Chi siamo
INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
ETICA DELLA CURA MEDICA
Presentazione del libro di Elisa Buzzi, Docente di Filosofia Morale presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia all’Università degli Studi di Brescia (Ed. La Scuola). Partecipano: l’Autrice; Giorgio Bordin, Direttore Sanitario dell’Hospital Piccole Figlie di Parma.
A seguire:
IL PADRE LIBERTÀ DONO
Presentazione del libro di Claudio Risé, Psicanalista e Scrittore (Ed. ARES). Partecipano: l’Autore; Mariolina Ceriotti Migliarese, Neuropsichiatra Infantile e Psicoterapeuta.
A seguire:
LE INFRADITO BLU
Presentazione del libro di Felice Achilli, Direttore dell’Unità Operativa di Cardiologia all’Ospedale San Gerardo di Monza (Ed. Itaca). Partecipano: l’Autore; Roberto Fumagalli, Direttore dell’Anestesia e Rianimazione 1 dell’A.O. Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano.
INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
Ore: 19.00 eni Caffè Letterario A3
ETICA DELLA CURA MEDICA
Presentazione del libro di Elisa Buzzi, Docente di Filosofia Morale presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia all’Università degli Studi di Brescia (Ed. La Scuola). Partecipano: l’Autrice; Giorgio Bordin, Direttore Sanitario dell’Hospital Piccole Figlie di Parma.
A seguire:
IL PADRE LIBERTÀ DONO
Presentazione del libro di Claudio Risé, Psicanalista e Scrittore (Ed. ARES). Partecipano: l’Autore; Mariolina Ceriotti Migliarese, Neuropsichiatra Infantile e Psicoterapeuta.
A seguire:
LE INFRADITO BLU
Presentazione del libro di Felice Achilli, Direttore dell’Unità Operativa di Cardiologia all’Ospedale San Gerardo di Monza (Ed. Itaca). Partecipano: l’Autore; Roberto Fumagalli, Direttore dell’Anestesia e Rianimazione 1 dell’A.O. Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano.
CAMILLO FORNASIERI:
Benvenuti a voi tutti, cominciamo questo secondo appuntamento di Invito alla lettura proposto dal Meeting, una selezione di libri scelti attraverso proposte e ricerche, volte a documentare il tema che ci guida come intento di conoscenza ed educazione alla scoperta di ciò che è l’uomo e di ciò che lo costituisce. Abbiamo tre proposte, una in fila all’altra, compresi i cambi degli ospiti. Cominciamo con la prima dell’editrice La Scuola, si chiama Etica della cura medica. L’autrice è Elisa Buzzi: è un libro molto interessante, prende le mosse dal suo lavoro di ricercatrice e filosofa, e dal dialogo con gli studenti a Brescia dove insegna Filosofia morale nel Dipartimento di Specialità mediche chirurgiche e sanità pubblica dell’Università degli Studi. Finalmente un filosofo scende in campo per sostenere questa necessità di riflessione che i medici hanno ed esprimono a vari livelli: ma le domande su come oggi si vive il lavoro del medico da parte di chi lo esercita, e su come si vive il dolore da parte del paziente, sono argomenti all’ordine del giorno. Una palata di informazioni, grida, norme vanno a coprire l’essenza di questo rapporto tra medico e paziente che il lavoro di Elisa Buzzi vuole riprendere, sia dal punto di vista storico che culturale, con uno sguardo molto vicino ai nostri tempi. Ritrovare i fondamenti è necessario perché spesso difficoltà e domande generate dalla tecnologia e dagli influssi culturali sul senso del tempo, del limite e del dolore trovano spazio in quella che si chiama riflessione bioetica, che dovrebbe essere l’ultima appendice perché è legata alla domanda: che fare, come risolviamo le cose? È una riflessione filosofica sulla medicina, ovvero una conoscenza del vero. L’assenza di questa riflessione filosofica nel nostro tempo è esattamente la controprova dello stato di crisi, di incertezza e disagio che viviamo a tutti i livelli e in cui cerchiamo la soluzione nella norma, tanto è vero che il diritto è come una grosse bolla abnorme, soprattutto in Italia. È un punto di vista morale, offerto dalla capacità di condividere i legami con le cose, legami tra due esperienze che si guardano in modo diverso. Un grande apporto, un approccio di livello sia universitario che divulgativo.
Do la parola a Giorgio Bordin, Direttore sanitario dell’Hospital Piccole Figlie a Parma e consulente dell’Alma Mater su questi temi, a Bologna, sull’onda della mostra itinerante del Meeting Curare e guarire. A lui la parola, poi ascoltiamo l’autrice.
GIORGIO BORDIN:
Mostra una slides con Autoritratto di Rembrandt.
Siamo nel 1627. Questo è Rembrandt, ha 21 anni, è giovane e già affermato: qui si nota più la sua età che non il fatto di essere già famoso. Nel 1630, anni cruciali per il percorso che faremo, si era creata una così buona reputazione da ricevere numerosi incarichi ad Amsterdam per la realizzazione di ritratti. Infatti lì si trasferirà: possiamo immaginarlo con stupore a guardare questa grande città, sede di prestigiosi professionisti delle Gilde mediche, ovvero le nostre attuali università, luoghi indiscussi e legittimati dalla nuove epistemologie. Per una di queste, dipinge l’opera che vediamo. E’ un dipinto di cui sappiamo tutto: gli antecedenti, le date. E’ del 1632: conosciamo il nome del cadavere che rappresenta, e la ragione sentenza per cui fu messo a morte per impiccagione: aveva rubato della frutta al mercato. Si legge anche il documento della Gilda dei medici come imprimatur della legittimazione per la realizzazione. Questo quadro è famosissimo, è una vera e propria Lezione di anatomia: i medici si sono accapigliati per tutta una serie di cose come una benda sul polso che fa molto discutere gli ortopedici. I medici a volte salvano la vita dei loro pazienti ma sono bravissimi a distruggere l’arte, quasi quanto i critici.
In questo secondo autoritratto del 1663, Rembrandt ha 57 anni: è molto maturato, non è più un giovane, non ci guarda più con gli occhi di chi non conosce il mondo ma ci guarda con gli occhi maturi di chi, sotto l’apparenza delle cose, sa guardare e giudicare: non a caso è un artista. Proprio in questo periodo della sua vita, esattamente tre anni prima, ancora commissionato dalla Società scientifica dei Chirurghi di Amsterdam con il dottor Deyman, fa la sua seconda Lezione di anatomia. Anche qui c’è l’opera settoria di un altro condannato. E anche qui sappiamo tutto: il quadro è del gennaio 1656, ne abbiamo solo una parte perché nel 1723 un incendio distrugge parte della tela. Si conserva solo il frammento centrale da cui si deduce che il maestro della Gilda partecipa alla dissezione del cervello. E’ un quadro molto diverso dal precedente. Intanto, nella citazione de Il compianto sul Cristo morto di Mantegna, questo corpo cessa di essere il corpo del condannato e diventa l’icona della morte, come termine senza senso di ogni vita, come rapporto improvvido tra un delinquente e Cristo, come non senso della morte di ogni vita, anche di una vita senza senso. Quindi, il quadro, a differenza del primo, diventa una riflessione seria sull’umano. L’addome, la carne inanimata, la calotta cranica tenuta in modo amletico dal dottore, rimandano ad una urgente ricerca di significato. E questa ricerca è all’origine di ogni gesto veramente umano.
C’è voluta la vita intera di un uomo intelligente, il compiersi di una maturità dentro un percorso umano che è stato fatto come esperienza e conoscenza, per spostare lo sguardo che dalla visione riduzionista e pragmatica della prima tela diventa molto più grande nella seconda tela, che dice che in gioco c’è molto di più, senza mettere in discussione l’approccio scientifico, non riducendosi a quello. E tenete conto che Rembrandt fa questo in contrapposizione con il pensiero razionalista che imperversa in quegli anni nei circoli culturali della nuova epistemologia che Cartesio riassume, che sta iniziando, come una marcia a tappe forzate il cui culmine sarà Claude Bernard, cui va la responsabilità, come dice Scola nella prefazione del catalogo della mostra di cui parlava Camillo, di aver trasformato l’arte terapeutica in medicina sperimentale. Claude Bernard completa il passaggio tra salute e malattia in cui (uso parole di Buzzi), la distinzione tra patologico e normale è assolutamente qualitativa ed ha come componente fondamentale la differenza tra i movimenti naturali della fisica aristotelica verso la trasformazione di un concetto di malattia quantitativa: la misurazione dei fenomeni in termini quantitativi sostituisce i concetti di equilibrio, eucrasia che definisce la salute in tempo ippocratico. Il problema è che oggi, nella mentalità corrente, sembra che tutto congiuri affinché questo vantaggio di consapevolezza, che Rembrandt ha saputo fare nella sua esperienza di artista, si ripeta con la stessa lucidità per il solo fatto di essere curanti di un uomo sofferente. Anche perché l’aspetto razionale e scientifico che la medicina promette nella sua lotta contro il male non può non essere il punto di partenza per chiunque voglia intraprendere questo mestiere.
Sono appena stato alla mostra di Chesterton dove si dice che per amare bisogna lottare e che per lottare bisogna amare. Togliere, come oggi si vuole, la lotta dall’amore è veramente una riduzione indebita. Per meno di questo gusto, evitiamo di fare medicina, facciamo un altro lavoro. Non si può fare il medico vivendo nelle retroguardia una partita persa, vivendo una disillusione da crocerossine cattoliche confinate in una riserva indiana, di medicine palliative affascinate dallo spiritualismo come se fosse una nuova frontiera della medicina, solo perché sembra controbattere uno spiritualismo che non vogliamo più.
La voglia di usare la medicina per sconfiggere la morte e la malattia è il primo serio punto di partenza per cominciare a studiare medicina. Bisogna sentire il fascino della guerra contro il male e la morte. Però, proprio nell’esperienza di chi ha uno sguardo aperto sul reale, si capisce che questo non basta: e questa è la molla per superare un atteggiamento iniziale come arma potente al bisogno di felicità dell’uomo.
Da questo punto di vista, il libro è un aiuto importante in questo viaggio non scontato, per rendersi conto ed attrezzarsi intellettualmente e capire cosa vuol dire cosa brucia nel petto appena mettiamo un piede in corsia e abbiamo il coraggio di mettere la testa dentro una camera e guardare e parlare con qualcuno che sta male, invece di entrare in uno studio medico per guardare lastre ed esami. Soprattutto, è la speranza di non attendere di doverlo fare da vecchi, perché i conti non tornano più o non sono mai tornati e siamo ormai alle porte della pensione. L’inizio del libro afferma con certezza questa dimensione profonda, l’origine stessa della medicina. Per esempio, dice questa frase: “La medicina offre un punto di vista illuminante per la dimensione filosofica perché implica e descrive una condizione umana dell’essere persona, e pone una serie di questioni sul significato e sulla dignità di tale condizione: salute, malattia, sofferenza, vulnerabilità, dipendenza, mortalità e fragilità umana”. Ovvero, la medicina che informa la filosofia e la filosofia che informa la medicina. E poi, dopo poche pagine, c’è una citazione importante sulla deontologia. Oggi è in revisione il codice deontologico medico, in modo molto pericoloso. Sta diventando un grimaldello per il mutamento delle norme morali di riferimento. Ma è un modo scorretto di utilizzare la deontologia.
Elisa definisce la deontologia come la specificazione della fondamentale motivazione morale, delle norme di comportamento: e viene detto che non bisognerebbe rimproverare a queste norme di deontologia di non dire niente sulle fonti morali. Esse non sono mute ma non rientrano nel campo della deontologia. Il non detto, però, qui è più grave perché il non detto qui è la nozione stessa di salute. Questo mi fa venire in mente una frase di Victor Von Weizsacker, che dice che il fatto che la medicina moderna non possegga una dottrina sull’uomo malato è sorprendente ma innegabile. Questa frase sintetizza bene quel nocciolo del disagio che noi pazienti, attuali o potenziali, o curanti percepiamo. Questa è la vera malattia moderna, quella di far fatica a percepire che cosa sia la salute e che cosa sia la malattia. Infatti viene detto riguardo all’autodeterminazione, che nel campo dell’etica è spesso ipertrofizzata, come questa possa essere una condizione ambivalente, essendo da un lato la condizione sorgiva per il radicarsi dell’agire morale, e dall’altro un limite che conduce all’autoreferenzialità, in cui la libertà coincide pienamente con l’autodeterminazione. Quando è così, ce ne accorgiamo. Quello che rimane è un uomo solo, sano o malato, ma incapace di vivere il nesso del suo particolare col tutto, di chiedersi che cosa stia a fare al mondo.
Questo quadro di Munch, bellissimo e durissimo, è emblematico. Il titolo è Tra la pendola e il letto: il tempo è diventato nemico della conoscenza dell’uomo e la vita si muove negli spazi angusti del letto e quindi della disabilità. Dov’è l’origine di questo? L’origine antropologica di questa frantumazione atomica il libro la mette in Cartesio e nell’empirismo di Hume, cioè nell’età dei Lumi, che mi sembra aver gettato più ombra che luce sulla conoscenza dell’uomo e dell’essere più profondo. Cosi l’atomismo sottrae tutte le finalità e le proclività al mondo, e la realtà viene ridotta alla macchina dello iatromeccanico che è cosi cara a Cartesio: la malattia diventa un guasto e la medicina è semplicemente il meccanico che aggiusta i pezzi. Ma porta con se un’idea di atomismo astratto, autosufficiente, che non avanza mai di un passo oltre se stesso, e non può rispondere allo sguardo di chi ti guarda e chiede di prenderti cura. Io direi che il libro è da leggere, non solo perché vale la pena ma perché è utile a ripercorrere tutti i punti essenziali. Prendo solo uno spunto dalla copertina. Io penso che una delle cose più difficili per chi scrive un libro è trovare un titolo e per chi lo edita di trovare una copertina. In copertina, c’è un quadro che si intitola la Visita del medico, sempre intorno al 1650, 60: è una scena che sembra proprio un omaggio all’arte medica, la palpazione del polso, l’ispezione delle urine, l’ambiente domestico, molto attuale visti i tempi attuali in cui si chiede di deospedalizzare la medicina che dovrebbe essere sempre più personalizzata.
Ma in realtà non dobbiamo farci ingannare, perché la scena dipinta nasconde ben altro: intanto, appartiene al ciclo dei quadri sul Mal d’amore, è una ragazza svenuta che preoccupa la madre che ha chiamato il medico: non sa che la figlia ha una gravidanza illecita. Nel quadro, coerente con la tradizione pittorica fiamminga, ci sono alcuni particolari che in realtà svelano la verità della scena.
Esso è un monito, un enigma, qualcosa da riconoscere che non sia un inganno, quindi, qualcosa che è sempre presente in molte persone che parlano di etica sanitaria. Perché si parla molto a vuoto di etica sanitaria, e anche in questo il libro è una sfida presente: se lo leggerete, vi accorgerete che la battaglia è vinta. Leggere per credere.
CAMILLO FORNASIERI:
Efficace e immedesimante, chiedo ad Elisa Buzzi di contribuire ad un’ulteriore comprensione di questo invito. E’ anche il motivo per cui hai scritto questo libro che credo non sia solamente una documentazione ma un programma, una prospettiva offerta al mondo di chi opera e di chi riflette. Perché vedi necessaria questa consapevolezza oggi? Mi pare possa essere una prospettiva anche di come concepire i grandi cambiamenti e le grandi dislocazioni, i grandi numeri di persone che oggi necessitano di questo rapporto tra tempo e senso che va modificandosi.
ELISA BUZZI:
Ringrazio Giorgio per la bella presentazione, e per rispondere a quello che chiedevi dico che, grazie al cielo, non ho dovuto scegliere io né la copertina e in realtà neanche veramente il titolo perché, parlando con la persona che me l’ha proposto, il professor Fabris che è il direttore della collana di queste Etiche Speciali, dialogando con lui, l’idea era di scrivere un libro sull’etica mitica e quindi non un libro di bioetica in senso stretto, di cercare di puntare l’attenzione sull’esperienza reale della medicina e quindi sull’esperienza della cura di ciò che il medico, l’operatore sanitario, l’infermiere, il curante fanno nella loro professione. Questo era il punto di partenza. Come diceva Giorgio, in effetti questo libro non nasce come un progetto a tavolino ma con la mia esperienza quasi decennale di insegnamento all’università di Brescia. Due cose devo dire, che nascono dall’esperienza di questi anni. La prima è che ovviamente, come diceva anche Giorgio, io sono ricercatore di Filosofia morale, incardinata però in un Dipartimento di Medicina. La mia posizione dentro questa realtà è chiaramente quasi da osservatore esterno. Non sono un medico, non pretendo di esserlo, non ho conoscenza di medicina, ho questa grande opportunità, davvero straordinaria, di vivere però dentro una realtà come quella di una scuola di medicina, di una scuola anche delle professioni sanitarie di infermieristica-ostetricia, di vivere a contatto con questa realtà e di avere iniziato, spinta da questa necessità dell’insegnamento, ad interessarmi, a leggere, a studiare, a cercare di capire cosa fosse questa realtà. Uno degli aspetti più affascinanti, al di là dei rapporti con gli studenti, con i medici, con i professori della facoltà, soprattutto con i professori, superato il primo istintivo sospetto e anche un po’ di reticenza nei confronti del fatto che io fossi filosofa, è che è iniziato davvero un rapporto molto interessante e stimolante di dialogo. Oltre a questo, io devo dire che ho scoperto tutto un mondo di letteratura, di scritti di medici, che mi interessa, non tanto di filosofi che scrivono sulla medicina ma di medici che scrivono veramente “filosofie”, cioè che fanno una riflessione critica e sistematica sulla loro esperienza. Devo dire che c’è una ricchezza straordinaria, spesso non molto conosciuta anche dagli stessi medici ma che, dal mio punto di vista – che è strettamente filosofico, non pretendo di essere nient’altro, di avere alcuna competenza in campo medico – è stata veramente una scoperta straordinaria. Man mano che andavo avanti, che conoscevo di più, che leggevo di più, che studiavo di più, che entravo più in rapporto con i miei colleghi all’università e con i miei studenti, mi sono resa conto – scusate se vi sembra una banalità, per me è stata quasi una scoperta – che il fatto che esista nella società umana qualcosa come la medicina, come la cura, anzitutto come impresa razionale, come impresa comune, cumulativa, che si trasmette nel tempo, come impresa che ha un significato profondamente umano e profondamente religioso, una tensione morale intrinseca e una storia che si trasmette, dice qualcosa di straordinariamente importante, profondo e significativo su che cosa significhi essere umani.
Osservare, guardare, ascoltare le testimonianze che nascono dalle esperienza di medici che, nel corso della storia e ancora oggi riflettono sulla loro pratica, sulla loro professione, sulla loro esperienza, è un modo straordinario per capire e conoscere di più, per iniziare a domandarsi più profondamente che cosa significhi essere umani: credo che questo sia un patrimonio al di là di qualsiasi ricchezza. Lo dico, essendo profondamente convinta di quello che dice Giorgio, ossia che la medicina non deve diventare qualcosa di diverso da quello che è sempre stata. È un’impresa scientifica, razionale, tecnica, ha questo profondo valore conoscitivo ma proprio in quanto tale, proprio perché dentro questa impresa razionale, in quanto umana, c’è anche questa profonda tensione morale, di desiderio, di lotta, come diceva lui “contro il male”, che è il significato in fondo della tensione morale. Proprio in quanto tale, non perché diventa qualcosa di diverso, allora dà uno sguardo, è un patrimonio. Non è possibile rinunciare.
La seconda questione, collegata a questo, è che il dottor Achilli, che è qui e sarà uno dei prossimi a presentare il suo testo, ha detto una volta in una conferenza che nella medicina è impossibile separare l’esperienza tecnico-professionale dall’esperienza umana che si fa. Diciamo, in altre parole, che la medicina è una pratica a tutti i livelli, in cui è possibile porsi veramente delle domande molto profonde a tutti i livelli, dal livello scientifico a quello conoscitivo, da quello tecnico-professionale a quello umano. Solo che, come diceva Giorgio, da un certo punto in poi è sembrato normale separare l’esperienza tecnico-professionale dall’esperienza umana. Nessuno nega che ci si possa porre certe domande, facendo medicina o curando persone malate. Solo che, da un certo punto in poi, è come venuta l’idea che solo certe domande abbiano a che fare con la medicina in quanto tale, con la medicina scientifica come impresa umana, razionale, cumulativa, mentre altre domande, che pure sono importanti, riguardano come dire, chi vuole. Sono una questione soggettiva, una questione che in fondo può esserci oppure no. Un’aggiunta: perché la medicina sia veramente un’impresa razionale, queste domande in fondo non sono significative. E’ uno degli aspetti che trovo di quella strana divisione, di questa autoriduzione, autolimitazione della ragione, per cui si arriva ad una dicotomia tra un materialismo esasperato da una parte ed uno spiritualismo astratto, insensato, che non credo trovi posto nella medicina. Questo è uno degli aspetti per cui ho veramente voluto aprire più che altro la possibilità di conoscere tutto un mondo di riflessione che c’è, per cui mi è sembrato importante – anche al di là delle questioni di bioetica, sicuramente importanti e urgenti – che una riflessione di questo tipo fosse necessaria, indispensabile.
CAMILLO FORNASIERI:
Concludiamo con quest’ultimo passaggio di Elisa Buzzi su questa unità dell’esperienza, su questa possibilità che abbiamo noi come persone, perché ci sono testimonianze di questa unità che tiene viva una professione e tiene viva l’umano. E non separare è il primo segno di essere obbedienti alla vita, obbedienti al dato. Quindi, un libro che apre, che dà una prospettiva. Grazie ai nostri ospiti. Il libro è disponibile già all’uscita e poi in libreria. Chiamo i nostri altri amici ospiti, Claudio Risé e Mariolina Ceriotti Migliarese per presentare il libro di Claudio Risé, che siamo molto contenti di riavere tra noi dopo qualche anno di non presenza fisica ma di contatti sempre attivi e proficui. La casa editrice ARES ci offre questo titolo, Il padre libertà dono. Claudio Risé ci ha abituato in questi ultimi tempi a questa sua riflessione sulla figura del padre. Ma con questo libro direi che acquisisce un’attualità e un coraggio di mettersi in gioco come studioso psicanalista, anche percorrendo la storia umana che ha guardato alla figura che lui ha sempre amato prendere in esame, quella del padre. Però aggiunge a questa sua figura professionale un coraggio di presenza, direi quasi di giudizio, e credo che lui se ne renda conto, anzi, qualche colpo dalla opinione pubblica può darsi l’abbia ricevuto. Perché? Perché Risé va a incunearsi, forse in maniera definitiva, in un giudizio drammatico, in un allarme. Un allarme, perché, come dice Piero Barcellona, un altro grande amico filosofo e magistrato, l’attacco alla figura del padre è diventato il leitmotiv di tutta la letteratura genericamente psicologica dei fenomeni; ma soprattutto Risé – dice – individua una sindrome generalizzata nel nostro tempo riguardo a questa figura ed è in fondo la figura dell’idealità, la figura dell’apertura al mondo, la figura dell’introduzione alla realtà, così diversa e allo stesso tempo dipendente da quella della madre, della donna, della maternità. Io non mi dilungo ad accennare alla crisi riguardo a questa figura, vi faccio solamente riecheggiare le grandi parole che rimangono di una straordinaria attualità di Charles Péguy, quando lui racconta questa figura e la identifica con quella di Dio padre che – sostiene – per far nuotare l’uomo nel mondo un po’ lo sostiene, un po’ lo lascia al suo rischio, un po’ ancora lo trattiene, lo guarda. E’ tutto il conflitto che la storia antica ha vissuto, che la natura di fatto contiene e che il cristianesimo ha sciolto, mantenendo i poli del dramma ma indicando una strada feconda e chiara. Tutto ciò che sta accadendo di violento e di ideologico, che distrugge la figura della responsabilità paterna attribuendole tutto il peso dell’errore, ci avvicina alla cancellazione stessa del cristianesimo. Sono due fattori strettamente collegati con un’influenza sull’aspetto educativo dei giovani, dei ragazzi, della percezione della propria naturalità che vediamo intorno a noi in crisi. Bene, se ho voluto contribuire un po’, se non con chiarezza almeno con partecipazione, al tema che Claudio ci rilancia, ne parla con noi Mariolina Migliarese, che è neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta e svolge la sua attività a Milano. Noi la conosciamo oggi ma lei ci conosce da tempo e allora volentieri chiediamo a lei di introdurci in questo nuovo lavoro così attuale di Claudio Risé.
MARIOLINA CERIOTTI MIGLIARESE:
Credo che il mio ruolo sia di porre delle domande al dott. Risé, di farlo parlare sul suo libro che è di grande interesse. Conosco il dott. Risé da anni, veniamo da formazioni psicanalitiche diverse ma ci siamo incontrati profondamente come modo di vedere la realtà e quindi collaboriamo su tante cose, soprattutto sul pensiero. Quando ho letto il libro del dott. Risé, mi ha colpito un pensiero. Prima ancora di porgli delle domande, vorrei incoraggiare la lettura del libro perché secondo me, nel panorama di oggi, presenta una originalità, mette in luce il fatto che in qualche modo la visione antropologica cristiana e la psicanalisi non sono nemiche. Ora da cattolica cristiana, che esercita questa attività di psicoterapia e conosce la psicanalisi, ho spesso verificato la diffidenza e la difficoltà nell’integrazione di questi due approcci. Direi che nel libro di Risé emerga invece come i due approcci, quello psicanalitico e quello dell’antropologia cristiana, non sono nemici ma possono profondamente collaborare. Dico questo perché mi sembra di poter affermare che nel mondo d’oggi, nel quale c’è una tendenza all’appiattimento del pensiero, alla omologazione delle persone su un pensiero piatto, su un pensiero poco profondo, in fondo gli unici due veri baluardi alla banalità del vivere e del pensare sono rimasti il cristianesimo e la psicanalisi. Metto in parallelo le due cose perché in fondo il cristianesimo pone tutta la sua forza sull’avere al centro la persona, la persona come unica, pensata, voluta, amata da Dio, e dà un valore alla persona individualmente, come insostituibile e non mai raddoppiabile. Quindi, non la psicologia in generale ma la psicanalisi, lavora avendo a presupposto proprio il riconoscimento del valore della soggettività di ciascuno. In qualche modo anche la psicanalisi lavora a partire dall’idea di fondo che non ci sono due persone uguali, che ogni storia è una storia personale, una storia irripetibile e che la vita di ciascuno di noi può essere letta solo all’interno di un percorso storico importante nel quale la biologia, la storia personale, il legame tra le generazioni hanno un valore molto importante e non ripetibile. Quindi, mi sembra che il pensiero del dott. Risé si innesti su questa sfida di far dialogare tra loro due cose che non sempre riescono a dialogare o sono riuscite a dialogare.
Naturalmente, credo che bisogna essere capaci di rivisitare profondamente il nostro pensiero antropologico di cristiani, il nostro modo di vedere l’uomo, che non è poi così banale, che noi stessi come cristiani dobbiamo riscoprire così come, forse, bisogna togliere alla psicanalisi tanto del politicamente corretto che in qualche modo è andata prendendo nel corso nel tempo. La prima domanda che voglio fare a Risé, il primo stimolo all’approfondimento, si innesta proprio su questo pensiero: nel sottotitolo del libro c’è la parola libertà, che tra l’altro è molto presente al Meeting di quest’anno. In tanti degli incontri torna questa parola cruciale della libertà come un appello grande a qualcosa che forse stiamo un po’ smarrendo. Ora, nel mondo d’oggi la libertà viene prevalentemente concepita come il dare libero sfogo alla propria istintività, che in psicanalisi si chiama pulsione. In qualche modo, il mondo d’oggi pensa che la persona è tanto più libera quanto più le viene dato il diritto di soddisfare come meglio crede la propria pulsionalità: uno è libero se può esercitare liberamente la propria pulsionalità. Quindi, in qualche modo si dice che si è liberi di esercitare i propri istinti quando gli istinti sono la cosa meno libera che l’uomo possieda. Anzi, si ritiene che la vita veramente piena e interessante sia la vita sovraccaricata di stimoli, la vita iper-eccitata, la vita nella quale siamo sempre alla ricerca di nuove soddisfazioni pulsionali. In un capitolo del libro, mi sembra sia il terzo, il dott. Risé mette molto bene a fuoco questa questione, aiutandoci a capire come questo modo di vedere in realtà nasconda un imbroglio molto importante e profondo. E lo fa a partire proprio da Freud, dalla psicanalisi più classica, dall’iniziatore della psicanalisi. Dice Risé: “Le riflessioni di Freud mostrano come il benessere della persona è legato al suo livello di autonomia e di libertà dalle pulsioni, quindi non dall’esercitare liberamente le pulsionalità ma dall’essere capaci di controllare le pulsioni”. Non solo, ma aggiunge che un ruolo fondamentale del padre è proprio aiutare il figlio a prendere possesso di sé, imparando a controllare l’istintualità e le pulsioni. E’ un concetto molto importante: la domanda è proprio quella di approfondire questo concetto secondo la sua esperienza clinica, così come fa nel libro.
CLAUDIO RISÉ:
Grazie, Mariolina. Sì, è un tema assolutamente centrale in tutta la questione del padre, dal punto di vista che io ho voluto assumere con questo libro, cioè quello della libertà dell’uomo che mi sembra molto legato all’emergenza uomo di oggi. Emergenza uomo, per quel che io posso vedere anche direttamente nella mia pratica analitica, è anche un’emergenza di progressiva perdita di libertà, da molti punti di vista. Ieri sera ho sentito l’intervento sulla sparizione della libertà dal punto di vista della scienza proposta oggi, che togliendo nella sua osservazione l’attenzione alla bontà, al bene e al male, in qualche modo va a tentare profondamente un aspetto fondante della libertà umana. Comunque, questo discorso è molto importante anche come rovesciamento del sentito dire adottato dalla comunicazione mediatica, per cui libertà sarebbe assoluta espressione della pulsionalità e la psicanalisi sarebbe un difensore di questo punto di vita. Non è vero niente. La psicanalisi parte certo dall’attenzione di Freud all’esistenza delle pulsioni e agli effetti anche patologizzanti produttori di nevrosi della repressione delle pulsioni, ma questo discorso è centrato sull’attenzione a cercare un equilibrio tra riconoscimento degli istinti, riconoscimento delle spinte istintuali e organizzazione di queste spinte all’interno di una visione di bene, di ritrovamento di quel bene originario che è nella creazione dell’uomo, con i suoi istinti che devono essere riconosciuti per essere organizzati e diretti verso il bene. Mentre, quando questi istinti – dice Freud – sono slegati, usa proprio la parola slegati, cioè non tenuti sotto l’osservazione e l’organizzazione da parte dell’uomo, lì si produce il male, la malattia, si produce la nevrosi.
Questo è un punto molto importante, credo, nella nascita della psicanalisi all’interno della cultura del secolo scorso ed è molto interessante vedere come invece, negli ultimi decenni, la frittata sia stata completamente rovesciata e come questo problema dell’osservazione dell’inconscio come modo di mettere sotto controllo le pulsioni sia stato tradotto invece in una liberalizzazione delle pulsioni che vanno seguite ciecamente. Contemporaneamente, è cominciata e si è sviluppata la forte critica da parte dei poteri, diciamo delle società occidentali contemporanee, nei confronti della psicanalisi. Lì io vedo uno snodo molto interessante di questa emergenza uomo, ma anche dell’osservazione culturale e dell’osservazione clinica nei confronti della stessa.
CAMILLO FORNASIERI:
Per non perdere questo excursus, ci puoi dire il nesso, il legame che vedi tra la parola libertà e la figura del padre, così comprendiamo anche questo passaggio?
CLAUDIO RISÉ:
Certo. Allora: libertà! Abbiamo tutti in mente, credo, cosa dice Giussani ne Il senso religioso, ne L’avvenimento cristiano. Libertà è la possibilità per la persona umana di riconoscere ed esprimere la propria vocazione, il proprio destino e la vocazione, il riconoscimento della propria vocazione in quanto persona umana. Questa è la libertà e io vedo il padre come testimone di questa libertà. Una delle figure più importanti, dal mio punto di vista d’autore, è naturalmente il padre dell’Antico Testamento che, all’inizio della Bibbia, nel libro dell’Esodo, invita i figli a uscire dalla loro condizione di schiavitù e riconoscere la propria terra. Ecco, lì c’è tutto il nostro lavoro perché le persone che vengono da noi riconoscono, sentono una schiavitù, una dipendenza da qualcosa che non li riguarda e non li esprime, e questo li rende infelici. Ed è questa infelicità che noi dobbiamo accogliere, cui dobbiamo partecipare attraverso il paziente: questo lavoro di trattamento del profondo, quindi riconoscimento delle immagini inconsce che vediamo emergere, è un dato clinico molto rilevante. E’ questa figura del padre che ti invita a lasciare la schiavitù e a riconoscere, ritrovare, prenderti le responsabilità di trovare la tua terra.
MARIOLINA CERIOTTI MIGLIARESE:
Nel libro torna spesso questo legame, questo parallelo tra il padre con la p minuscola e il Padre con la P maiuscola. C’è questo continuo legame del padre inteso come padre umano con riferimento al padre sovrannaturale. È un padre inizialmente padre, nell’Esodo, che porta il figlio verso la libertà, è un padre inizialmente più duro con i propri figli ribelli, un padre che si intenerisce con i propri figli. E qui c’è una frase, nel capitolo che parla proprio dell’arrivo del figlio, che mi ha interessato. Perché tu dici: “L’incontro col padre richiede la capacità dell’uomo di farsi figlio, di riconoscersi bisognoso di un padre che lo accolga. E nell’antropologia cristiana questo viene con l’incontro con il figlio del padre, che è rappresentato con la figura di Cristo”. Mi sembra di capire dal libro che c’è una sorta di doppio movimento per diventare pienamente adulti. C’è il movimento del padre, che riguarda sia il padre spirituale, il padre verticale, che il padre orizzontale. C’è un movimento che è quello del padre verso i figli, questo padre che cerca e ricerca continuamente i figli. Cosi come nella vita del bambino piccolo, c’è il padre che si pone continuamente ma poi c’è anche un bisogno di risposta, un doppio movimento. C’è bisogno anche che ci riconosciamo figli per poter poi assumere a pieno la nostra condizione umana. Mi interessava l’approfondimento di questo secondo aspetto.
CLAUDIO RISÉ:
Grazie, e volevo aggiungere a questo proposito che nelle ragioni della scrittura di questo libro, oltre a questo collocare il padre accanto alla libertà c’è il non inchiodarlo all’autorità esercitata come gusto del potere, che è stata la rappresentazione mediatica corrente del padre, per indebolirne il senso. È come dire le potenzialità. Mi interessava anche una sorta di de-papizzazione, cioè toglierci un po’ da questo discorso dei papà su cui, dopo aver ignorato completamente la questione del padre per decenni, si sono buttati i mass media dicendo: “I papà sono stupidi, ecc”.. Perché questo discorso secondo me non ha uscita in quanto, se noi togliamo il riferimento al Padre, il papà effettivamente non sa che fare e forse non può fare granché. Noi infatti crediamo che possiamo intervenire, possiamo studiare la crisi dell’uomo perché sappiamo che l’uomo fa parte del creato buono, perché viene da un Padre Buono che è quello lì. E’ questa, come dire, la via d’ispirazione e di azione del papà. Se noi togliamo quella cosa lì, il papà non sa che fare anche perché non sa lui stesso se è buono o cattivo, se il figlio è buono o cattivo, se il creato è buono o cattivo. Torniamo al problema di ieri sera, direi, se non cancelliamo appunto la qualità morale: anche per quello che è stato detto poco fa dell’esistenza, del creato, della persona umana, non c’é via d’uscita. Quindi, per tornare a questa situazione, la troviamo naturalmente in questo problema del rispecchiamento del figlio e del padre. E’ essenziale, ed è il dato centrale, grande del cristianesimo, questa opportunità che il Figlio del Padre offre all’uomo di farsi figlio e di farsi suo fratello, vivendo la sua vicenda, all’interno di questo riconoscimento della realtà buona di cui è portatore. E dopo questo grande evento del potere essere figlio del Padre, non solo del papà, ma del Padre che è padre anche del papà e di tutto il creato, oggi c’è una crisi grossa proprio per la difficoltà di riconoscersi in quel Padre. Cosa è successo da questo punto di vista? Credo sia interessante quello che abbiamo ascoltato ieri sera, di cui, ho visto, si parla in tanti altri incontri di questo Meeting. Che il pensiero tecno-scientifico ha sostituito a questa proposta del padre di essere figlio del padre uno strumento di auto riferimento che contemporaneamente chiude il discorso della ricerca: cioè, ha fornito lo specchio di Narciso. Tu guardati qua dentro e lì c’è tutto, è quello che diceva ieri sera a proposito di questi scienziati che dicono: prima di Darwin non c’è stato niente, non c’è stato il pensiero umano, non è utilizzabile. Ma il pensiero umano prima di Darwin era proprio questo pensiero aperto sul mondo, aperto sulla creazione, aperto sull’armonia del cosmo da ritrovare. Questo è stato sostituito – lo vediamo nella nostra pratica clinica – dallo specchio di Narciso, in cui l’uomo moderno si affaccia per trovare, scoprire la propria bellezza, la propria completezza. Ma naturalmente muore di fame da una parte e di disperazione dall’altra, perché questo specchio gli rimanda un’immagine vuota che non gli dà ragione dell’armonia del cosmo. Il cosmo viene buttato in questa operazione appunto narcisistica, autoreferenziale, l’uomo che segue la proposta di questa scienza superficiale vede, contempla se stesso, cercando una bellezza che in realtà non c’è perché quella bellezza fa solo parte e va messa in relazione, prende vita se messa in relazione con tutto il creato e col padre da cui viene.
CAMILLO FORNASIERI:
C’è spazio per un’ultimissima, telegrafica provocazione ed una brevissima risposta.
MARIOLINA CERIOTTI MIGLIARESE:
È difficile essere brevissimi perché il libro è molto denso, ma volevo sottolineare che c’è anche un capitolo dedicato in maniera interessante alla madre, al rapporto con la madre. Essendo un libro dedicato al padre, ci sono due capitoli sulla madre. Un capitolo interessante, il settimo, vuole mettere in luce il fatto che oggi anche il rapporto madre-figlio è un rapporto che non viene socialmente sostenuto, aiutato, se ne dimentica l’importanza. E a questo corrisponde, ne parlavo prima con Risé, l’esperienza clinica di queste nuove madri, mamme che sembrano cercare di fare le mamme senza riuscire a essere madri, che non è la stessa cosa. Come se, oltre la de-papizzazione, ci fosse una grande difficoltà oggi anche per il femminile a trovare il senso del proprio essere madre e a tutelare, perciò, quell’età precoce dei primi anni di vita che è cruciale nella salute psichica, più di qualsiasi altra per la persona. Quindi, vorrei due veloci parole dal dottor Risé su questo aspetto. Perché ritiene che questo stia accadendo?
CLAUDIO RISÉ:
Io sono naturalmente colpito ma anche istruito da quello che accade, anche al di fuori della nostra osservazione clinica, ad esempio la legge sul matrimonio omosessuale in Francia che cancella tutte e due le figure, il padre ma anche la madre. Si parla di genitore A e genitore B. Ora, questo è un punto centrale, secondo me, perché padre e madre sono due aspetti della creazione del mondo, dell’ordine naturale e dell’ordine simbolico e tutto questo va fatto saltare insieme, se sperano di dare consistenza a questa società narcisistica dove non c’è più la relazione col cosmo, non c’è più l’ordine simbolico e naturale e quindi non c’è più nemmeno la madre. Naturalmente, anche su questo c’è un interessante risvolto culturale della questione che riguarda la psicanalisi, perché per tutto il Novecento, in particolare da Melanie Klein, che è stata una delle grandi allieve della psicanalisi freudiana, in poi, la psicanalisi ha dimostrato la grandissima importanza della protezione del rapporto madre-figlio fin dal concepimento, e poi per molti anni dopo la nascita. Riconoscendo questo momento come costitutivo del riconoscimento da parte del figlio di essere una persona inferenziata alla madre, quindi della personalità umana e del benessere e della non insorgenza di malattie. Su questo punto, anche Freud era molto preciso, perché dice appunto che queste pulsioni slegate si sviluppano quando ci sono degli incidenti affettivi di natura traumatica, in questo importantissimo periodo. Ora, tutto questo lavoro teorico – prima da parte della Klein e dei suoi allievi, per esempio, in Italia tutta la scuola Fornari, ecc. – e poi pratico, tutta l’evidenza clinica, l’evidenza statistica, raccolta poi da Borghi, riconosciuta dalle organizzazioni internazionali, viene buttata per non parlare più del “rischio madre”, diciamo. Perché il rischio madre comporta altri discorsi, naturalmente lo status della donna, la sua protezione all’interno delle condizioni di lavoro, la famiglia. Ecco, non posso dilungarmi ma se voi guardate il libro ci sono alcuni spunti di lettura decisivi nella nostra vita presente, e dei nostri figli e del nostro futuro.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie molte a Claudio Risé e a Mariolina, che ha condiviso gli spunti e fatto le domande. Un libro importante, lo troviamo anche questo all’uscita. Ecco, domani, un avviso: Claudio Risé alle 12.15 incontra i lettori per firmare il libro alla libreria che è qui di fianco.
Ora parto dall’autore più che dal libro, Felice Achilli che ha scritto un libro per noi, Felice Achilli che conosciamo da tempo. A lui, alla sua famiglia, a sua moglie, è accaduto un fatto e ha voluto raccontarlo, ma soprattutto raccontare l’obbedienza ai fatti che lui ha visto a seguito della morte di suo figlio Andrea. Ne parla con lui un collega che è Roberto Fumagalli, credo sia la prima volta che viene al Meeting di Rimini. Questa è stata l’occasione ma l’occasione profonda è l’amicizia con Felice che nasce all’interno della loro professione medica. Roberto Fumagalli è Direttore dell’Anestesia e Rianimazione 1 dell’A.O. Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano, una figura molto impegnata, importante, che insegna in università in vari corsi ed è membro anche della Commissione Etica dell’Ordine dei medici di Monza e Brianza. Le infradito Blu è il libro che Felice ha scritto, edito da Itaca. Io voglio dire solo due cose, perché abbia poi luogo il loro racconto. Cercavo le parole per dire l’intensità di questo scritto, di questa offerta, fatta di una coralità di voci, di persone, di fatti accaduti, fin dal primo istante, come l’emergere di una realtà grande all’interno della quale Andrea è entrato, che si è via via resa più palese, quasi come un dono misterioso, dentro il tempo di questo dramma, di questa tragedia che può accedere a tutti. Ma il motivo della scrittura è il motivo di questa scoperta, di queste scoperte. Se devo dare un’immagine, mi venivano in mente le Madonne di Giovanni Bellini, uno dei più grandi scultori italiani di tutti i tempi, del Medioevo. Lui ha inventato quel modello per cui Maria, la madre, tiene in braccio il figlio e crea una certa distanza da lui, in modo tale da poterlo guardare. C’è questo sguardo possibile, questa contemplazione dovuta alla distanza: era l’immagine che mi veniva pensando al cammino che da lì è nato e che ha in questo volto, che anch’io tengo come tanti altri sul buffet della cucina, e in quello di tanti, la testimonianza di una realtà più grande. Fumagalli Roberto, ci racconti il tuo rapporto con Felice e con questi fatti?
ROBERTO FUMAGALLI:
Grazie, comincio col leggere le prime righe del libro, dell’introduzione: “Il 23 giugno 2009, alle ore 13.40, il nostro ultimo figlio Andrea di 11 anni è morto in un incidente stradale, travolto da un camion mentre si trovava sulla sua bicicletta, che gli avevo regalato solo due giorni prima, su una pista ciclabile vicino a casa nostra”. La sera, a casa, mia moglie Elisabetta e mio figlio Jacopo mi danno questa notizia. Jacopo è un compagno di studi di uno dei figli di Felice, Pietro. E allora cosa facciamo, cosa succede, andiamo anche noi in ospedale, andiamo a Lecco, stiamo vicini un attimo a Felice e a Pietro? Con Felice avevamo avuto un rapporto essenzialmente di amicizia professionale, ma non così profondo. Lui è un po’ più giovane di me, era compagno al liceo di mio cognato e qualche volta l’avevo incontrato, poi ci eravamo trovati in università, abbiamo lavorato un po’ insieme all’ospedale di Monza, poi le strade si erano separate. Io ero andato a Bergamo e lui a Lecco, ci eravamo sentiti telefonicamente per questioni di lavoro ma abbastanza generiche. Allora, quella sera arriviamo a Lecco e vediamo tanta gente che si conosce. Andiamo verso la rianimazione e troviamo Felice, un abbraccio, qualche lacrima e poi tanta gente che lo salutava. Noi ci mettiamo in disparte e a un certo punto usciamo per dire il rosario, e la nostra percezione è che tutte le persone che erano presenti in quel momento, e condividevano il dolore, avevano dentro qualcosa di più. Non era soltanto quello che si dice un atto di solidarietà, non era una partecipare semplicemente al dolore ma era una parteciparci con un’idea che decisamente non si fermava lì, andava al di là, c’era una condivisione di qualcosa molto più profondo. Poi siamo andati al funerale e non ci siamo sentiti per un po’ di tempo. Nel frattempo, ho avuto altre due situazioni simili, prima c’è stata la morte della figlia di un mio carissimo amico, 28 anni, una patologia tumorale cerebrale che nel giro di un anno se l’è portata via. Al suo funerale, tantissima gente – era il 15 agosto di un anno fa -, tantissima solidarietà ma non ho percepito la stessa cosa, ci sembrava che ci fosse tanta gente che voleva bene ai famigliari e alla ragazza, ma al di là di questo non c’era altro. Un terzo lutto: mia madre è morta nel febbraio del 2012, tanta gente ha partecipato al funerale e alcuni ragazzi, amici di Jacopo, durante la cerimonia hanno cantato e ci hanno accompagnato al cimitero. Anche lì ho percepito in questi ragazzi quello che avevo percepito nel 2009, quando ero andato a Lecco. La sensazione che alcune persone, tante persone, condividessero quella situazione con dentro il cuore qualcosa che andava al di là dell’evento. E allora, nel libro c’è questa immagine del popolo di Dio: vorrei chiedere a Felice qual è stata per lui l’importanza di avere vicino questo popolo di Dio.
FELICE ACHILLI:
Innanzitutto, mi scuso perché non faccio lo scrittore e mi sento un po’ fuori luogo qui. Mi ha colpito recentemente leggere l’Enciclica del Papa, dove dice che la verità e cioè la conoscenza delle cose, senza la carità, cioè senza l’amore, ti ammazza. Quello che raccontava Roberto, a cui sono innanzitutto gratissimo per avere accettato di aiutarmi oggi, è esattamente quello che potremmo descrivere: dentro questa ferita che ha messo e mette a dura prova la nostra vita e anche la verità della nostra speranza, è impossibile vivere senza la certezza che l’Andrea, noi, lo rivedremo, perché quando capita una cosa come questa non c’è un’altra risposta che soddisfi dei genitori. E che questa speranza di rivederlo è possibile solo se si fa esperienza di questa carità, di questa tenerezza di cui siamo stati fatti oggetto, come testimoniava Roberto, da subito. Oserei quasi dire che la natura di questa carità, di cui noi abbiamo fatto esperienza, e che è così diversa dalla solidarietà, sta nell’accettare di condividere fino in fondo, senza aver paura, la domanda, che quello che è accaduto a noi ha determinato. La domanda che ha sempre determinato l’alzarsi alla mattina è stata “quando lo rivedremo?”, e cioè, che cosa è accaduto veramente ad Andrea? Quello che noi abbiamo percepito è quello che raccontava Roberto: è impressionante che noi abbiamo fatto, da un certo punto di vista, la stessa esperienza di chi è venuto, cioè siamo stati convocati da un avvenimento attraverso il quale abbiamo fatto l’esperienza di sentirci più amati da Dio. E mi rendo conto che questa carità, questa tenerezza fa rinascere la vita, cioè ridà la possibilità di vivere, ed è proprio il segno definitivo dell’opera di Dio nel mondo perché, come potrete immaginare, non esiste elaborazione del lutto, non esiste strategia di ripresa, non esiste reazione, volontà che possano reggere a un avvenimento così. Per cui, noi non ci saremmo, senza questa esperienza, non di solidarietà ma di carità, di tenerezza: e questa esperienza di carità e di tenerezza è solo di chi accetta di arrivare fino alla domanda vera, che è una domanda drammatica, che riguarda non solo la vita di Andrea ma anche la nostra. E cioè, appunto, qual è il nostro destino?
ROBERTO FUMAGALLI:
Nel libro – consiglio a tutti di leggerlo – ci sono tanti personaggi, è un libro in cui si percepisce la presenza del popolo di Dio ma ci sono anche tante persone. Paradossalmente, quelle che sembrano le più fragili, più specificamente Daniela, la moglie di Felice, riescono a trasmettere cose di una forza straordinaria. Una delle cose che dice Daniela, in una situazione di questo genere: parla di “obbedire e avere pazienza”. In un altro punto, ci sono altre due esperienze che chiederei a Felice di sintetizzarvi. Riguardano due personaggi ciclopici, grandissimi, Chiara, una ragazzina di 14 anni, e Giovanna.
FELICE ACHILLI:
Mi fa un po’ ridere parlare di mia moglie, perché è l’unica che penso non abbia letto il libro, tra quelli che conosco, e che non so se lo leggerà perché non ce la fa. Comunque, ecco, io sono sempre più colpito da questa cosa. La metto un po’ sul drammatico, ma quando uno è sposato, fa a volte l’esperienza di desiderare un’intimità, una profondità che sembra essere esclusa, impossibile. Chi è sposato mi capisce, c’è sempre come un’estraneità ultima che certe volte può essere anche soffocante, che non ti fa respirare. Ecco, certamente il miracolo più grande dell’Andrea è la sua mamma, e lo dico perché, essendo io un po’ più impegnato pubblicamente di lei, finora era mia moglie e adesso sono io a essere diventato suo marito. Perché parlo di Daniela? Perché è proprio vero quello che diceva il Roberto. Quel giorno io non c’ero, ero a Lecco a lavorare, l’incidente è avvenuto vicino a casa nostra e lei è arrivata prima di me. Comunque, era solo per dire che lei ha avuto due cose impressionanti: la prima è che ha pensato “tutto quello che ho vissuto fino adesso è vero”. La seconda è che ha cominciato – e anche questa cosa mi ha sempre colpito – a pregare la Madonna per tutti, non per lei, per noi, a pregare che sostenesse tutti. Quando don Carrón è venuto al funerale, non c’era una conoscenza così profonda tra noi. La prima cosa che lei gli ha detto, quando l’ha visto, è stata: “Guarda, io sono fragile, non ce la faccio”. E Carrón le ha detto: “Certo, ma qualcuno ci ha detto che basta dire sì”. Ecco, volevo cercare di farvi capire che il sì di mia moglie è il riconoscimento di quello che vede. Lei aderisce a quello che vede, a quello che accade, a quello che ci accade. E questa cosa è impressionante perché ha una qualità a me sconosciuta, che è legata a questa certezza del suo voler vivere come Andrea vive adesso. Scusate, magari perdo un minuto ma vorrei proprio spiegarmi. Mia moglie da allora va a messa tutte le mattine prima di andare al lavoro, il martedì, alle 18, va a dire il rosario dalle sue amiche che le aprono, per questo, un convento di clausura. Questa cosa ha fatto sì che molta gente andasse con lei a messa o lì. Quello che vedo in lei non è un sì volontaristico a Dio: è come se lei fosse trascinata al sì, riconoscendo e aderendo a quello che Dio fa accadere. Questo ci ha veramente cambiato la vita: è finito l’affanno a rincorrere una cosa che non si vedeva mai, abbiamo cominciato a capire che la fede è consentita da quello che si vede, non è un tirare avanti senza vedere. E’ guardare: noi abbiamo avuto la grazia di incontri decisivi. Due li accennava Roberto, li dico semplicemente. Un giorno, poche settimane dopo la morte dell’Andrea, un’amica di Jacopo e di Pietro, che fa l’infermiera al San Gerardo, ha una sorella, Chiara. Sono diventati nostri amici, sono di Stresa: ci chiede di andare a trovarli perché il papà e la mamma stanno malissimo. Io chiedo a Daniela: “Cosa facciamo?”, e mi stupisco perché lei dice subito: “Sì, sì, dobbiamo andare”. Per cui, la domenica prendiamo e andiamo, senza sapere bene chi fossero. Ci troviamo lì, in una famiglia squarciata dal dolore in un momento durissimo: Chiara stava male e noi non sapevamo cosa dire, cosa fare, stavamo lì. Abbiamo parlato, abbiamo bevuto un the, siamo stati insieme. Per dire il valore della comunione cristiana: Chiara a un certo punto dice sì, e lo dice in un modo… Mi permetto di leggere un pezzettino impressionante della lettera che scrive a don Carrón, la sorella. Dice così a un certo punto della sua malattia, perché voleva andare coi ragazzi quando facevano il raggio: “Io sono certa che di là in paradiso c’è qualcosa di più grande e bello che ci aspetta”, e pensate come è umano questo. “A questo faccio fatica a dare un nome ma so che è Gesù. Lui invece di me sa tutto. Sa quando sono nata e sa quando devo morire, perché è tutto scritto e io mi affido a Lui”.
Ora, voi capite che o è vero o non lo è, e se è vero niente è più come prima: la storia con Chiara, con Federica, con la Roberta, con Lino, con Valeria, è cresciuta in modo impressionante, non perché abbiamo avuto lo stesso dolore ma perché abbiamo fatto la stessa esperienza. Noi non siamo insieme, non siamo diventati amici perché abbiamo la stessa ferita ma perché abbiamo visto la stessa tenerezza. E la seconda, è la mia amica Giovanna: la Giovanna l’abbiamo incontrata quasi casualmente, è una donna incredibile, ha avuto molti figli che ha dovuto tirar grandi da sola perché suo marito – che lei dice di voler reincontrare per ballare ancora una volta il valzer – è stato ucciso tanti anni fa. Dopo anni che sembrava la vita potesse darle una tregua, arriva la diagnosi della malattia, della SLA. Una SLA molto aggressiva, che la riduce in brevissimo tempo in uno stato di totale dipendenza. Forse vi ricordate di suo figlio Stefano che ha fatto un incontro al Meeting l’anno scorso… Siamo diventati amici, l’abbiamo conosciuta perché durante il primo ricovero, lei era molto depressa: un ragazzo che conosciamo le aveva dato da leggere l’incontro che avevamo fatto con i compagni di Andrea. Lei aveva letto questo pezzo, dove si diceva che il dolore, la ferita, il piangere, in questo caso il piangere, non sono contro la fede, non sono un segno di poca fede. Abbiamo voluto incontrarci, abbiamo subito organizzato un pranzo a casa nostra, dove a pranzo o a cena si fa ormai tutto. Viene a trovarci e nasce un rapporto profondissimo che dura tuttora, bellissimo. Per esempio, a Pasqua le ho portato un uovo enorme della Lindt, che lei si è gustata e ha diviso con i suoi nipotini. Anche se non riesce a dire una parola, è una delle persone più presenti per noi, una di quelle che più sostiene la nostra vita. Andiamo a trovarla spesso, appena possiamo. Prima che proprio diventasse difficile, quasi impossibile, comunicare in modo verbale, un giorno che era molto duro per me, entro e faccio qualche battuta. Faccio sempre un po’ lo scemo quando sono in imbarazzo. Lei è grandissima, ha questo sorriso che illumina veramente la vita: e allora non ho resistito e le ho chiesto: “Ma scusa, Giovanna, ma Gesù e te, lì così, ma è proprio vero?”. E lei – se prendete il libro lo trovate scritto meglio, mi ha impressionato perché allora poteva rispondere solo col computer, scrive: “E’ la mia croce”. Ma mi guardava come per dirmi: “Lo so perché mi fai questa domanda, perché te la fede non sai neanche che cos’è”. Allora io non resisto e le dico: “Sì, ho capito Giovanna, ma perché?”. E lei: “Ha delle pretese assurde ma mi fa dei regali bellissimi”. E ancora io non resisto: “Scusami, ma che pretese ha?”. E lei mi dice: “Che io porti la mia croce e che aiuti a portare la sua per la salvezza del mondo”. “E che regali ti fa?”. La sua risposta non la dimenticherò mai: “Voi, per esempio”. Da quel giorno non riesco più ad andare in ospedale senza entrare nelle camere. Capisco che magari non devo fare chissà che cosa, c’è gente che lavora con me anche più brava, non è questo il punto: ma se non entro, se non abbiamo la consapevolezza di quello che siamo a noi stessi e per gli altri, rischiamo di perdere la vita. Per cui, lei è diventata una delle persone più decisive per la nostra famiglia: e il libro è esattamente pieno di questi incontri.
ROBERTO FUMAGALLI:
Per un certo periodo di tempo, non ci siamo più visti né sentiti. Dopo un po’ mi telefona e mi dice: “Roberto, vuoi venire in Terra Santa? Sto organizzando un viaggio”. Gli rispondo: “Felice, come mai?”. E lui è stato così convincente che ne ho parlato con Elisabetta, mia moglie, e coi ragazzi e tutta la famiglia è andata. Non ricordo bene le sue parole ma ricordo quanto ha scritto poi don Ciccio, la persona che ci ha condotto in questo viaggio straordinario dove siamo andati a rivedere delle realtà che sono alla base di una speranza che ci consente anche di superare situazioni come quella di Felice. Allora, è don Ciccio che parla e dice che si tratta di “andare insieme nei luoghi dov’era accaduto quell’avvenimento impensabile, che costituiva la sostanza della loro speranza, cioè il figlio di Dio fattosi uomo per compiere nella sua carne l’obbedienza perfetta al Padre, e così vincere nella sua morte l’umana morte”. E vi dico che in tutto il viaggio, di una semplicità estrema, con la suggestione ad esempio del lago di Tiberiade, sentendo il vangelo e chiudendo gli occhi, ci sembrava davvero di essere tornati indietro nel tempo e questo ci ha fatto capire alcune delle cose che Felice ci aveva detto e quale fosse il fondamento dell’esperienza di questo popolo che ha aiutato e aiuta continuamente a superare vicende di questo genere. Ed è solo per finire in quest’ottica, che la parola di Benedetto XVI, “O c’è la fede o non c’è niente” assume un significato particolarmente importante.
FELICE ACHILLI:
Io, però, siccome l’ho promesso a mia moglie, devo rubarvi un minuto per ringraziare Roberto e anche sua moglie che sono venuti dalla Calabria, dalla vacanza. Vorrei si capisse la questione che il libro propone e ripropone a me, esattamente come a voi. Lo faccio rileggendo il dialogo fra Marcellino e Gesù che ho dovuto rincontrare tramite un mio amico cardiologo, siciliano di origini che vive a Bergamo e che, essendogli caduto il quadro di Marcellino la notte del funerale, ha preso la moto, l’ha fatto mettere a posto e me l’ha portato. Era il Volantone di qualche anno fa di CL, la storia la sapete, Marcellino era orfano di padre e di madre e viveva così profondamente questa realtà che si inventava l’amico per giocare, perché viveva con soli adulti. Scopre il solaio che è un posto bellissimo per i bambini e, dentro il solaio, questo crocifisso. Il problema è che il crocifisso gli parla, e allora – è la scena finale del film – dobbiamo immaginarci lo sforzo di rendere il momento dell’incontro col destino. Dice: “Non sei arrabbiato, che non sono venuto ieri?”. “No, il tuo cuore era qui con me, io ti vedo sempre e so perché non sei venuto, ma tu hai pensato a me come pensi alla tua mamma”. “Anche la mia mamma mi vede sempre?”. “Sì, sempre, a che pensi, Marcellino?”. “Dove sarà la tua mamma adesso?”. Perché un bambino non è contento solo di sapere dov’è la sua, uno che guarda veramente le cose non può non percepire il legame tra la propria felicità e la felicità del mondo. E allora chiede a Gesù: “La tua, dov’è?”. “Con la tua” gli dice Gesù. “Come sono le mamme? Che fanno?”. “Danno, danno sempre”. “E che danno?”. “Tutto se stesse, la vita e la luce degli occhi e i figli”, che vuol dire la fede, cioè vuol dire danno la capacità di guardare, di guardare le cose come stanno “finché diventano vecchie e curve”. “Anche brutte?” chiede Marcellino. “No, brutte no, le mamme non diventano mai brutte”. “Tu vuoi molto bene alla tua mamma?”. “Con tutto il cuore”. “Io alla mia di più”. E qui Gesù è impressionante perché gli dice: “Bravo Marcellino, tu sei un bambino buono e io ti voglio dare in premio quello che più desideri al mondo”. E’ impressionante perché la carità di Dio nei nostri confronti è tale che gli chiede le cose che lui poteva desiderare, perché aveva vissuto sempre lì. “Vuoi diventare come fra’ Pappina, come fra’ Bernardo, oppure come Manuel, il tuo amico? Vuoi che Manuel venga a giocare con te?”. E allora lui dice: “No, io voglio soltanto vedere la mia mamma e poi la tua”. “E vuoi vederle adesso?”. Qui introduce la questione della croce: “Dovrai dormire”. Per un bambino, dormire è una roba tremenda. Ecco, quello che voglio dire è che la verità di questo dialogo in cui noi fondiamo la certezza della vita si capisce dal fatto che questa presenza redime la vita normale, cioè ridà spessore, densità alla contraddizione, a tutto, rende perfino, non bella perché bella non è, ma cara la ferita che hai, perché attraverso questa ferita per noi è ricominciata questa vita. Mi scuso del tempo e vi ringrazio dell’attenzione.
CAMILLO FORNASIERI:
É bello, è grande parlare di queste cose così e scoprire che il dono più grande ci è consegnato attraverso tutte le circostanze. Il libro ha questa forza e questa struggente bellezza di andare al fondo e chiederci ora, adesso: dov’è il tuo amore? Grazie, Felice, perché mi pare che anche facendo il libro hai aderito alla dimensione comunitaria che traspare da tutta questa storia, hai fatto un gesto di nascosto, dove ci dai una cosa, hai voluto seguire ancora, io la sento così. Grazie a Fumagalli, felice di averti incontrato.
Trascrizione non rivista dai relatori