Chi siamo
INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
IL POTERE DEI SENZA POTERE
Presentazione del libro di Václav Havel (Ed. Itaca e La Casa di Matriona). Partecipano: Marta Cartabia, Giudice della Corte Costituzionale; Giovanna Parravicini, Fondazione Russia Cristiana.
A seguire:
NON DIMENTICHIAMOCI DI DIO. Libertà di fedi, di culture e politica
Presentazione del libro di S. Em. Card. Angelo Scola, Arcivescovo di Milano (Ed. Rizzoli). Partecipano: Silvio Ferrari, Docente di Diritto Canonico all’Università degli Studi di Milano; Tobias Hoffmann, Docente di Filosofia Medievale alla Catholic University of America, Washington.
INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
Ore: 19.00 eni Caffè Letterario A3
IL POTERE DEI SENZA POTERE
Presentazione del libro di Václav Havel (Ed. Itaca e La Casa di Matriona). Partecipano: Marta Cartabia, Giudice della Corte Costituzionale; Giovanna Parravicini, Fondazione Russia Cristiana.
A seguire:
NON DIMENTICHIAMOCI DI DIO. Libertà di fedi, di culture e politica
Presentazione del libro di S. Em. Card. Angelo Scola, Arcivescovo di Milano (Ed. Rizzoli). Partecipano: Silvio Ferrari, Docente di Diritto Canonico all’Università degli Studi di Milano; Tobias Hoffmann, Docente di Filosofia Medievale alla Catholic University of America, Washington.
CAMILLO FORNASIERI:
Un caro benvenuto a tutti, cominciamo questo secondo invito alla lettura nel Meeting di Rimini, nel quale si introducono dei testi che aiutino ad una consapevolezza anche rispetto al tema che ci guida. Quest’oggi giungiamo un po’ al dunque, al diversamente citato libro di Václav Havel Il Potere senza potere, che la Casa di Matriona e Itaca insieme hanno rieditato con una saggia scelta, e anche con una cornice di discorsi e conversazioni di Havel successive a questo testo che è del 1979, se non erro. Un testo che molti di noi hanno conosciuto, anche io personalmente, agli inizi dell’università, quando in una piccola edizione totalmente diversa e molto più scalcinata, diciamo cosi, ma coraggiosa nel suo intento, era giunto tra noi e sul quale si è molto lavorato. Vogliamo oggi insieme ad i nostri ospiti capire l’attualità di questo testo scritto allora ma che ha una forza profetica impressionante. Da cosa è data questa forza profetica? Dal fatto che scommette sul quel punto dell’io della persona che è la sete e la capacità di verità, di riconoscere il vero. Dunque un libro nato in un punto della storia, in un punto geografico che era la Cecoslovacchia sotto l’arcipelago dell’Unione Sovietica e dell’ideologia, molto simile alla nostra società post-totalitaria. Abbiamo con noi due grandi amiche del Meeting: una è la Professoressa Marta Cartabia, giudice della Corte Costituzionale, che salutiamo e che ben conosciamo, che ha scritto la prefazione al libro e poi Giovanna Parravicini della Fondazione Russia Cristiana, a cui do subito la parola.
GIOVANNA PARRAVICINI:
Io provo a contestualizzare il significato oggi di un testo come quello di Havel scritto nel 1978. Nel 1984 un dissidente russo scriveva, quindi prima della perestojka, non sapendo ancora come sarebbe andata a finire, scriveva ai dirigenti di Solidarność dicendo: “Noi tutti siamo nati a Budapest nel ’56, siamo andati a scuola a Praga nel ’68, ci siamo fatti le ossa nei lager sovietici, abbiamo raggiunto la maturità dei cantieri di Danzica, siamo cioè un organismo unitario e che cosa abbiamo capito in 25 anni di sforzi titanici? Abbiamo capito una cosa sola, che si può sempre vivere da uomini liberi anche in prigione e se non lo siamo, se non viviamo liberi, non ci sono scusanti”. Lui non sapeva che cosa sarebbe accaduto, così come Havel quando ha scritto questo saggio, Il potere dei senza potere, non sapeva quello che sarebbe successo, non sapeva che i regimi sarebbero caduti, era pronto a vivere il luminoso futuro fin da ora fin da adesso nella prigione in cui era. Poi è venuta la perestrojka, sono passati quasi venti’anni, e sembrava che gli ideali di quei tempi fossero caduti, fossero finiti, che queste parole potevano andare bene dentro il regime comunista e che il capitalismo, il consumismo, la corsa sfrenata all’arricchimento o alla sopravvivenza non lasciavano spazio per l’ideale. In Russia è successa una cosa stranissima. Tutto è cominciato il 4 dicembre del 2011, quando alle ennesime elezioni abbastanza menzognere il regime ha ricevuto non la solita risposta di indifferenza, di individualismo, ma la gente ha cominciato a scendere in piazza, quasi festeggiando. Certamente c’era un aspetto di polemica, di protesta, ma è emersa una risposta ben diversa: la gente ha cominciato a scendere in piazza, quasi festeggiando, innanzitutto per dire guardate che noi ci siamo, che io, la persona ci sono, che noi, il popolo, ci siamo. È stato cioè un impressionante ridestarsi della società, della società civile. Proprio in un luogo dove sembrava che la società e la persona fossero ormai omologate, ormai omologate all’Occidente, se non omologate all’ideologia sovietica, è cominciato uno strano processo, direi inarrestabile, di rinascita di questo io. Certamente poi le proteste si sono esaurite, ma questa rinascita dell’io, questa decisione dell’io di attestare se stesso, sta continuando anche oggi a trovare le strade più diverse, ad esempio la strada del volontariato, la strada della responsabilità: benissimo, lo stato è inadempiente, benissimo, lo stato non si assume le sue responsabilità, io però non posso soltanto protestare, chi lo farà se non lo faccio io? E cosi nascono le prime associazioni, le prime organizzazioni per aiutare i bambini malati, per aiutare a spegnere gli incendi nei boschi, per trovare i bambini dispersi, per piantare gli alberi laddove una selvaggia campagna edilizia li ha tolti. La cosa interessante è che si tratta magari di cose fatte anche un po’ per buonismo, senza grandi radici, senza grandi motivazioni, ma come dice Havel ci sono le segrete intenzioni del cuore, cioè c’è il bene, la verità e il nesso con l’assoluto con cui il cuore dell’uomo è fatto. E un uomo che fa una briciola di bene, da questa briciola di bene è aiutato, è educato ad allargare la propria coscienza. La Russia oggi, e questo è veramente il grande miracolo che sta succedendo dentro tante contraddizioni, dentro tante difficoltà all’interno della società, all’interno della Chiesa, oggi la Russia sta vivendo, e questo mi colpisce a volte anche rispetto al clima di stanchezza, demoralizzazione che c’è in Italia, la Russia sta vivendo questo processo di rinascita della persona e della propria responsabilità: se non sono io chi? Questa che era la grande domanda dei dissidenti, oggi è la domanda di tanti, e diventa anche la domanda della Chiesa. Mi raccontava un mio amico parroco che è arrivata da lui recentemente una sua parrocchiana giovane che gli diceva: “Sì, io vado in chiesa, mi confesso, ascolto la messa, faccio i digiuni, faccio tutto quel che bisogna fare, ma a me non basta”. E lui mi dice: “Io mi sono anche un po’ spaventato e le ho detto: ma che cosa sta cercando?, e questa mi dice: ma io ho bisogno di Cristo per poter essere me stessa”. Da questo lui ha proprio capito e ha iniziato un programma di catechesi nella sua parrocchia. Questo era semplicemente per documentare brevissimamente questo processo di rinascita dell’io che non è facoltativo, che Havel ci testimoniava ma che oggi come oggi, io credo, sia la cosa che più serve proprio per fare della crisi in cui noi viviamo in Russia, come in Italia, come in tutto il mondo, l’inizio di una nuova rinascita.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie, grazie. Fornisco un esempio, è ambientato in un’altra sponda dell’Europa, a Parigi, per descrivere il fenomeno di quei giovani che per giorni e giorni hanno recitato poesie, letto racconti per le strade di Parigi e di altre città, come fenomeno di protesta rispetto ad una legge che vuole condizionare gli impegni anche di chi vuole vivere diversamente, quindi l’assurdo nell’assurdo. “Noi non siamo degli indignati, siamo degli ammirati” – hanno detto di sé. Questo stesso fenomeno sta accadendo in quei ragazzi ed è sorto dal nulla in una società assolutamente silente, molto perbene, percorsa da tante contraddizioni ma assolutamente figlia dello stato, e questo essere ammirati è esattamente la mossa che detta una nuova dinamica, una nuova agenda nella società. Adesso ascoltiamo Marta Cartabia che ci conduce un po’ più dentro nel libro.
MARTA CARTABIA:
Grazie per questo invito a comunicare, a condividere con voi alcune delle pagine che trovo più significative di questo testo, per me profondamente evocativo. Grazie ai tantissimi che partecipate a questa conversazione dopo una della giornate credo più intense di questo Meeting e che forse non mi aspettavo di trovare tutti qui, tanti amici anche fra le prime file. Le considerazioni che sono appena state fatte da Giovanna Parravicini e da Camillo riguardo l’Unione Sovietica di ieri, la Russia di oggi, Parigi, già ci introducono a una prima risposta su perché è interessante per noi leggere oggi un testo come quello di Havel, Il potere dei senza potere, scritto nel 1978 in riferimento a un contesto storico-politico ben determinato, che era quello dei regimi filo-sovietici prima della caduta del muro di Berlino. La risposta è stata anticipata già da loro. Questo testo che pure è così profondamente immerso in quel momento storico, come accade con i grandi classici, in realtà parla di qualcosa di universale, che ci riguarda, ci interessa come uomini e il tema è il tema che oggi è già emerso in alcuni degli incontri, in particolare penso all’incontro sulla nascita della politica in Mesopotamia. C’è una straordinaria assonanza con le tematiche toccate in quell’incontro, quella del rapporto tra la persona e il potere. Un tema, un problema universale in cui troveremo delle descrizioni in questo libro di Havel che ricordano molte delle pagine che Giorgio Buccellati ha scritto nel suo splendido libro sull’origine della politica e sul passaggio all’urbanizzazione. Dunque, non troveremo in queste pagine un’analisi dei sistemi, diciamo così, filo-sovietici, comunisti, del socialismo reale, per additarne i limiti dal punto di vista storico-organizzativo, ma troveremo un’analisi più profonda, che parla del rapporto tra l’io e il potere, qualunque tipo di potere. Non solo quel potere, ma anche il potere che troviamo nelle nostre democrazie occidentali, o forse quel potere che noi troviamo in altre aggregazioni, di qualunque natura: nei nostri ambienti di lavoro, nella scuola, nell’università, nelle istituzioni, qualunque tipo di istituzione civile ed ecclesiastica. L’io e il potere. Havel scrive un libro che è profondissimo e che non saprei definire se un trattato di filosofia politica, di filosofia morale, di analisi sociologica, forse è un insieme di tutto questo, ma siccome Havel è anche un grandissimo drammaturgo, io vorrei provare a introdurre ai molti che non hanno letto questo libro e forse a qualcuno che lo ha già letto, utilizzando questo suo profilo. E quindi vorrei prendere a prestito un personaggio che ci accompagni, proprio come un compagno di strada, in uno svolgimento di riflessioni, che è anche molto ricco di teoria, ma che accompagni le riflessioni con un’esemplificazione così incisiva che ci permetta forse di inseguire la complessità del suo pensiero in un modo più semplice, più aggredibile da parte di tutti. E quindi vi propongo la lettura di alcune pagine di questo straordinario testo, incentrando la nostra attenzione sulla figura dell’ortolano. C’è questo ortolano che compare in vari momenti e io vi vorrei proporre una lettura di questa figura in tre atti. Il primo momento è quello in cui noi vediamo questo ortolano che è complice del potere, perché l’idea di Havel è che il potere non è qualcosa di esterno a noi, anche quel potere dell’Unione Sovietica che noi immaginiamo, come è anche stato, – e chi ha visto la mostra sui martiri ortodossi ne ha delle immagini potenti – come un carro armato che arriva e schiaccia la nostra libertà, invece lui lo definisce come auto-totalitarismo, in cui c’è un io che alimenta ed è complice del potere di cui è vittima. Il primo atto dunque ci farà vedere questo io complice, schiavo, ma allo stesso tempo protagonista del potere che detesta. Il secondo atto ci mostra l’ortolano che si ridesta, che riscopre la sua dignità. Il terzo atto, spero che avremo il tempo se no Camillo ci fermerà e resteremo con la suspance e andremo a leggere le pagine da noi, ci fa vedere questo ortolano che comincia a ricostruire una nuova polis, esattamente come stava descrivendo poco fa Giovanna Parravicini. Dunque la risposta e, diciamo così, l’antidoto a questo male pervasivo di un potere che penetra nell’essere umano, non è identificato in Havel in un diverso sistema politico. Si poteva immaginare una cosa di questo genere di fronte al regime sovietico, l’esaltazione delle democrazie occidentali, ma non è questa la strada che lui persegue, e non è questa nemmeno quella di Solženicyn, che nel famoso discorso ad Harvard dice: “Ma come, voi nelle società occidentali avete la libertà giuridica e politica, eppure siete tutti spersonalizzati, omologati, vittime di un conformismo al vento del secolo”. Dunque l’alternativa a un potere che schiaccia la libertà dell’uomo, per Havel, non è un diverso sistema politico innanzitutto, arriverà anche a quello, ma innanzitutto è in un diverso soggetto umano, un io diverso. Ma andiamo per ordine. Incontriamo innanzitutto il nostro ortolano nel momento in cui quasi inconsapevolmente vive nella menzogna, o meglio nella demoralizzazione, che Havel usa in un duplice senso, come scoraggiamento e come assenza di moralità. “Il direttore del negozio di verdura ha messo in vetrina fra le cipolle e le carote la slogan proletari di tutto il mondo unitevi. Perché l’ha fatto? Cosa voleva far sapere al mondo? È davvero personalmente entusiasmato dall’idea dell’unione fra tutti i proletari del mondo? Io penso che la stragrande maggioranza degli ortolani si possa supporre che in fin dei conti non riflettano sul testo degli slogan esposti nelle loro vetrine, e tantomeno che con essi vogliano esprimersi sulla loro visione del mondo. Lo slogan è stato consegnato al nostro ortolano dall’azienda insieme alle cipolle e alle carote e lui l’ha messo in vetrina perché sono anni che fa così. Perché lo fanno tutti. Perché si deve fare così. Se non lo facesse potrebbe avere delle grane, potrebbero rimproverargli di non avere l’addobbo e qualcuno potrebbe addirittura accusarlo di scarsa lealtà. Lo ha fatto perché questo gesto gli permette di riuscire a campare. Perché è una di quelle mille piccolezze che gli garantiscono una vita relativamente tranquilla, in sintonia con la società. La gente che passa davanti alla sua vetrina non si ferma neanche a leggere il cartello, anzi, non sa che cosa c’è scritto nello slogan e non lo vede neppure. Se provate a chiedere alla signora che si è fermata davanti alla vetrina “cosa c’era?”, vi saprà certamente dire se oggi c’erano i pomodori, ma quasi sicuramente non si è resa conto che c’era anche uno slogan, e tantomeno ricorderà che slogan fosse. È vero, la gente non recepisce il suo slogan, ma non lo recepisce perché questi slogan sono anche in altre vetrine, sono alle finestre, sui tetti, sui pali della luce, dappertutto. Formano il suo panorama quotidiano. La gente è ben consapevole di questo panorama generale e allora, cos’è questo slogan se non un piccolo contributo a questo grande panorama? La signora rimasta indifferente davanti allo slogan dell’ortolano, probabilmente solo un’ora prima ne aveva attaccato uno uguale nel suo ufficio, lo aveva fatto più o meno automaticamente come il nostro ortolano, lo faceva sullo sfondo generale. Entrambi sono stati appesi tenendo conto del panorama generale, per così dire sotto il suo diktat. Entrambi però al tempo stesso formano questo panorama e realizzano quindi anche il suo diktat. L’ortolano e l’impiegata si adattano alle circostanze ma proprio per questo contribuiscono a crearlo. Fanno quello che si fa, che è opportuno fare, che si deve fare, ma in questo modo confermano ciò che è opportuno e si deve fare. Entrambi sono oggetto di un dominio ma al tempo stesso ne sono anche il soggetto. Sono vittime e strumento del sistema”.
Il primo punto, che mi pare sia una grande correzione all’idea di potere che noi abbiamo spesso nella nostra mente, è proprio questo: noi identifichiamo il potere con l’immagine di un dittatore classico, opprimente, che non permette all’uomo di essere se stesso e di vivere a pieno la sua liberà. E questo è sicuramente stato vero nella storia, ma, per usare un’immagine che ha usato poco fa John Waters in quel meraviglioso incontro che ci ha regalato, l’immagine del potere di oggi è piuttosto quella di un bunker in cui noi stessi ci richiudiamo, in cui c’è una corresponsabilità dell’Io, in cui ciascuno non è solo vittima ma è sempre anche complice. Quanta schiavitù imposta da noi stessi con mille gesti. Che se noi pensiamo, nei nostri ambienti facciamo in modo di adeguarci a ciò che ci si attende da noi. In qualunque ambito, in qualunque contesto, non solo davanti ai carri armati. Ma questo io, questo ortolano così facilmente superficialmente trascinato nella macchina dell’ideologia, perché questa è l’idea di potere che ha Havel, un’ideologia pervasiva, che trasforma la mente, il modo di pensare prima ancora che opprimere fisicamente, è anche il punto di riscossa da cui può rinascere la persona e la società intera.
Secondo atto: “Immaginiamo ora che un bel giorno qualcosa si ribelli nel nostro ortolano e che la smetta di esporre gli slogan solo perché gli fa comodo. Smetta di andare a votare sapendo che non si tratta affatto di elezioni, all’epoca era così. Cominci a dire alle assemblee quello che pensa veramente e trovi in sé la forza di solidarizzare con quelli la cui la coscienza lo porta a solidarizzare. Con questa ribellione l’ortolano esce dalla vita nella menzogna, rifiuta il rituale e viola le regole del gioco. Ritrova la propria identità e la propria dignità. Realizza la propria libertà. La sua ribellione sarà un tentativo di vita nella verità”.
Guardate che conseguenze, che parole forti usa Havel per descrivere il significato di un gesto che all’apparenza è, non piccolo, infimo: l’ortolano che toglie il cartello “proletari di tutto il mondo unitevi” dalla sua vetrina, è un gesto quasi inesistente, insignificante, eppure Havel dice che in quel gesto l’ortolano ritrova la propria identità, la dignità, esercita la sua libertà e incomincia un percorso di vita nella verità. C’è una sproporzione enorme. Le parole più grandi per descrivere la nobiltà dell’essere umano collegate a un gesto apparentemente così irrilevante. Attenzione alle conseguenze. “La resa dei conti non tarderà ad arrivare. L’ortolano perderà il posto di direttore e sarà trasferito tra i fattorini. Lo stipendio diminuirà e svanirà la speranza di passare le vacanze in Bulgaria. I figli rischieranno di non poter proseguire gli studi. Subirà le angherie dei superiori e sarà guardato con stupore dai compagni di lavoro. Infatti l’ortolano non ha commesso solo un errore individuale, circoscritto alla sua persona, ma qualcosa di ben più grave: ha violato le regole del gioco, ha infranto il gioco in quanto tale, ha mostrato che è solo un gioco, ha abbattuto il muro dell’apparenza, il pilastro portante del sistema, ha distrutto la struttura del potere lacerandone il tessuto, ha dimostrato che la vita nella menzogna è proprio vita nella menzogna, ha detto che il re è nudo. E giacché il re è davvero nudo, è accaduto qualcosa di enormemente pericoloso. Con il suo gesto l’ortolano ha interpellato il mondo, ha dato ad ognuno la possibilità di guardare dietro il sipario, ha dimostrato ad ognuno che è possibile vivere nella verità. È evidente: finché l’apparenza non viene messa a confronto con la realtà, non sembra un’apparenza. Finché la vita nella menzogna non viene messa a confronto con la vita nella verità, manca un punto di riferimento che ne riveli la falsità. Ma non appena di fronte all’apparenza e alla vita nella menzogna si presenta un’alternativa, necessariamente le mette in discussione per quello che sono nella loro essenza e integralità”. Attenzione qui: “In genere non conta quanto è grande lo spazio che l’alternativa occupa. La sua forza non sta nel suo lato fisico, ma nella luce che getta sui pilastri del sistema e con cui illumina le sue traballanti fondamenta. L’ortolano non ha messo in pericolo la struttura del potere a causa della sua importanza fisica, o del suo potere oggettivo, ma in quanto il suo gesto ha trasceso la sua persona, ha fatto luce intorno a sé con tutte le incalcolabili conseguenze che ne derivano. Non importa quanto grande è il gesto, non importa la sua importanza, la sua potenza fisica, importa la luce che il gesto di verità getta sulla realtà”. Sempre la mostra dei martiri ortodossi: la mostra è tutta nera, salvo che nel centro c’è un punto, la chiesa, dove viene ricostruita la chiesa, che getta la luce e illumina le parole con cui il regime si è consolidato. Il punto della luce è impressionante perché è esattamente lo stesso termine, la stessa immagine, la stessa idea che è alla base dell’ultima Enciclica, che tante volte abbiamo sentito ripetere per chi conosce la storia di questo Meeting. Anche nelle parole di Carrón, quando dice: “Di fronte al buio quello che conta non è né lamentarsi del buio, né parlare della luce, ma accendere un accendino”. È l’idea della testimonianza come un fattore che può provocare una novità anche su ampia scala, per quanto piccola possa essere la fiamma da cui promana quella luce. Perché, dice Havel, le conseguenze di una luce che si illumina sono imprevedibili, tant’è vero che il regime reagisce in modo sproporzionato di fronte ad un uomo che toglie il cartello: gli toglie il lavoro, gli toglie il pane, perché dice “non si può mai sapere quando una palla di neve, un gesto piccolissimo, potrà diventare una valanga. Perché tutti coloro che vivono nella menzogna possono sempre essere folgorati dalla verità”. Qui sarebbe bello potersi soffermare, ma credo che il nostro tempo non ce lo consenta, per cercare di capire che cosa consente a un uomo di compiere un gesto di rottura così dirompente, quali sono le risorse da cui può trarre l’energia in un contesto così spersonalizzante, così omologante, per ritrovare la propria dignità ed essere se stesso. Vi accenno soltanto ad alcune espressioni che ci sono nel libro, lasciando a voi poi la curiosità di andare a scovare quali sono le risorse di un ortolano omologato che trova la propria dignità e compie quel gesto di verità. Ci sono due sottolineature che ho colto in questo testo. Uno in cui Havel dice, anche nei testi successivi non solo ne Il potere dei senza potere: “L’uomo non è mai solo il prodotto del mondo esterno, per quanto le circostanze tendano a conformare il suo modo di essere, c’è sempre una irriducibilità nel soggetto”. Quella nostalgia di cui parlava anche poco fa John Waters, che è sempre all’erta, sempre pronta a risvegliarsi. Possiamo chiuderci nel bunker e lasciar fuori il Mistero, diceva lui, ma il Mistero ce lo portiamo dentro di noi, quindi è come sempre all’erta. E altrove dice Havel: “C’è un bisogno elementare che l’uomo ha di vivere, almeno in una certa misura, in sintonia con se stesso, un’urgenza del vero che non si può mai definitivamente omologare e rimane come la brace sotto la cenere”. E poi dice un’altra cosa in un altro punto che mi sta particolarmente a cuore. Parla a un certo punto di un ancoraggio dell’io nell’essere, l’ancoraggio, un essere radicati in qualcosa che permette a questa pianta sempre di rifiorire ed è un’immagine che forse a qualcuno di voi evocherà l’idea che don Giussani, nel Senso Religioso, esprime nel capitolo VIII, quando parlando della libertà dice: “Un uomo” – fa due disegni, un cerchio con un puntino dentro e un cerchio vuoto con un puntino fuori – “un uomo non può essere libero se è totalmente parte del meccanismo in cui vive, ha bisogno di un ancoraggio, di essere aggrappato a qualcosa di esterno a questo meccanismo sociale che gli permette soltanto questo, di essere pienamente libero”. Ma questo è don Giussani, non è Havel. Havel dice “ancoraggio all’essere”, perché Havel è un non credente. Non è un uomo che trae, quasi deduttivamente da una posizione di fede religiosa. Questa sua fiducia nell’essere umano ci arriva da una posizione che per noi è particolarmente interessante, perché proponibile a chiunque, laica. Il terzo passaggio che farò rapidissimamente è che questo ortolano, che prima era totalmente preso dall’ingranaggio del potere, anzi lo alimentava e poi fa questo piccolo gesto che lo ridesta, diventa l’origine di un cambiamento, di una nuova polis. Dice Havel nelle pagine finali: “Può nascere da questo gesto di verità anche una nuova struttura sociale”. E lui aveva bene in mente questa polis parallela che si stava sviluppando in condizioni per noi inimmaginabili. Dice, terzo e ultimo atto: “Il tentativo del nostro ortolano di vivere nella verità, si può ridurre al fatto che costui non fa certe cose. Non espone più le bandiere alla finestra, non partecipa alle elezioni, non nasconde davanti ai suoi superiori le sue idee. Il suo tentativo quindi può rimanere circoscritto al rifiuto puro e semplice di ubbidire a certe pretese del sistema, il che non è poco. Ma può anche arrivare a qualcosa di più: può cominciare a fare qualcosa di concreto, qualcosa che vada oltre l’immediata difesa personale contro le manipolazioni e in cui si concretizzi la sua ritrovata responsabilità. Può ad esempio organizzare i compagni di lavoro in un’iniziativa comune, può scrivere alle istituzioni e richiamarne l’attenzione sulle ingiustizie, le disfunzioni nel suo ambiente, può procurarsi dei testi clandestini, copiarli e passarli ad altri amici. Grazie al carattere, alle premesse, alla professione di alcune, ma anche grazie a una serie di circostanze fortuite, come ad esempio le caratteristiche dell’ambiente locale, sboccia talvolta qualche iniziativa più pertinente e più visibile che si trasforma in un lavoro più cosciente, si articola creativamente. E allora incomincia una vita indipendente, spirituale, sociale e politica della società”. Questo passaggio è cruciale, per quanto ne capisca io che non sono un’esperta di Havel, nel suo pensiero. Qui è il punto che mi sta particolarmente a cuore: da un lato la novità anche sociale non ha la sua prima mossa in una nuova struttura politica – Havel ha della pagine anche sull’idea della legge e sull’idea della nuova struttura sociale che sono inequivocabili -, c’è una precedenza di quella che lui chiama “la rivoluzione esistenziale”, un io nuovo. Il messaggio del Presidente della Repubblica all’inaugurazione del Meeting mi faceva molto pensare quando diceva: “Io credo che l’emergenza che viviamo è quella di una grave, grave forma d’impoverimento spirituale, culturale, di motivazioni umane, di motivazioni non legate soltanto all’immediato interesse materiale”. C’è un’assonanza: l’urgenza vera è più profonda, è un’esigenza radicale dell’io, della persona esistenziale, che ritrovi se stessa. Ma attenzione, c’inganneremmo se noi facessimo un’equivalenza tra questa primazia della rivoluzione esistenziale e personale e l’idea di antipolitica, com’è intesa nella nostra società italiana in tanti momenti. Perché per Havel la prima mossa è esistenziale ma arriva fino al cambiamento politico nel senso più nobile del termine, della polis, dell’interesse per la vita comune. Qui, nelle ultime pagine, c’è un’ampia descrizione di queste nuove strutture che nascono per rispondere ai bisogni politici, ma io non posso prendere ulteriormente il vostro tempo e l’attenzione per leggere, non posso privarvi della curiosità di andare a vedere come le descrive. Vi posso però dire una parola sul suo percorso biografico. Havel è un drammaturgo, uno dei primi che si espone pubblicamente al regime di Gustáv Husák, che viene per questo imprigionato. E’ il fondatore di Charta 77 e di se stesso dice: “Non avrei mai immaginato che un poeta testardo come me, a furia di dar testate contro il muro, alla fine facesse veramente crollare il muro di Berlino”. E ha finito negli ultimi anni per essere per 13 anni Presidente della Cecoslovacchia prima e della Repubblica Ceca dopo. E’ un uomo che con la sua stessa vita testimonia che questo primato del riscoprire la verità di se stessi arriva fino alle conseguenze sociali e politiche in tutto il significato che questa parola ha. Quindi è il primato di una rivoluzione esistenziale che però non richiude il cittadino nel privato, nel suo cortile di casa, ma lo spalanca fino alle responsabilità ultime della vita istituzionale-politica. Ma lasciatemi concludere leggendovi l’ultima frase di questo testo meraviglioso, perché è lì che a mio parere possiamo intuire che cosa possa aver sostenuto l’energia di un soggetto nuovo in un contesto in cui sembrava impossibile ogni cambiamento. Quando lui ha fatto tutta la descrizione della nuova polis e di queste nuove strutture che nascono da questo io nuovo, a un certo punto dice: “C’è un cambiamento in atto e questo cambiamento deve invitarci a riflettere concretamente sulla nostra esperienza. Proprio qui, nel nostro vivere quotidiano, forse ci sono dei suggerimenti cifrati che attendono in silenzio il momento in cui saranno letti e compresi”. Ci si domanda cioè se quel futuro più luminoso sia sempre veramente soltanto il problema di un lontano là. “E se invece fosse qualcosa che è già qui da un pezzo – nel regime filo-sovietico della Cecoslovacchia dell’epoca – se fosse già qui da un pezzo e che solo la nostra cecità e fragilità ci impediscono di vedere e sviluppare intorno a noi e dentro di noi?” E’ impressionante. Finisce con un interrogativo. Ma è un interrogativo che non è dubitativo. È un interrogativo di un uomo certo che la novità per se stesso, per il suo popolo, per il suo Paese, è già un presente. Un presente che non è forse una vittoria esaltante che va sotto i riflettori. È un presente che lui descrive con suggerimenti cifrati. Qualcosa di discreto che però esiste e leggendo questo libro si ha l’impressione che l’energia di un uomo di una statura di questo genere possa derivare soltanto da una certezza in una vittoria discreta ma già presente nell’oggi.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie. Vi ringraziamo davvero tantissimo per la vostra testimonianza. È una sfida all’io profondo, all’io vero e al legame con la vita. Quindi è un compito per ciascuno. Per tanti anni avremmo potuto avere qui Havel, non ci siamo riusciti, non è stato possibile, ma forse averlo presente come metodo, come suggerimento, come è stato questa sera, è la cosa più importante di tutte. Io vi invito a rimanere. Saluto i nostri ospiti. Vi invito a rimanere alla successiva proposta perché è molto connesse, collegata a questi temi.
Si tratta di un libro del Cardinal Scola, edito da Rizzoli, editore di Milano, che nasce in questo anno a seguito del discorso di sant’Ambrogio, che per questa città rappresenta il punto di attenzione di tutta la comunità civile, sociale, perché l’Arcivescovo di Milano in esso traccia come un giudizio, una prospettiva per la convivenza civile. Il libro prende l’esordio dalla ricorrenza così importante, significativa e attuale dell’anniversario dell’Editto di Costantino. Milano la città delle libertà, la città in cui questo Editto fu promulgato, e cosa diceva? Diceva che nell’adorare la divinità, nel plasmare la propria vita rispetto a Dio, al divino, ci doveva essere libertà, perché il divino stesso fondava il modo libero per la persona di adorarlo. Dunque non ci poteva essere un inserimento del potere dello stato o della società vigente in mezzo a questo rapporto. Fu una grande intuizione che ebbe sviluppi diversi nella storia e il libro di Scola si addentra in questi sviluppi fino a guardare i tempi attuali, dove il tema della convivenza, delle diversità di culture e di religioni ma anche soprattutto di concezione dell’uomo, sembrano far sì che una società unitaria non possa stare insieme, non possa convivere. Abbiamo a parlarne due ospiti. Parto da chi interverrà per primo, Tobias Hoffmann, lo salutiamo. È professore di Filosofia medievale alla Catholic University of America di Washington DC. Dunque si colloca esattamente a metà tra l’oggi e Costantino. Secondo ospite è Ferrari Silvio, che credo sia la prima volta che è tra noi al Meeting. Lo salutiamo con grande cordialità. È Professore di Diritto e Religione dell’Università degli Studi di Milano. Mi fermo a questa qualifica, la sua attività spazia in diversi Paesi, dall’America all’Inghilterra. Do loro la parola.
TOBIAS HOFFMANN:
Ringrazio molto dell’invito. Mi pare che in questo libro ci sia un filo rosso, una parola che non è nominata spesso, ma c’è dovunque ed è la parola “bene comune”. La religiosità, anche il culto divino e quindi la libertà religiosa per il bene comune. E questo sarà il concetto che guiderà il mio intervento. Poi lo dividerò in quattro punti che mettono in rilievo questo aspetto della religiosità per il bene comune. Il primo fa spunto a un accenno storico che fa il Cardinale Scola stesso ed è come con l’Editto di Milano del 313 la libertà di culto per il Cristianesimo sia stata introdotta proprio con l’intenzione di essere un contributo per il bene comune. Cioè se si dà la libertà ai cristiani, come a tutte le altre religioni, di vivere il culto divino e di pregare il loro Dio, sarà un bene per tutti. Sarà un bene per l’impero romano e questa mentalità che la religione, non solo come coscienza individuale ma anche espressa come culto, come preghiera, sia una cosa che abbia una dimensione politica, questa è rimasta scontata ancora fino ai tempi moderni. Personalmente sono della Germania del Nord, che è molto secolare come contesto, però in una città diventata a me molto cara, Monaco, nella piazza centrale, c’è la colonna della Madonna che è stata costruita nel seguente contesto. Nella guerra dei Trent’anni, il re della Baviera ha fatto un voto alla Madonna, che se Monaco e l’altra città vicina, Landshut, fossero state risparmiate dagli svedesi, avrebbe costruito un monumento in onore della Madonna. Gli svedesi sono entrati a Monaco, e con sorpresa di tutti non hanno distrutto la città e quindi dopo la guerra fu costruita questa bellissima colonna con la Madonna adorata. Questi erano due cenni sul mio primo punto, che il culto religioso contribuisce al bene comune. Un secondo punto, molto brevemente, che è una tesi che si trova in questo libro ma che si trova anche in tutta la tradizione che parla di libertà religiosa, è che lo stato ha bisogno del contributo delle comunità religiose. Ho trovato molto interessanti delle osservazioni del Cardinale sul modo in cui lo stato deve essere aconfessionale. Dice che non deve neutralizzare le visioni del mondo, ma deve dare spazio ai soggetti di dare il proprio contributo all’edificazione del bene comune. E’ una delle poche volte che il Cardinale usa la parola bene comune. Il Cardinale distingue tra una sana laicità e una non sana laicità che chiama aconfessionalità e dice: “Lo stato non fa propria nessuna delle identità culturali, degli interessi, delle aspettative dei soggetti che abitano la società, ma apre e rende equamente praticabile a tutti i soggetti civili lo spazio pubblico del confronto e della deliberazione”. Vale a dire, lo stato non ha il compito di omologare tutta la società al minimo comune denominatore, ma quello di incoraggiare la società a quello che lui chiama un pensiero pratico comune, cioè l’idea che ci sia un dialogo anche fra le varie realtà religiose, quindi anche un obbligo, una responsabilità, una narrazione reciproca che, in una convivenza anche multi religiosa, implica che ognuno testimoni la sua identità all’altro. Ora voglio dare un esempio. Il Cardinale menziona un mio connazionale, Ernst-Wolfgang Böckenförde che è un ex membro della Corte Costituzionale Federale della Germania, quando dice che lo Stato liberale è secolarizzato, si nutre di premesse normative che esso da solo non può generare. Questa idea che lo Stato presuppone delle cose che non può dare a se stesso, la voglio amplificare, staccandomi un po’ dalla lettera del libro del Cardinale Scola. Faccio riferimento ad un discorso che Etienne Gilson, il grande studioso di storia medievale francese, morto nel ’73 (’78), fece a Toronto nel ’52, che secondo me è molto moderno come discorso. Dice infatti che adesso c’è una novità in questa nostra epoca, perché non solo viviamo in un’epoca amorale, tutte le epoche sono state amorali, il peccato c’è sempre stato, pero la novità è che non c’è più il concetto di bene o di male, è tutto uguale. In un contesto così, lo stato liberale non ha nessun contributo né teorico né pratico da dare, ha invece bisogno di soggetti religiosi. Lo stato liberale, il nostro stato, ha bisogno di giudici incorrompibili, poliziotti che non siano pagati dagli stessi delinquenti, soldati pronti a dare la vita per difendere il Paese. Lo stato, continua Gilson, non solo ha l’interesse che ci siano i soggetti religiosi, che dentro l’esperienza religiosa possano sviluppare le virtù civili, ma dovrebbe anche dare lo spazio e non solo lo spazio ma anche i soldi, perché ci siano le scuole cristiane o religiose, diciamo, dove questi soggetti possano essere formati. Un terzo punto che ho trovato molto interessante, sempre leggendo il libro, è dove il Cardinale parla della libertà religiosa come una cartina tornasole di una democrazia non violenta. Anche la democrazia può essere violenta, ci può essere un governo eletto a maggioranza che però è violento. Perché la libertà religiosa è questa cartina di tornasole? Perché è dentro a un concetto più ampio che è quello della liberta di coscienza. Ora io da dodici anni vivo negli Stati Uniti e si può dire tranquillamente che è un Paese che ha una grande sensibilità per le libertà. Ora, non si tratta di criticare un certo governo in quanto tale, però c’è stata una novità con il Governo di Obama, quando ha introdotto una legge, di per sé molto positiva, che introduce l’assicurazione malati per tutti. Però c’è una clausola per esempio che causa a noi, io sono Professore all’Università Cattolica degli Stati Uniti, molte difficoltà perché dice che il datore di lavoro non ha la responsabilità di pagare per l’assicurazione malati, ma anche il dovere di pagare per l’aborto, la sterilizzazione e la pillola in genere. Mi ha sorpreso che gli americani così sensibili alla libertà non provassero fastidio che la liberta di coscienza dei cattolici non fosse osservata. Quello che propone il Cardinale Scola non è una libertà nostra come privilegio, ma è la stessa idea che ci fu già nell’Editto di Milano, la liberta di tutti. Se c’è libertà religiosa è un bene per tutti, per questo dice che è una cartina di tornasole di come è trattata la libertà di coscienza di un Paese. Mi viene in mente l’intervista a don Giussani dove alla domanda “ma lei sarebbe contento se qualcuno che ha idee diverse dalle sue avesse la libertà di espressione?”, risponde “non solo sarei contento, ma darei la mia vita per questo”. Finalmente faccio da ultimo brevi approfondimenti sulla nozione di bene comune. Il bene comune è bidirezionale, cioè è un bene che noi diamo alla società costruendolo, essendo per esempio soggetti che pagano le tasse, ma il bene comune è anche ciò che riceviamo dalla comunità e in senso più ampio ciò che riceviamo dalla totalità dall’essere, da Dio. Infatti San Tommaso dice che il bene comune dell’universo è Dio, il quale però ha qualcosa di speciale, perché il fatto che io ricevo da Lui non diminuisce in niente quello che riceve un altro. Il bene comune di solito lo pensiamo come un aggregato di tutte le cose messe insieme, il tot di soldi collezionati dalle imposte, dalle tasse, mentre no, il bene comune per eccellenza è un bene condiviso da tutti, che non diminuisce perché qualcuno ne ha di più. Non solo Dio è bene comune in questo senso, ma anche la verità, perché se io capisco una cosa e la dico ad un altro, non è che ne ho di meno. Ora faccio riferimento a un bellissimo passaggio di Aristotele nell’Etica Nicomachea, dove lui parla di egoismo ma non di egoismo cattivo, di amore di sé e dice che ci sono due tipi di amore di sé, uno è quello egoistico, infatti se qualcuno vuole dei beni materiali e ne prende un pezzo più grande, l’altro ne ha di meno. Mentre, come dice Aristotele la virtù, la verità, se io sono generoso, se sono moderato se sono giusto, non è che l’altro dopo si lamenta se io ne prendo di più. Quindi la verità è un bene comune come dice Francesco nell’Enciclica, una verità comunicata con libertà, con amore è un bene per tutti. Con questo faccio l’ultima osservazione. Il Cardinale è molto positivo sulla situazione odierna di interreligiosità. Però mi sono chiesto, non è che lo Stato ha anche l’obbligo di imporre un limite a una religione, a un gruppo religioso, se quel gruppo non è propositivo, se non contribuisce al bene comune? Se un governo dovesse decidere quanta libertà dare alle varie realtà religiose della società, direi che il test è proprio questo, quanto un gruppo sia rispettoso della ricerca della verità dell’altro, quanto un gruppo religioso non imponga la sua verità all’altro.
CAMILLO FORNASIERI:
Bello, gli aspetti propositivi positivi di questo dialogo fecondo tra la religiosità vissuta e la convivenza. Il Cardinal Scola, nella prefazione al libro, non nasconde le critiche che si sono accese attorno a questa visione, a questa proposta e prospettiva realmente praticabile e vivibile, e dunque vorremmo anche un po’ capire che cosa si oppone a questa visione, a questa libertà, a questa sussidiarietà degli stati. Allora chiediamo al Professor Ferrari di darci una cornice anche più complessa rispetto a quello che oggi sono i dialoghi e le riflessioni al riguardo.
SILVIO FERRARI:
Buonasera. Se siamo qui alle otto di sera a parlare di libertà religiosa vuol dire che siete più affamati di libertà religiosa che di birra e piadine, però non vorrei indurvi troppo in tentazione e quindi cercherò di essere il più breve possibile, per non essere deluso dalla vostra perseveranza. Quando ho preso in mano questo libro mi sono venuti in mente i miei studenti dell’Università di Milano e ho pensato: se io chiedessi loro, è importante parlare oggi di libertà religiosa, che cosa mi risponderebbero? Penso che la maggioranza mi risponderebbe che sì, può essere importante, ma forse altrove, qui da noi non è realmente un problema. Chi le impedisce di scegliere la religione che vuole? Chi le impedisce di cambiare la sua religione? Chi le impedisce di non avere nessuna religione? In realtà da noi questo problema non c’è più. Eppure il problema della libertà religiosa è un po’ più complesso di quanto le risposte di questi miei ipotetici studenti fanno pensare e questo libro ci aiuta a capire un po’ perché. Il libro del Cardinale è diviso in tre parti. La prima parte è una ricostruzione storica dello sviluppo dell’idea di libertà religiosa. Parte dell’Editto di Milano del 313 dopo Cristo che definisce un inizio mancato. Perche l’idea di libertà religiosa poco dopo viene rinnegata e per secoli resta inattuata. E va avanti in questa parte storica fino a dopo il Concilio Vaticano Secondo e la Dichiarazione Dignitatis humanae che pone i pilastri della concezione cattolica della libertà religiosa. Poi c’è una seconda parte che tratta dei problemi aperti e delle sfide che la società contemporanea pone alla libertà religiosa e infine una terza parte dove si cerca di disegnare un percorso che conduca a una società che rispetti veramente la libertà religiosa. Ora io credo che per arrivare subito al significato del libro, si possa porre un’altra domanda, e la domanda è: chi non vuole la libertà religiosa? Chi sono i nemici della libertà religiosa? E io credo che se ne possano trovare abbastanza rapidamente, abbastanza facilmente tre. Innanzitutto i nemici della libertà religiosa sono quelli che bruciano le chiese, che profanano i cimiteri ebraici, che distruggono le moschee, sono in un certo senso i nemici più evidenti e più brutali della libertà religiosa, ma anche, lasciatemelo dire, i più ingenui. Chi può stare dalla loro parte? Chi può giustificare quello che fanno? Però avrei qualche perplessità a liquidare questo primo gruppo di nemici della libertà religiosa con l’etichetta di fanatismo religioso, di fanatici religiosi, c’è qualcosa di più dietro a queste azioni violente. C’è un errore, che io definirei un errore teologico, come l’idea che Dio sia troppo debole per badare a se stesso, che Dio abbia bisogno degli uomini per far trionfare la vera religione. Ora che Dio abbia bisogno degli uomini non c’è alcun dubbio, è il titolo di un vecchio e bel film di Delannoy, ma è anche il titolo di una lezione che nel lontano 1985 don Giussani ha fatto proprio qui, al Meeting di Rimini. Ma che Dio debba ricorrere agli uomini per imporre la sua verità, questa credo che sia una bestemmia. E credo che sia una bestemmia perche nega un fatto abbastanza chiaro e cioè che la conversione del cuore dell’uomo richiede certamente la testimonianza umana ma ultimamente dipende soltanto dalla cultura divina. E qui a mio parere è un errore quello di ritenere che gli uomini siano indispensabili al disegno divino, in cui, senza bisogno di bruciare le chiese o le sinagoghe, tutti noi possiamo cadere. È un errore, quello di ritenerci indispensabili, che tutti possiamo fare. Il secondo gruppo di nemici della libertà religiosa è un po’ più subdolo, perche si traveste da difensori della libertà religiosa. Quello che dicono, la loro tesi è abbastanza semplice, l’idea è che per garantire la liberta religiosa di tutti, bisogna rinunciare ad affermare la propria verità. Se io credo che soltanto la mia religione sia quella vera, io finirò inevitabilmente per imporla a tutti quanti. Cosa vuol dire questo, lo posso dire anche in un’altra maniera più sintetica: il relativismo religioso è il prezzo da pagare per avere la libertà religiosa. Quest’idea mi ha colpito sempre, perché è esattamente l’opposto del passaggio del Vangelo, più volte richiamato in questo libro, che dice la verità vi farà liberi. È l’idea che vi sia un nesso di dipendenza tra verità e libertà. In altre parole, quello che io credo è che sia perfettamente possibile testimoniare la propria fede in una religione e al tempo stesso riconoscere il diritto di un’altra persona di testimoniare la sua fede in una religione diversa. Perché la libertà è la condizione per riconoscere la verità mia e quella degli altri. Affermare la libertà di tutti a partire dalla mia verità, e non a prescindere dalla mia verità, può essere qualcosa di complicato, può essere qualcosa di impegnativo, però è l’unica maniera per vivere in un mondo fatto di diversità, l’unica maniera per vivere in un mondo capace di accogliere la pluralità di idee, di esperienze come è il nostro mondo di oggi. Questa conclusione mi porta a parlare dell’ultimo gruppo di nemici della libertà religiosa e sono quelli che riducono la libertà religiosa al diritto di scegliere la propria religione. Per queste persone la libertà religiosa si esaurisce in un fatto privato, individuale, che non ha nulla da dire nella costruzione del vivere insieme, nella costruzione dello spazio pubblico. Che al contrario secondo loro deve essere organizzato a prescindere e non a partire dalle convinzioni religiose o non religiose dei cittadini, che sono poi quelli che abitano questo spazio pubblico. Ora, questo modo di vedere le cose è un po’ tipico dell’ Europa occidentale e ha a che fare con il ricordo delle guerre di religione, che sono durate per tanti decenni nel 1500 e 1600. In quel tempo, in quei secoli, si è fatta strada l’idea che per porre fine ai conflitti religiosi fosse necessario neutralizzare la religione e costruire una sfera pubblica neutra, a cui si potesse accedere solo spogliandosi delle proprie convinzioni religiose. Detto in soldoni, l’idea era: per mettere fine alle guerre tra cattolici e protestanti, tra anglicani e puritani che cosa bisogna fare? Bisogna ragionare in questa maniera: a casa tua, tu puoi avere la religione che preferisci, ma quando entri nella sfera pubblica, quando cominci a parlare di politica, di diritto, di economia, per favore lascia il tuo Dio a casa tua, perché se no ricominciamo a litigare. Quando si parla di cose che interessano tutti, la sfera pubblica, è meglio ragionare in termini soltanto razionali, che prescindano dalla tua fede o non fede religiosa. Ecco, quello che si perde in questo ragionamento è una cosa, è il fatto che la libertà religiosa non serve soltanto per poter andare tranquillamente in chiesa, non serve soltanto per poter fare le mie devozioni senza che nessuno venga a disturbarmi, ma la libertà religiosa serve per costruire un progetto di vita che corrisponda alle mie convinzioni religiose. Detto in altre parole, la libertà religiosa serve a costruire uno spazio pubblico non neutrale, bensì plurale, uno spazio pubblico in cui differenti esperienze famigliari, educative, politiche, culturali possano coesistere, possano confrontarsi e possano contribuire ciascuna, per la loro parte, alla costruzione del vivere insieme, o se vogliamo dirla in termini più tradizionali, alla ricerca e costruzione del bene comune. Allora se la libertà religiosa serve a questo, a costruire uno spazio pubblico plurale, la libertà religiosa serve a creare qualcosa di nuovo. Serve a cambiare l’esistenza secondo tentativi e progetti ispirati da una visione alternativa delle cose, è un po’ il terzo atto del racconto di Havel che è stato evocato da Marta Cartabia, e per questa ragione, contrariamente a quello che pensavano i miei ipotetici studenti, la libertà religiosa è qualcosa che interessa tutti. Anche quelli che non credono ma hanno a cuore una società che sia plurale e inclusiva al tempo stesso, cioè una società che sia capace di accettare e valorizzare le differenze. Grazie.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie Professor Ferrari, davvero bella la sua esposizione, che nella sua semplicità ci ha permesso di collocare le diverse reticenze rispetto alla costruttività della libertà religiosa. Ringrazio anche Hoffmann del suo bellissimo contributo. Il libro lo troviamo qui adesso, alla chiusura serale di questo incontro e in libreria sempre. Saluto anche don Milani, dell’Ufficio stampa della diocesi di Milano, presente per questo libro che non casualmente nasce in questa città e con il grande Cardinale che la guida.
Trascrizione non rivista dai relatori