banco Farmaceutico; Enrique Hausermann, Presidente di Assogenerici; Francesco Marsico, Vice Direttore di Caritas Italiana. Introduce Massimo Ferlini, Vice Presidente della Compagnia delle Opere.
POVERTÀ SANITARIA: ESPERIENZE INTERNAZIONALI A CONFRONTO
Ore: 19.00 Sala Mimosa B6
Partecipano: Anthony Dunnett, Presidente di International Health Partner; Paolo Gradnik, Presidente del Banco Farmaceutico; Enrique Hausermann, Presidente di Assogenerici; Francesco Marsico, Vice Direttore di Caritas Italiana. Introduce Massimo Ferlini, Vice Presidente della Compagnia delle Opere.
MASSIMO FERLINI:
Buona sera a tutti, do l’avvio al dibattito su Povertà sanitaria: esperienze internazionali a confronto, e ringrazio per la loro partecipazione Anthony Dunnett, Presidente della International Health Partner; Paolo Gradnik, Presidente del Banco Farmaceutico; Enrique Hausermann, Presidente di Assogenerici; Francesco Marsico, Vicedirettore della Caritas italiana. Grazie a tutti voi per la partecipazione a questa serata. Vi dico subito che l’obiettivo è riuscire a fare due giri di interventi per tutti i relatori, senza prendere per fame chi è venuto a seguire questo nostro incontro. Parto subito dicendo che ho chiesto a tutti i relatori di partire da un punto: siamo a confronto con una crescita della povertà sanitaria, di questa nuova fascia di povertà che abbiamo misurato e su cui abbiamo lavorato nel corso degli ultimi periodi. E’ una delle povertà con cui ci si è incontrati o che ha incontrato chi, mosso da quello spirito che consiste nel restituire ad altri quello che ciascuno di noi è cosciente di aver ricevuto, ci ha messo in moto a incontrare i bisogni della gente. Il Banco Farmaceutico, per partire dall’esempio italiano, nasce da un incontro, non da una teoria, tra amici della CdO di Milano e l’associazione Farmacisti della città. Perché questo incontro? Che cosa l’ha scatenato? Noi giravamo già incontrando la povertà, portando il pacco di pasta, portando la solidarietà e l’amicizia nelle case. E ogni tanto, sempre più spesso, sorgeva la domanda: “Il bambino ha la febbre e io non ho i soldi per comprargli la Tachipirina”. Però, mentre fare un magazzino con i pacchi della pasta o con il latte in polvere era semplice, fattibile da ciascuno di noi, manovrare un farmaco, come forse sapete, è vietato al cittadino normale: può farlo solo chi è abilitato a gestire il farmaco, a conservarlo, a verificare che venga utilizzato male. Quindi, aldilà della mossa personale di carità, per cui qualcuno portava la Tachipirina a chi ne aveva bisogno, non si riusciva a mettere in moto la capacità collettiva di rispondere a questo bisogno che sembrava crescente. L’incontro con i farmacisti milanesi nasce dal fatto che il Comune di Milano, a un certo punto, decide di privatizzare le farmacie e la CdO di Milano, baldanzosamente, si schiera a favore dei farmacisti milanesi dicendo: “Perché cercare qualcuno che venga a gestire le farmacie, se sono più bravi quelli che già lavorano sul territorio? Partiamo da questa preferenza, poi si confrontino i prezzi”. Così siamo entrati in rapporto con l’associazione Farmacisti: mentre discutiamo delle questioni della città, chiediamo se vogliono aiutarci a gestire la colletta delle Tachipirine e delle tante cose che possono servire alle famiglie bisognose, da aggiungere al pacco di pasta. Da lì nasce il Banco Farmaceutico, da questo incontro e da questa voglia di entrambi di dare vita alla cosa. A quel punto abbiamo anche preso coscienza che la questione non era poi così banale, che la povertà sanitaria è fatta di tanti enti: consultori, centri di incontro, ecc. per i tanti che non hanno accesso ai servizi sanitari. Tutti noi in Europa diamo per scontato che, se c’è un bisogno di salute, ci pensa lo Stato. E dentro a questa idea, diamo tutti per scontato, tendiamo a non vedere quanti medici invece del Pronto Soccorso, di strada, sotto i ponti, nelle parrocchie, assistono i poveri che magari non hanno accesso al servizio sanitario e che hanno quindi un bisogno in più. Il Banco oggi assiste chi ha bisogno e assicura una risposta quotidiana e costante, quindi è cresciuto. Però la coscienza di come, anche nel welfare sanitario, che tradizionalmente è quello in cui lo Stato gioca il ruolo fondamentale, ci sia spazio e domanda di sussidiarietà, era crescente e ci ha messo in moto nel costruire un rapporto con l’industria privata, quella dei farmaci, che si è schierata e ci ha dato una mano via via crescente, fino a dove la legge lo consente, fino a dove lo consentono le capacità e le possibilità di gestire eventuali interventi assieme, per eliminare lo spreco, che talvolta c’è, nascosto anche nelle regole di questo mondo. Questa nostra storia parte da qui e affonda le sue radici in quella coscienza che dicevamo: abbiamo un di più da restituire agli altri. Sono pronto a impostare la discussione di stasera proprio a partire dal raccontare la ragione per cui facciamo quello che facciamo, chiedendo a tutti di dire come questa realtà li tocchi direttamente e personalmente. Do la parola per primo al Vicedirettore della Caritas italiana, che è la madre di tutti noi, non semplicemente un ospite: si chiama esperienza e si chiama confronto. Per questo, ha il quadro più generale di quanto si muove in questa realtà e in questo mondo. In secondo luogo, chiederò a tutti di dire come la povertà sanitaria ci chieda di organizzare la risposta ai bisogni che abbiamo incontrato e che ci mettono in moto. Apriamo allora questo confronto fra amici dando la parola a Francesco Marisco, Vicedirettore della Caritas italiana.
FRANCESCO MARISCO:
Buonasera a tutti e grazie al Meeting e alle parole di Massimo Ferlini, che mi mettono ancora in imbarazzo. Per l’ansia da prestazione di essere stato invitato per la prima volta al Meeting, ho preparato una marea di slide che non farò vedere, quindi dovrò manovrarle rapidamente perché è necessario dare alcuni dati. Massimo ha detto che sapete cos’è la Caritas italiana, però voglio almeno dire che la Caritas italiana è l’organismo che la Chiesa ha messo a strumento pastorale di collegamento e di stimolo, a livello nazionale, per le diocesi italiane, perché la testimonianza della carità nel nostro Paese e a livello internazionale, nelle emergenze, possa essere concreta ed effettiva. A partire da questo ruolo dell’organismo che rappresento, noi abbiamo una prospettiva di carattere generale su questi fenomeni. Peraltro, la Caritas italiana, assieme all’istituto degli organismi socio-assistenziali, fa ogni dieci anni un censimento delle opere socio- assistenziali-sanitarie. L’ultimo censimento del 2010 può aiutarci a capire cos’è stato l’impegno dei cristiani in Italia sul tema della salute e del socio-assistenziale, che è quello che mette in relazione il tema della povertà e della salute. Vi faccio vedere un dato per ricordare che il contesto dell’emergenza uomo, all’interno della circostanza della crisi, è davvero drammatico. Il dato di povertà assoluta, che l’istituito internazionale di statistica dà, dice che la povertà assoluta dal 2009, anno in cui è ripresa la stima di questo dato della povertà assoluta – quelli che non riescono ad accedere a un paniere di beni minimo, essenziale alla vita delle persone, quelli che stanno al di sotto del minimo assoluto normale per una famiglia italiana – è cresciuto in termini aggregati, a livello nazionale, dal 4,7 al 6,8, cioè del 70%. Sappiamo che ci sono determinanti sociali sulla salute: il fatto che una persona sia disoccupata, senza reddito, con difficoltà o soltanto sottoposta allo stress di un lavoro precario, incide oggettivamente: non lo diciamo noi operatori pastorali ma lo dicono gli approcci che in Italia sono stati portati avanti su questo tema. E’ un dato non irrilevante rispetto alla nostra riflessione, non soltanto per gli aspetti reddituali: queste persone hanno meno reddito e quindi sono costrette a fare delle scelte, nella loro vita ordinaria. Potrebbero avere la necessità di garantire le bollette, oppure l’affitto, l’alimentazione, e chiaramente, com’è noto, tagliano su altri costi. Il dato ci interessa, anzitutto per una considerazione banalmente economica, poi per gli effetti che la condizione di precarietà porta alle condizioni di salute. Queste persone non soltanto potranno curarsi di meno, o si curano meno, ma sono sottoposti a rischi maggiori di salute perché le loro condizioni di stress soggettivo – parlo ovviamente dei genitori in ambascia per la loro condizione di precarietà e disoccupazione, ma anche dei figli – peggiorano. La crisi incide almeno su due profili, sulla salute di questo Paese. I servizi che la comunità cristiana offre al nostro Paese sono 14.246, secondo il dato 2010, di cui 916 sanitari, con 137.000 operatori e 280.000 volontari. Cosa esprimono, in termini di interventi socio-sanitari, le nostre comunità? Una sussidiarietà capace di esprimere servizi sanitari tradizionali (trasporto malati, riabilitativi, disabilità), ad alto tasso di mobilitazione volontaria – pensate alla donazione del sangue, che chiaramente sviluppa una solidarietà di popolo, perché altrimenti non è efficace -, capacità di dare risposte alle questioni emergenti. Pensiamo al tema delle dipendenze, della salute mentale, dell’AIDS, della medicina per le migrazioni. Se andiamo a vedere nello specifico, queste realtà sono sanitarie al 6,4%, socio-sanitarie e socio-residenziali al 32%, socio-sanitarie e sociale non residenziale al 62%. Però la slide più interessante, quella che dice di questo senso della presenza, è un’altra. Se andate a guardare, ad esempio, i servizi ambulatoriali, vedete che c’è una crescita significativa a partire da metà, fine anni ’80, che si intensifica negli anni ’90. Corrisponde al fenomeno dell’immigrazione: gli immigrati che arrivavano senza una legislazione di riferimento – fino alla legge Martelli, perché la Iervolino fu abbastanza generica – hanno avuto una risposta per la loro salute. Quando parliamo dell’immigrazione anni ’80, parliamo di persone provenienti soprattutto dall’Eritrea: ricordo il dramma della guerra e le sofferenze dei profughi, dei rifugiati. Hanno avuto una risposta dai servizi che le comunità cristiane, non solo le Caritas, esprimevano nei territori. Se guardate ai servizi residenziali per le persone affette da disturbi mentali o da sostanze, vedete la crescita che si sviluppa a partire dagli anni ’80. Perché vi dico cose che conoscete? Perché dobbiamo riprendere a ragionare in termini aggregati: questa è la sussidiarietà, la capacità di mobilitazione delle comunità cristiane e territoriali rispetto a fenomeni nuovi: lo straordinario di queste esperienze è che le risposte sono state quasi immediate rispetto ai fenomeni. Di fronte alla richiesta di qualcuno che ti chiede una mano, c’è la risposta di comunità che si interrogano: “Cosa posso fare rispetto a quel bisogno?”. Questo non significa che sempre, nella storia di queste realtà, ci sia stata una risposta immediatamente appropriata, ma di sicuro la domanda era appropriata: cosa possiamo fare per metterci accanto alle persone che sono in condizioni di bisogno, di difficoltà, di carenza di risposte? E lo stesso dicasi, ultima riga prima del totale, sul tema dell’assistenza residenziale per i malati di AIDS, questo picco che inizia negli anni ’90 fino al ’99, dice che i servizi residenziali espressi dalle comunità cristiane si aggiravano sul 61%. Non lo dico non in termini laudativi, ma se facciamo una riflessione non astratta e culturale sul tema della sussidiarietà, dobbiamo partire da questo. Se è vero che la salute è la risultante di una responsabilità di cura complessiva della persona, che passa attraverso il suo livello di studio, la sua capacità di ingresso nel lavoro, la sua capacità di avere una vita sociale significativa, relazionalmente piena, ovviamente anche legata al reddito, possiamo immaginare una risposta di salute che sia legata a un intervento non comunitario ma esclusivo della mano pubblica? E’ una domanda, su questo non faccio teoria: la risposta che i dati danno, dice di una comunità cristiana che, con tutte le sue ambivalenze, le difficoltà che sicuramente conosciamo a livello territoriale, esprime questo: non la perfezione, non l’appropriatezza assoluta ma la capacità di mettersi in ascolto e dare risposte. A questo punto, dico soltanto una battuta su quello che fanno le Caritas perché se no, se ci fosse qualcuno in sala della mia rete, all’uscita mi prenderebbe a male parole. Le Caritas, ovviamente, non fanno tutto, hanno tentato di dare risposte alle emergenze più gravi, il tema dell’immigrazione, delle povertà estreme. Ma negli ultimi anni si è evidentemente aggiunto l’accompagnamento delle famiglie: si è partiti con le famiglie di malati con problemi mentali ma per la maggior parte si tratta di dare sollievo ai gravi carichi di cura delle famiglie di persone con disabilità, Alzheimer e quant’altro. Ma negli ultimi anni, e chiudo, è prevalente il tema dell’impoverimento delle famiglie, per cui è aumentato, dentro il novero delle richieste, anche questo dato specifico. Mi fermo qui e vi ringrazio per l’attenzione.
MASSIMO FERLINI:
Grazie a Francesco. Adesso do la parola ad Anthony Dunnett, Presidente di International Health Partner.
ANTHONY DUNNETT:
Grazie a tutti, grazie, Massimo. Sono così privilegiato per essere qui, devo solo scusarmi per il fatto che non vi parlerò direttamente ma attraverso le bellissime voci dei miei traduttori. E’ un grande privilegio anche poter parlare pubblicamente della mia fede: vedo volontari che vanno in giro chiedendomi di firmare una petizione, e sono contento di poterlo fare perché in Inghilterra non è così semplice parlare della fede e del perché uno fa quello che fa. Siamo troppo politicamente corretti, viva l’Italia! Perché sono qui? Dopo una vita nei settori pubblico e privato, negli ultimi dieci anni collaboriamo con i Governi, collaborando con persone diverse. Otto anni fa mi hanno chiamato per dare vita ad un’opera pia medica in Canada, dove ho vissuto per molto tempo. Era una richiesta che sentivo arrivare da Dio in maniera molto chiara: non si trattava tanto di tornare in Canada, che sarebbe stato semplice, ma di guardare all’Europa, dove non c’era nessuno che volesse mettere insieme medicine da utilizzare per gli abitanti del mondo in via di sviluppo. Non so quanti di voi siano coscienti di questo ma per più di cinquant’anni, negli Stati Uniti e in Canada, le donazioni mediche sono state un fatto vitale: ora è un affare da 5 miliardi di dollari l’anno, con una stretta relazione tra opere pie, Ong, Terzo Settore e industria. Comunque, quando guardo all’Europa, vedo che c’è battaglia tra Ong e industrie farmaceutiche, a partire dalla guerra dei Balcani. Le industrie farmaceutiche non sono angeli ma ci sono persone che vogliono aiutare e lavorare per supportare le necessità di chi non può avere accesso alle cure mediche. Nella sola Europa, si spendono tra i 300 e i 500 milioni di trattamenti con medicine di prima qualità, una cifra che cresce ogni anno. Ci sono grandi opportunità di lavorare assieme ma la questione è complessa. Mettere le medicine nelle mani sbagliate è come dare munizioni e proiettili in mano ai terroristi. Le medicine sono molto pericolose anche se, con le giuste partnership, possono portare grande salute e benefici. Health Partnership è stata fondata nove anni fa, siamo una piccola squadra nel Regno Unito, abbiamo visto Dio muoversi in modi miracolosi ed eccezionali. Noi lavoriamo con quattro diverse majors che ci sostengono, ognuna di loro parla una lingua diversa: l’industria non parla allo stesso modo dei politici, le Ong hanno un linguaggio ancora diverso. Arriviamo ai dottori, quei benedetti dottori che vogliono fare le loro cose alla loro maniera: in inglese abbiamo un detto per cui far lavorare insieme i medici è come curare insieme dei gatti. Posso dirlo perché tutti i miei figli sono medici, quanto ai miei dieci nipoti, non sono ancora grandi abbastanza. E’ bello vedere Dio che agisce. In otto anni, abbiamo avuto il privilegio di donare 120 milioni di euro di medicine offerte da 170 industrie in tutto il mondo, piccole e grandi. Nel Regno Unito, abbiamo ricevuto medicine da dieci diversi Paesi europei che ci hanno chiesto di avviare una partnership. Ne parlerò più tardi. Ma grazie al lavoro che abbiamo fatto insieme ad altri, 25 milioni di persone hanno ricevuto trattamenti in 92 Paesi. Questo è il risultato che si ottiene quando le persone ascoltano quello che Dio dice loro di fare e agiscono di conseguenza. Se ci fidiamo di noi stessi, cadiamo, se cerchiamo di lavorare con altri e abbiamo una motivazione forte, scopriamo l’opportunità di portare nuovi risultati. Ancora qualche minuto per parlare della questione più importante, la necessità di medicine nel mondo in via di sviluppo. Nel mondo di oggi, due miliardi di persone, un terzo della popolazione, una persona su tre, non ha accesso alle medicine più basilari che noi diamo per scontate: sicuramente nel vostro bagno avete del paracetamolo. Due milioni di persone non l’hanno. Non è solo una mancanza di medicine, è una mancanza di cure mediche, di pulizia dell’acqua, ma spesso le medicine possono fare la differenza. Un bambino su cinque, nell’Africa sub-sahariana, non vedrà il quinto compleanno. Quante persone conoscete che hanno perso un bambino nei primi cinque anni di vita? Forse una su centomila, in Italia. Ora, signore, ascoltate: una su dieci di voi, se foste nell’Africa sub-sahariana, morirebbe per le complicazioni sopraggiunte durante la gravidanza o il parto. E’ un fatto. Se foste in una zona disastrata o in una zona di guerra, uno su otto di voi morirebbe. Ora, in parte accade anche perché le donne africane possono partorire dieci o dodici bambini, e quindi la possibilità di morire cresce significativamente alta, ma questi fatti rattristano moltissimo.
Sono qui oggi per portarvi anche alcuni esempi di quello che ho visto. Non ho speso la mia vita volando intorno al mondo, non sarebbe stato un buon uso delle risorse: Health Partners vuole supportare quelli che fanno il lavoro migliore, non quelli che girano il mondo da turisti per scopi umanitari. Io non volo con i vostri soldi e le vostre donazioni, ma quando abbiamo iniziato, nel 2005, 2006, sono andato a incontrare tre Ministri della Salute, in Somalia, Etiopia, Sudan. Ho avuto lunghe discussioni con loro. Ho chiesto: “Qual è il vostro vero problema?”. Perché stanno accadendo anche cose belle: ad esempio, la Gates Foundation e molte grandi fondazioni internazionali stanno affrontando i grandi problemi globali con molte risorse. Molte opere pie, come la Caritas, stanno facendo un ottimo lavoro, incrementando i servizi in prima linea, per cui le donne possono avere l’assistenza medica di cui hanno bisogno nel partorire i loro figli. L’igiene dell’acqua migliora. Ma ciascuno di questi tre Ministri ha risposto: “Il nostro più grande problema è che non abbiamo le medicine di base e i meccanismi di distribuzione per la consegna di queste medicine”. Che vantaggio ho se le medicine arrivano ai porti e agli aeroporti, e non sono in grado di metterle in un magazzino che non abbia il tetto rotto, con personale che non sia scappato per trovare un lavoro migliore o che non sia andato in una Ong per avere uno stipendio più decente? Che vantaggio ho ad avere le medicine nel mio centro, se non ho dei camion per trasportarle nei poli sanitari, e devo trasportarle nello stesso camion che porta le angurie o le arachidi? Quindi, uno dei problemi maggiori è aumentare l’accesso alle medicine di base. In secondo luogo, trovare le medicine giuste per le malattie più comuni. Puoi essere in grado di affrontare l’AIDS, ma se non puoi aiutare chi ha mal di testa o altri problemi, stai risolvendo solo metà del problema. Si sta ampliando il gap tra povertà e salute, i Paesi ricchi migliorano, i Paesi poveri peggiorano. Due, le ragioni principali: nei Paesi poveri non possono attirare aiuti umanitari perché i fondi vanno solo ai Paesi in emergenza immediata o a quelli che possono provare di usare bene i soldi. Se sei appena uscito dal disastro, e hai un milione di persone nei campi, non puoi alzare la testa e non hai personale medico perché quelli che ci sono cercano salati più alti e tu non ottieni più soldi. Dobbiamo trovare una soluzione. Il secondo problema è il risultato di una cosa buona, una conseguenza inattesa: stiamo incoraggiando le società in via di sviluppo ad essere più responsabili, più trasparenti, ad attaccare la corruzione. Il problema è che abbiamo delle ONG protette e media che vogliono mostrare tutti i problemi: un giornalista che investiga, con dieci minuti di video può attaccare e distruggere quindici anni di buon lavoro, di costruzione della fiducia. Siamo poco responsabili. E’ ora di porsi il problema della responsabilità personale: dobbiamo congratularci con le persone che lavorano bene o lanciare pietre e sottolineare solo quello che va male? L’ultimo punto è la comunità di fede, rappresentata da persone che vogliono dare e servire più che essere serviti. I problemi più difficili arrivano da quelli che sono motivati dall’amore per gli altri, non dall’amore per la carriera o da un programma di Governo. Dobbiamo aiutare le persone a rispondere al loro cuore, usando le pratiche migliori per arrivare a un risultato comune. Grazie, Massimo, per i 30 secondi extra.
MASSIMO FERLINI:
Grazie, Anthony, adesso do la parola a Enrique Hausermann, Presidente di Assogenerici e anche Presidente di alcune delle società più importanti di ricerca per malattie specifiche. Rappresenta lo sguardo del privato in questo momento di crisi economica, in un’industria che è rilevante per l’aiuto e il sostegno, anche economico, a tutti noi.
ENRIQUE HAUSERMANN:
Grazie. Buonasera. Assogenerici è un’organizzazione industriale che rappresenta tutte le aziende che producono medicinali generici, i medicinali di cui, come sapete, è scaduto il brevetto. Troverete informazioni molto più esaurienti nella brochure, quindi non entro nei dettagli. Due cose, innanzitutto: come aziende e associazione, abbiamo sempre aderito alle iniziative del Banco Farmaceutico, perché riteniamo fondamentale che le aziende facciano il possibile per alleviare i problemi della salute di chi ha difficoltà ad accedere alle cure. Secondo me, e secondo noi, c’è un problema di fondo, relativo al fatto che il Banco Farmaceutico oggi fornisce – perché riceve, e quindi distribuisce – esclusivamente i farmaci da banco, cioè i farmaci che il paziente si deve pagare e che non sono prescritti. Il mercato dei farmaci da banco è il 20% di tutto il mondo farmaceutico italiano. Quindi, rimane l’80%, all’interno del quale c’è un’altra fascia importante, i farmaci cosiddetti di fascia “C”, per i quali occorre la prescrizione medica e che il paziente deve pagare. E’ un altro problema che dovrebbe essere risolto. Analogamente, coloro che hanno difficoltà ad accedere al servizio sanitario nazionale, devono pagare i farmaci totalmente rimborsati. Dovremmo trovare, con le autorità e in particolare con l’Aifa, un sistema per cui i farmaci da prescrizione possano accedere in qualche modo al sistema del Banco Farmaceutico, in modo tale che tutti coloro che hanno difficoltà ad accedere all’acquisto, possono ricevere ugualmente i farmaci attraverso le donazioni, le offerte, il contributo delle aziende farmaceutiche. Perché la disponibilità delle aziende farmaceutiche è stata dimostrata negli anni, però è circoscritta a una parte estremamente limitata, al 20% del fabbisogno. Non sono problemi facili, perché la legislazione in campo farmaceutico è estremamente rigida, e così dev’essere. Però ritengo che si dovrebbe trovare un meccanismo di distribuzione per cui l’azienda farmaceutica X dice al Banco Farmaceutico di veicolare certi farmaci cui i pazienti possano accedere. Evidentemente, ci dovrà essere un controllo medico per la distribuzione, come accade nelle organizzazioni, laiche o religiose, di volontariato, dove le aziende farmaceutiche che donano il farmaco prendono in carico un medico che ne autorizza la distribuzione a chi ne ha bisogno. Però anche lì siamo un po’ borderline, la situazione non è perfettamente regolamentata. E’ un impegno che prendo, come Assogenerici, per parlare con il Banco Farmaceutico e con l’Aifa e cercare di sbloccare la situazione. Perché la disponibilità c’è e ogni anno si buttano via tanti farmaci. Voi non avete idea di quante scatole si buttano via soltanto perché si deve cambiare il foglietto illustrativo, perché magari sono cambiate le norme o bisogna dare nuove indicazioni. E queste scatole si buttano, milioni di euro che si buttano all’anno, è un delitto buttare via tutto questo ben di Dio. Ora, sempre nell’ambito dei generici e sempre riallacciandomi al problema che affligge da tre, quattro anni, questo Paese e la maggior parte dei Paesi d’Europa, c’è la questione di quanto il cittadino italiano va a spendere. Il dato CENSIS del 2012 dice che gli italiani hanno speso 870 milioni di euro per pagare la differenza che c’è tra il costo, il prezzo del prodotto rimborsato dal servizio nazionale e il prezzo del prodotto di marca. Cosa vuol dire? Se io vado a prendere il generico, per il 99% dei casi non pago nulla, a parte il ticket: è una decisione politico-economica regionale. D’altra parte, so che c’è una differenza di prezzo tra il generico e il prodotto di marca. E’ una cifra improntate, sono 870 milioni che, divisi per 60, corrispondono a 17 euro circa a testa, dal neonato all’ultracentenario. E’ una campagna che noi, come Assogenerici, stiamo promuovendo: devo dire che le autorità sanitarie regionali ci stanno appoggiando e anche l’Aifa, perché cerchiamo di venire incontro alla popolazione che deve avere accesso a questo tipo di farmaci che, come sapete, sono totalmente equivalenti, hanno la stessa efficacia e sicurezza dei farmaci di marca. Tanto più che tutti questi prodotti che girano, sono commercializzati in Italia come in tutti i Paesi d’Europa, dove le quote di mercato sono decisamente più alte. E qui mi fermo, per quanto riguarda il Banco Farmaceutico: di materiale da discutere, da approfondire, ne abbiamo moltissimo. Volevo tornare a un problema globale: oggi, meno del 20% della popolazione mondiale consuma l’80% dei farmaci. E’ la popolazione afferente al Nord America, all’Europa, al Giappone. Il resto del mondo, Africa, America Latina, una parte dell’Asia e dell’Oceania, consuma il 20% dei farmaci che vengono prodotti nel mondo. E’ una situazione aberrante, anche se lentamente, in alcuni Paesi, sta migliorando, anche perché ci sono nazioni che avevano delle carenze pesanti e che oggi stanno incrementando la loro produzione, come l’India, per esempio, o la Cina, per cui il gap viene a ridursi. I prodotti generici si confermano in questo ambito una risorsa per i Paesi ricchi che sono alle prese con la necessità di ridurre la spesa, ma non si può dire lo stesso per i Paesi del sud del mondo, dove anche l’acquisto di un generico, quando fosse disponibile, può costare come un giorno di stipendio, per chi ha uno stipendio. L’accesso alle cure primarie non dovrebbe e non deve essere oggi più un problema, in quanto la quasi totalità dei farmaci afferenti alle patologie più diffuse e comuni sono scaduti di brevetto. Se andiamo a vedere la situazione di ciò che è scaduto di brevetto, vediamo che copre quella che al 90% viene definita “the primary care”. Quindi, rimangono patologie di nicchia ma il problema irrisolto è l’accesso alle cure che inevitabilmente portano a milioni di morti, soprattutto bambini, proprio per la difficoltà d’accesso al farmaco. Nel continente africano, poi, così come in vaste regioni asiatiche e in alcuni Paesi dell’America Latina, la maggior parte degli studi disponibili segnalano la presenza di tre grandi categorie di malattie che affliggono la popolazione: le malattie infettive, come la TBC o l’AIDS; le parassitarie, tra cui primeggia la malaria; il problema della carenza alimentare. Oggi la stragrande parte delle patologie può essere curata con farmaci scaduti di brevetto. Qual è il problema? Più che una questione politica, è una questione, come diceva Anthony poco fa, distributiva. Non è un problema economico o sostanzialmente economico, avere i farmaci disponibili: è farli arrivare al posto giusto da chi è capace di utilizzarli. Oggi nessuna organizzazione imprenditoriale, industriale, italiana o estera, può rifiutare aiuti in questo senso. Però il problema che abbiamo affrontato, che personalmente ho visto, è che i farmaci siamo riusciti a spedirli ma non siamo sicuri che siano arrivati a destinazione e utilizzati da chi era capace di utilizzarli. Anche lì c’è uno spreco, per non parlare di altri problemi che temo affliggano alcuni Paesi africani, dove i farmaci arrivano e poi scompaiono. Un altro dato che mi sembra interessante da considerare è l’indicatore che è stato sviluppato, elaborato alcuni anni fa dall’United Nations Development Programme, un indicatore di sviluppo umano che incrocia alcuni dati: il livello di salute, che è rappresentato dalla speranza di vita, il livello d’istruzione e il livello di reddito calcolato sul PIL. In sintesi, i numeri che scaturiscono sono impressionanti e ci dicono che la stragrande parte del mondo, in particolare l’Africa, è largamente al di sotto di questi indicatori di sviluppo. Ci sono pochi Paesi europei che hanno un indicatore di sviluppo sopra lo 0.9, ma la maggior parte dei Paesi africani hanno un indicatore di sviluppo sotto lo 0.3. Quindi, insisto sull’Africa perché ritengo che lì siano da concentrare le attività. L’India, secondo me, ne viene fuori. Per quanto riguarda l’Asia, i Paesi che ho visto per motivi professionali si stanno attrezzando e i problemi si risolveranno. In America Latina, è un problema locale e di organizzazione per tre Paesi, l’Ecuador, il Perù e la Bolivia. Il grosso problema è in Africa e lì bisogna fare qualcosa. La mia idea un po’ pazza è fare il Banco Farmaceutico per il continente Sub-Sahariano, se ci riusciamo. Grazie.
MASSIMO FERLINI:
Grazie, Enrique. Do ora adesso la parola a Paolo Gradnik, Presidente del Banco Farmaceutico.
PAOLO GRADNIK:
Grazie, Massimo. Tu ci hai provocato all’inizio, chiedendoci che cosa ci ha messo in moto, poi mi hai aiutato perché hai anticipato come il Banco Farmaceutico sia nato da un incontro non programmato. Vorrei completare questo discorso, partendo dal titolo del Meeting, Emergenza uomo. Nel commentare proprio questo titolo, l’altro ieri John Waters ha usato la felice perifrasi di Benedetto XVI, l’uomo chiuso in un bunker, eroso della sua soggettività, che viene ricostruito dal pensiero dominante, dal politically correct. Voglio raccontarvi come, rispetto al Banco Farmaceutico, io sono uscito dal bunker. Qual è il pensiero dominante in questo settore? Che il welfare, e in particolare la sanità, è un dovere dello Stato e nell’Unione Europea è garantito a tutti. Non è un problema mio. Lo pensavo anche io, come lo pensano tutti quelli con i quali parlo per la prima volta del Banco Farmaceutico, che siano politici o uomini d’azienda. Che bisogno c’è? Ma se non esistesse questo bisogno, come ci spieghiamo i dati che ci ha portato Caritas? Come ci spieghiamo che, negli ultimi sette anni, le persone che vanno a chiedere agli sportelli farmaci gratuiti, perché non si possono permettere di acquistarli, sono aumentate del 97% e, solo negli ultimi tre anni, del 57%? Come ci spieghiamo che già oggi in Italia, dai dati Istat 2012, il 20% di questa spesa per la cura della persona è pagato dai cittadini? Come ci spieghiamo che nella mia farmacia, nell’ultimo anno, la domanda più frequente di chi entra in farmacia e mi presenta una ricetta medica è: “Ma, dottore, quanto mi costa prendere questo farmaco?”. Qui davanti vedo un collega che annuisce, non è solo nella mia farmacia. La verità è che nessuno Stato ce la può fare da solo a mantenere la promessa di dare tutta la sanità a tutti, e non solo in Italia, in tutta l’Unione Europea, nonostante l’Unione Europea spenda per il proprio welfare il 58% dalla spesa mondiale del welfare, sull’8% della popolazione mondiale. Per cui, in un’Europa che spende moltissimo per il proprio welfare, per assicurare questa promessa di cui parlavo, è proprio il pensiero dominante che ci chiude gli occhi. Allora apriamo gli occhi, prendiamo coscienza che questo non è vero oggi e sarà sempre meno vero in futuro, perché il trend demografico aumenta: negli ultimi anni di vita si consuma l’80% dei medicinali consumati durante tutta la vita. L’evoluzione terapeutica porta cure sempre più efficaci ma anche più costose (certo, c’è il comparto generico che può a contribuire a calmierare, ma non ce la fa). Comunque sia, la spesa farmaceutica ha una dinamica crescente e le finanze degli Stati, no. E non voglio parlare di chi addirittura immagina in futuro che l’ingegneria genetica ci darà una doppia sanità, una doppia aspettativa di vita: chi se lo può permettere, vivrà 200 anni e chi non se lo può permettere, continuerà a morire a 80. La seconda parte del mio ragionamento è questa verità scomoda che nessuno ama dire. Non ho particolari motivi per avere simpatia per l’ex premier Monti ma quando lui ha osato dire “State attenti, che forse questo sistema non ce lo potremo permettere”, è stato fucilato. Perché è estremamente scorretto dirlo. Però questa verità scomoda è proprio una verità, ragioniamoci anche con lo spirito di tutti noi che siamo qui al Meeting. Non è che questo assunto – “ci pensa lo Stato per tutti” – in realtà abbia allontanato dalla nostre coscienze la responsabilità di sentirci coinvolti nella salute della persona che ci sta accanto? Non è che ci ha allontano da questo valore primario di solidarietà? L’abbiamo rimosso? Perché intanto c’è un terzo che tutto sommato, col nostro cinismo, viviamo come estraneo rispetto a noi. Una terza persona: era proprio questa la riflessione del bunker, no? Io penso che questo sia successo e penso anche che dobbiamo prendiamo coscienza che la povertà sanitaria esiste, ed esiste senza dubbio in modo drammatico in Africa, ma anche dietro la porta del nostro vicino di casa. Allora, se prendiamo coscienza di questo, se andiamo incontro a questo bisogno che è accanto a noi, se andiamo incontro al fatto che esistono qui persone che non possono curarsi adeguatamente per via delle condizioni economiche e ci mettiamo in gioco su questo, in realtà abbiamo già imboccato un percorso positivo, non solo per il nostro senso della vita, ma abbiamo iniziato un percorso virtuoso per aiutare l’assunto del welfare così come è declinato nell’Unione Europea. Abbiamo imboccato una strada in cui, rotto il tabù che prevede che solo un estraneo, lo Stato, debba pensare a tutto e il resto non ci concerne, abbiamo creato le basi per creare un sistema in cui più attori contribuiscono a mantenere questa promessa, che rimane una promessa fondamentale. Uno di questi attori ritengo possa essere il Terzo Settore: Banco Farmaceutico mette la sua voce, ma ovviamente Caritas mette un paio di secchiate. E allora si spiega anche l’evoluzione del Banco, perché anche il Banco si confronta con un bisogno continuamente. Ci sono i farmaci da banco, e la gente li deve comprare: chi non ha i 5 euro per l’aspirina… facciamo qualcosa! Per cui, la giornata della raccolta e così via. Andando avanti, questo bisogno non era tutto lì: c’era quell’80% che bussava alla porta. Ecco che allora il Banco si è fatto carico e ha detto: cosa posso fare? E ha cominciato a lavorare di più con le aziende farmaceutiche, a cercare di capire quali strade potevano esserci per dare risposta anche oltre il farmaco da banco, al farmaco di fascia C, al farmaco che richiede ricetta medica. Oggi purtroppo dobbiamo aggiungere anche al farmaco mutuabile, che in certe condizioni non viene acquistato tramite il sistema sanitario, perché si rinuncia alla terapia. Poi ci siamo resi conto di una cosa, e questo è l’ultimo bisogno: che ragionare in termini italiani non bastava, perché se tu vuoi rapportarti e coinvolgere l’industria farmaceutica, le multinazionali, se vuoi ragionare in termini regolatori, devi avere comunque come minimo un respiro europeo. Ed ecco perché siamo particolarmente felici di avere qui con noi Anthony Dunnett, ma, ancora di più, di una costruzione che dà a questi tentativi di rispondere al bisogno un respiro europeo. Perché, chiudendosi in sé stessi, ci si rende conto di quanto si è limitati.
MASSIMO FERLINI:
Non ti ho dovuto neanche richiamare, bene. Siccome siamo stati nei tempi, parto velocemente, per il secondo giro, da questa osservazione finale di Paolo: so che tutto quello che noi progettiamo non è che un tentativo ironico di inglobare la realtà e di guidarla. Sono venute fuori due provocazioni molto importanti: assieme possiamo veramente porci l’obbiettivo di aumentare la responsabilità di tutti, quando ci muoviamo e maneggiamo il farmaco in modo tale da non farlo diventare una pallottola invece che un aiuto. Se siamo in grado di mettere in moto questo, a partire da quello che ognuno di noi fa, a partire dal suo lavoro quotidiano, possiamo veramente porci l’obbiettivo di rivederci fra due anni con un pacco farmaceutico che assieme siamo risusciti a realizzare per l’Africa sub-sahariana? Perché se questi sono gli obbiettivi, è una grandissima responsabilità poter collaborare e rimetterci in moto, sapendo che lo facciamo con ironia ma lo facciamo, incominciamo a mettere un passo dopo l’altro e poi vediamo i risultati. Ve lo giro come provocazione, proprio per ragionare su quanto assieme possiamo fare anche in questa fase. Prego, la parola a Francesco.
FRANCESCO MARISCO:
Arrivo subito alla tua domanda, ma debbo dire che tante sono le provocazioni. Il tema che Paolo poneva della responsabilità ritorna sul problema complessivo: la salute non è un settore, è la vita delle persone. E se la salute è un tema sicuramente pubblico, vuol dire che è un tema comunitario. Anch’io avevo il problema di dire perché ci occupiamo di salute. Come sapete, una famiglia di due persone che è sotto i 968 euro medi mensili è considerata relativamente povera, sono i dati dell’Istat. Le persone sicuramente povere sono il 5,2%, ma noi troviamo il 12% di persone relativamente povere e, sopra la soglia, un altro 6% di persone che hanno una piccola differenza di reddito rispetto a quella quota: 12+6, siamo al 18%, ancora un po’ sopra, arriviamo al 20%. Le famiglie sicuramente non povere sono l’80%. Si tratta delle famiglie povere, i working poor, famiglie che lavorano e sono in queste condizioni, che in molti casi non hanno esenzioni e debbono combattere per poter mandare i propri figli a scuola. Come sappiamo, la scuola dell’obbligo non è garantita, almeno per alcuni costi come la mensa scolastica, se la famiglia lavora. Questi sono i problemi, forse sembrano banalità ma sono le banalità della carne viva delle persone, che fanno delle scelte e tolgono alcune spese dal budget famigliare. Allora, quando Paolo Gradnik va a confrontarsi con qualche Assessore che chiede: “Ma a che serve il Banco Farmaceutico?”, io rispondo rapidamente, con due battute. La prima: noi stiamo collaborando con il Banco Alimentare perché, anche se il tema alimentare sembra una follia – come è possibile, in un Paese come il nostro, avere delle persone che non hanno da mangiare? -, il problema c’è: le persone hanno bisogno anche di un pacco di viveri, perché questo fa diminuire la loro spesa mensile e loro possono mettere quel poco di grano su altre spese. Una fase, quella di oggi, che probabilmente non sarà congiunturale ma strutturale, in cui il tema della sussidiarietà è fondamentale. C’è una bella frase di Salvatore Natoli che dice: “La vita di un individuo che soffre non ha il tempo delle riforme”. Significa che oggi dobbiamo dire, in tutti i settori, quello dei beni alimentari, dei beni farmaceutici e quant’altro, quali sono le forme di sollievo che garantiscono livelli di vita dignitosi a famiglie che oggi stanno vivendo condizioni di preoccupazione e di stress, e di prossima malattia. Questo è il primo dato. E su questo, abbiamo sentito tutti Giovannini che ci ha detto che il Governo – per quanto abbia anch’esso una salute piuttosto fragile in questo momento – ragionerà in termini di reddito minimo o di reddito di inserimento, a forme di contrasto alla povertà assoluta. Nel frattempo, dobbiamo garantire quello che è possibile. La provocazione di Hausermann è straordinaria, è un problema dell’Africa, anche le Caritas nazionali e diocesane sono coinvolte in progetti di cooperazione sul sistema della salute all’estero. E’ un tema affascinante perché, paradossalmente, tenta di dare una risposta strutturale, da un punto di vista sussidiario, a un tema come quello della risposta ad alcune malattie essenziali. Hai citato la malaria, una malattia che fa milioni di vittime all’anno e che avrebbe costi di contenimento assolutamente “irrisori” rispetto al 58% della spesa del welfare, la benedetta spesa dei Paesi europei. Sono prospettive sulle quali evidentemente do la disponibilità per una riflessione comune, così come, insieme al Banco Alimentare, abbiamo fatto una riflessione sulla battaglia degli aiuti alimentari in Italia perché, come saprete, dall’anno prossimo poterebbe non esserci il flusso di finanziamenti europei che hanno garantito un aiuto alimentare a 4 milioni di persone: la povertà assoluta in questo Paese è di 4 milioni e 117mila, sono dati del 2012. L’unico reddito minimo universalistico che questo Paese ha garantito è stato fatto verso la sussidiarietà, verso i beni alimentari. Mi fermo su questo per dire che davvero, in questo tempo, bisogna mettere da parte le differenze, le distanze, e capire quali sono i bisogni delle persone, la possibilità di risposte, immaginando – e su questo siamo disponibili – anche forme davvero anche un po’ folli: il Banco Farmaceutico per l’Africa non è una banalità, però di sicuro ci possono essere nel futuro comune, fatemi dire comunitario, cristiani che vogliono impegnarsi concretamente nella risposta ai bisogni delle persone. Grazie ancora.
MASSIMO FERLINI:
Grazie a Francesco, do la parola adesso ad Anthony Dunnett.
ANTHONY DUNNETT:
Grazie. Ho quattro punti in cinque minuti, starò nei tempi. Il primo è molto semplice. Siamo tutti consapevoli che non possiamo solo affidarci a un servizio pubblico: se vogliamo fare la differenza, dobbiamo avere un gran numero di investitori, includere più persone nella collaborazione, mettendo insieme il pubblico, il privato e il volontariato, imparando a comprendere il linguaggio di ciascuno. Molto facile a dirsi, più difficile a farsi. Il secondo punto riguarda qualcosa che ho detto prima, e i punti che sottolineavo sono validi per l’Italia come per i Paesi in via di sviluppo. E’ il nuovo modello di fiducia: dobbiamo avere un nuovo modello di comunicazione e mi riferisco ai media e alla loro responsabilità. Dobbiamo trovare nuovi modi di commentare, Paolo diceva che non capiamo il problema perché non viene comunicato. Dobbiamo essere saldi e fermi per trovare nuove soluzioni, sapendo che nuove soluzioni significano più rischi, e più rischi significa che qualcuno deve incominciare ad alzarsi e dare voce alle cose negative. Penso che una nuova fiducia reciproca, possa nascere anche con quelli che hanno il compito di riportare ciò che accade. Dobbiamo pregare per questo, solo un cambiamento nel cuore delle persone può cambiare l’attitudine dal cinismo alla speranza. Per il tempo che mi rimane, voglio parlare di altre due cose. A proposito di un nuovo modo di lavorare insieme, in partenariato, c’è una buona notizia: il Banco Farmaceutico per l’Africa è già stato pianificato per Natale, è già qualcosa in cui avere fede e per cui pregare. Abbiamo chiesto alla Commissione Europea di finanziare quello che si chiamerà, non Banco Farmaceutico ma “Scambio europeo di medicine”. Una nuova forma di collaborazione, con centinaia di aziende che lavorano legate insieme: speriamo e confidiamo che prima di Natale avremo il via per formalizzare quello che abbiamo fatto in altre parti del mondo negli ultimi 4, 5 anni. La possibilità di nuove forme di impegno c’è, ognuno deve imparare a parlare la lingua dell’altro. Ultima cosa, possiamo avere migliaia di proposte ma dobbiamo trovare nuovi modi di attrarre denaro non solo europeo, risorse che siano libere e non sottomesse a quelle migliaia di regole politicamente corrette alle quali bisogna obbedire in Europa. Una delle cose nuove cui stiamo pensando è attrarre investitori bancari che vogliono investire per 25 anni sulla parola. La mia parola è una garanzia, in un sistema di fiducia reciproca. Stiamo cercando nuove obbligazioni a doppio stato, Governo e cooperative: il denaro sarà principalmente un unico fondo per finanziare i progetti di cui abbiamo parlato. Famiglie, uffici, milioni di dollari e milioni di euro da investire in investimenti a basso rischio: cerchiamo filantropi che investano in fondi a basso rischio per scopi umanitari. La mia domanda a Paolo e agli altri colleghi è se possiamo avere la prima obbligazione mai creata per la filantropia della salute. La seconda: deve essere soltanto relativa ai bisogni italiani oppure è un modello che tutti possiamo copiare? Se abbiamo una banca italiana che investe a Londra, sono sicuro che vorrà proporre il suo investimento agli italiani, quelli benestanti e quelli poveri. Facciamo in modo che le persone benestanti aiutino quelle povere, nel nuovo modello che vede noi nel mezzo. Grazie.
MASSIMO FERLINI:
Grazie, Anthony. Do adesso la parola a Enrique.
ENRIQUE HAUSERMANN:
Una provocazione: molti di voi non sanno che in Italia ci sono venti prontuari, cioè ogni Regione ha il suo prontuario farmaceutico. Ciò significa che ogni italiano, al limite, ha un trattamento diverso dal punto di vista dell’accesso al farmaco diverso, in funzione delle Regioni, del ticket, ecc. Un’idea, che non è venuta solo a me ma anche ad altri colleghi, è di proporre l’abolizione del Titolo V del comparto farmaceutico, in modo da ritornare alle origini, in modo che tutti gli italiani abbiano gli stessi diritti per l’accesso al farmaco e che il toscano non abbia da pagare qualche cosa che in un’altra Regione viene ancora dispensato. Un’idea un po’ matta, probabilmente irrealizzabile perché ci sarebbe la grossa opposizione delle Regioni, che però risolverebbe un grosso problema all’accesso al farmaco. Sulla questione del Banco sub-sahariano: sarà anche pazza, però se noi pensiamo che da venti a trenta prodotti, non di più, si potrebbero raccogliere e mandare, attraverso l’erogazione di Anthony, negli altri Paesi, sono altrettanto convinto che le aziende produttrici possano impegnarsi a dare gratuitamente, o a costi estremamente contenuti, questi farmaci. Ho finito con le follie.
MASSIMO FERLINI:
Grazie, Enrique. Paolo.
GRANDIK PAOLO:
Allora, cosa possiamo fare di più? Non so se questo ci porterà al Banco Farmaceutico sub-sahariano, ma so senza dubbio che ci consentirà di fare di più non soltanto al Banco ma a tutte le organizzazioni non profit che si interessano di sanità. Tre punti essenziali.
Primo: fare network è indispensabile, dobbiamo vincere quella atavica tentazione che anche nel nostro mondo non profit è così radicata, che in fin dei conti io faccio il mio bene a misura mia e lì finisce, che bisogno c’è di parlare con l’altro? No, dobbiamo confrontarci e trovare vie per collaborare tra le varie organizzazioni, a livello nazionale e internazionale. Dobbiamo condividere senza dubbio criteri di spirito di servizio, criteri di professionalità, criteri di efficienza, perché dobbiamo condividere le regole del gioco: ma dobbiamo parlare proprio per condividerle, non per chiuderci in noi stessi. Da questo punto di vista, ovviamente, il progetto europeo che tutti noi siamo qui col batticuore sperando che trovi accoglimento, è un eccezionale esempio. Secondo punto: dobbiamo chiedere, anzi, oserei dire pretendere, che istituzioni e politica escano anche loro dal bunker che descrivevamo prima e riconoscano con franchezza la situazione e l’opportunità conseguente, non solo di collaborare ma di sviluppare, di incentivare, di favorire altri attori che li aiutino a dare questa risposta di welfare. Conviene, perché se prima o poi questa promessa non viene mantenuta, mi scoppia in mano: per cui, politicamente, conviene! E allora due esempi: qui in Italia, Commissione Camera in legislativa, la scorsa legislatura era stata approvata una norma di legge che avrebbe favorito sostanzialmente le aziende farmaceutiche nella donazione di medicinali, basterebbe che l’attuale Senato la ripescasse e in un paio di giorni diventerebbe legge, già sarebbe un atto concreto. Secondo punto: accetto senza dubbio, andiamo da Aifa, perché l’autorità regolatoria italiana ed europea non può far finta che non ci sia nessuno che opera nel comparto farmaceutico su base non commerciale. Oggi è così. Ditemi voi cosa sono, però esistono. Terzo punto, sempre all’industria: ho l’impressione che ci sia comunque del lavoro da fare insieme anche lì. Cerchiamo di lavorare sempre meglio e sempre di più con l’industria, confrontiamoci per condividere dei percorsi sulla donazione farmaceutica che, da un lato, garantiscano l’industria, siano rispettosi delle regole, della trasparenza per la tutela della salute; dall’altro, però, lavoriamo affinché sia vinto un pregiudizio. Un’indagine Doxa che abbiamo commissionato meno di un anno fa, dice che è ancora molto radicato tra i tuoi colleghi, che per loro l’impegnarsi nella carità è al massimo un problema personale ma non coinvolge l’azienda. E se comunque l’azienda è coinvolta, la donazione farmaceutica è forse l’ultima cosa a cui si pensa: prima vengono tante altre iniziative: congressi, opere varie di beneficienza, pozzi in Africa, fondazioni che finanziano manifestazioni culturali. Sai benissimo cosa succede, e allora lavoriamo insieme anche su questo. Grazie.
MASSIMO FERLINI:
Grazie ai relatori e grazie a voi che ci avete seguito. Voglio sintetizzare quanto è avvenuto qui stasera: mi pare che l’entusiasmo con cui ciascuno di noi fa il proprio mestiere e dovere sia stato tale da averci fatto buttare talvolta il cuore oltre l’ostacolo e anche oltre quello che di solito si chiama tenere i piedi per terra. Non lo dico per riportare un sano realismo, lo dico invece perché ho colto veramente l’entusiasmo con cui, facendo le cose, ci siamo convinti che sia possibile andare oltre quelli che sono stati fino adesso i limiti che hanno in qualche modo tarpato le ali, per quello che riguarda l’attività di solidarietà nel mondo farmaceutico, in modo tale da aprire una nuova stagione e nuove potenzialità di collaborazione internazionale, di collaborazione sovranazionale, per quello che riguarda le attività e le proposte che stiamo assieme portando avanti in Europa, e anche per quanto riguarda la collaborazione con il mondo dell’industria privata. Quanto facciamo, quello che ci sostiene nella nostra attività di solidarietà e di condivisione, ci fa dire che c’è una cosa, un risultato che ci auguriamo tutti di riuscire a ottenere e che stava tra le righe di quanto abbiamo fatto: aiutare i molti che sono ancora nel bunker a tornare a vedere, mentre oggi guardano e non vedono nemmeno la realtà di quanto abbiamo descritto e che ci sta davanti. Grazie a tutti e buona serata al Meeting.
Trascrizione non rivista dai relatori