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AD USUM FABRICAE. L’INFINITO PLASMA L’OPERA: LA COSTRUZIONE DEL DUOMO DI MILANO
Ad Usum Fabricae. L'Infinito plasma l'opera: la costruzione del Duomo di Milano
Partecipano: Mariella Carlotti, Insegnante e Curatrice della mostra; Roberto Cresta, Titolare dell’Azienda Bordline Srl; Erasmo Figini, Presidente dell’Associazione Cometa; Martina Saltamacchia, Assistant Professor of Medieval History at University of Nebraska (Omaha) e Curatrice della mostra. Introduce Bernhard Scholz, Presidente della Compagnia delle Opere.
AD USUM FABRICAE. L’INFINITO PLASMA L’OPERA: LA COSTRUZIONE DEL DUOMO DI MILANO
Ore: 19.00 Sala A3
BERNHARD SCHOLZ:
Un cordiale benvenuto a voi tutti. Un benvenuto a questo incontro sulla mostra “Ad Usum Fabricae: l’infinito plasma l’opera”, che presenta la costruzione del Duomo di Milano. Chiunque veda il Duomo, rimane affascinato dalla sua bellezza ma spesso si rimane a livello di un fascino immediato, all’apparenza superficiale, rischiando di perdere il nesso tra questa grande opera e la propria vita. Il Duomo esprime un significato che riguarda la vita di ognuno, il senso della nostra esistenza, il senso del nostro lavoro, della vita sociale, del destino del mondo. Parlare della costruzione del Duomo, non ha quindi niente di nostalgico, è lontano da un interesse semplicemente storicistico, non ci porta indietro e non ci evita il confronto col presente, anzi, noi abbiamo scelto questa mostra proprio per la convinzione che le persone che hanno costruito il Duomo, della terra di mezzo di Milano, possono insegnarci, anche oggi, il senso della nostra vita sociale, possono aiutarci a comprendere il compito della nostra vita, ad aprirci nuovi orizzonti spesso offuscati da illusioni, nostalgie, da varie preoccupazioni, da risentimenti paralizzanti e farci invece riscoprire il senso del lavoro come espressione del nostro rapporto con l’infinito, del nostro desiderio di essere utili al mondo, di costruire bellezza e un’economia al servizio della persona.
Non erano perfette le persone che hanno costruito il Duomo, hanno contribuito, però, tutti, tutti vuol dire tutti, senza eccezione, nei modi più diversi, alla sua costruzione. Erano persone che vivevano nelle loro miseria per un ideale infinito ed erano convinti che questo infinito poteva far risorgere le loro vite. Ed è per questo che hanno costruito insieme questo Tempio, come espressione del loro desiderio di accoglienza umile e coraggiosa dell’infinito nel loro presente, nel presente della loro vita, delle loro case, delle loro botteghe, della loro città. Hanno fatto l’esperienza che edificare un’opera edifica l’io e rafforza il noi. Quindi sono profondamente grato per questa mostra, e ringrazio di cuore chi l’ha realizzata: Mariella Parlotti, insegnante a Firenze, che ci accompagna, dal Meeting del 2008, nel nostro tentativo di rendere presente attraverso opere artistiche il nostro ideale, la nostra speranza e quindi la nostra vita; Martina Saltamacchia, docente di Storia Medievale all’Università del Nebraska – a proposito di giovani che fanno all’estero cose incredibili – che ha fatto ricerche eccezionali e decisive sul Duomo di Milano; poi Marco Barbone, che ha realizzato, insieme ad Andrea Benzoni, la mostra e il catalogo. Un ringraziamento particolare va al Presidente della Veneranda Fabbrica del Duomo, Angelo Caloia, per la sua grande generosità con la quale ha messo a disposizione gli oggetti che avete visto o che vedrete, che ci hanno molto facilitato l’immedesimazione. Un saluto anche particolare a Erasmo Figini e a Roberto Cresta, che presenterò più avanti, che sono qua per raccontarci le loro esperienze, come espressione di ciò che questo mostra vuole rappresentare. Cominciamo con la presentazione della mostra. La parola alle due artiste scientifiche.
MARIELLA CARLOTTI:
Voglio dire subito una cosa, che è una reazione a caldo a questi giorni, perché in questi giorni vedendo le migliaia di persone che sono venute a vistare la mostra e lo stupore con cui seguono le cose che raccontiamo e che facciamo vedere, io ero come dominata da un sentimento: che la cosa più impressionante non è la storia del Duomo di Milano, perché non c’è una cosa più triste di una bellezza passata, ma la cosa più impressionante è che ci sia oggi della gente che si commuove di questo, che si accorge di questo: questa è la cattedrale vivente, presente, che si commuove della cattedrale passata. Abbiamo scelto quest’anno di fare la mostra dedicata ad una cattedrale, perché certamente, se nella nostra civiltà c’è un edificio che esprime questa natura dell’uomo come rapporto con l’infinito – che lo esprime, che lo educa – questo è la cattedrale; ma la mostra è dedicata, non tanto alla cattedrale dal punto di vista religioso liturgico o storico artistico, ma alla cattedrale come opera del popolo, nel suo rapporto con la città. E, infatti, l’interesse della mostra è centrato particolarmente sul cantiere della cattedrale, su chi e come costruì la cattedrale di Milano, la cattedrale di Milano che è l’ultima grande cattedrale italiana, edificata a partire dal 1386, il cui cantiere è durato più di 6 secoli, quindi un lunghissimo lavoro: generazioni e generazioni che hanno tirato su una cattedrale che non hanno visto compiuta.
Infatti, fu l’arcivescovo di Milano Antonio da Saluzzo che, il 12 maggio 1386, invitò i fedeli di Milano a edificare una nuova cattedrale al posto dell’ormai diroccata Santa Maria Maggiore. Il primo che aderì con entusiasmo a questo invito fu Gian Galeazzo Visconti, il Signore di Milano, che mise a disposizione della fabbrica del Duomo la cave di marmo di Candoglia e garantì l’esenzione dai dazi per le merci destinate al Duomo, che recavano su la sigla AUF, ad usum fabricae, da cui il titolo della mostra. Della cattedrale di Milano, del Duomo di Milano, innanzitutto noi sottolineiamo, all’inizio della mostra, alcune caratteristiche formali che la rendono in qualche modo unica. La prima è che è una cattedrale costruita in marmo, nel bellissimo marmo rosa di Candoglia, il materiale usato in larga parte anche come materiale costruttivo, non più, come per esempio a Firenze e Pisa, semplicemente come materiale di rivestimento; l’enorme quantità di marmo per costruire il Duomo spiega anche la lunghezza del cantiere.
La seconda caratteristica è che certamente il Duomo di Milano ha una forma unica, una forma unica nel panorama delle cattedrali italiane e non solo perché fu costruita molto tardi, ma perché volle imitare i modelli delle grandi cattedrali d’oltralpe: assomiglia infatti più alle cattedrali francesi e tedesche che non le cattedrali italiane. Eppure, sotto le forme del gotico internazionale, è molto leggibile la struttura ambrosiana del Duomo. A me particolarmente ha colpito come il Duomo di Milano sia una sorta di popolo di Santi in pietra; infatti le statue dei Santi, che avvolgono tutto il perimetro della cattedrale, sono più di 3000, decorano la facciata, tutto il perimetro della cattedrale e coronano tutte le guglie, perché è chiaro, nella tradizione ambrosiana, che non è possibile un rapporto vivo con Cristo, se non attraverso il popolo dei suoi Santi. Questo popolo, che segna anche la forma della cattedrale, questo popolo di Santi, culmina nella Santa per eccellenza, cioè Maria, a cui la cattedrale, con il titolo di Nascente, è dedicata. La Madonna, la grande statua dorata della Madonna, domina dall’alto la guglia maggiore del Duomo di Milano; a me ha impressionato una poesia di Rebora, che infatti abbiamo messo all’ingresso della mostra, perché il poeta con pochi versi, riesce a cogliere il significato intero della cattedrale di Milano, quando dice:
“Il portentoso Duomo di Milano
non svetta verso il cielo,
ma ferma questo in terra in armonia
nel gotico bel di Lombardia:
mistico afflato va per le navate
la Presenza del Verbo:
e in tripudio di luce all’esterno
nuova umanità saliente sboccia,
e dall’Unica Persona
in vertici di santi rifiorisce
dietro il materno invito di Maria
che da Nascente si fa via via
Assunta; e il popol definisce, e accosta
a sé a farla più vicina, dice
Madonnina”.
Anche l’interno del Duomo di Milano è segnato dalla presenza dei Santi, le tre grandi vetrate dell’abside disegnano le storie dell’Antico, del Nuovo Testamento e dell’Apocalisse; la luce di Cristo chiarifica il passato, il presente e il futuro e la luce invade lo spazio della cattedrale che è segnato da 52 grandi pilastri, tante quante sono le settimane dell’anno: è il tempo che conduce l’uomo all’incontro con Cristo, ma non il tempo vuoto, il tempo popolato dai Santi.
Infatti i piloni sono sottolineati dai grandi capitelli a tabernacolo che ospitano otto grandi Santi e da 16 a 32 piccoli Santi come una grande processione di Santi, che accompagna il fedele verso l’altare; ma se di popolo è la forma della cattedrale, il popolo fu anche il protagonista della sua costruzione.
MARTINA SALTAMACCHIA:
Chi ha costruito il Duomo di Milano? Da questa domanda è partita per me l’avventura dieci anni fa. Tutto è incominciato all’udire la frase di un amico: “La tua vita è fatta per fare queste grandi cose, come i cristiani medievali che vivevano in catapecchie e costruivano cattedrali”. All’epoca ero studente di economia e la frase mi lasciò da una parte entusiasmata, dall’altra incuriosita: ma sarà davvero così o sarà una visione romantica, idealistica del passato? Allora decisi di fare una tesi di laurea per verificare la verità e la veridicità storica di questa frase; mi venne indicato dal mio professore in Bocconi di guardare al Duomo di Milano, una cattedrale che – raccontava la tradizione popolare – era stata costituita dal popolo. Eppure, la maggior parte di libri di storia riportava invece il principe Gian Galeazzo Visconti come l’autore di questa cattedrale, come il maggior finanziatore e dunque quello cui spettava la paternità dell’opera.
Per capire chi avesse ragione, dunque, chi avesse veramente costruito la cattedrale, Gian Galeazzo o il popolo, ho intrapreso un’indagine meticolosa dei registri delle donazioni. Qui vedete un liber dati et recepti, cioè c’è un libro in cui vengono raccolte tutte le cose date e ricevute; l’archivio della fabbrica del Duomo archivia centinaia di registri dall’inizio della sua attività nel 1387 ad adesso, registri come quello che vedete sullo schermo in cui venne e viene tenuta traccia meticolosa, giorno dopo giorno, di tutti i salari, le spese per materiali, le entrate e le uscite, ma non solo: in alcuni registri, chiamati appunto Registri delle donazioni, ogni donazione per la cattedrale viene registrata. Il Duomo di Milano, a differenza di molte altre cattedrali italiane ed europee, decise all’inizio di non basarsi su una tassazione della popolazione per il proprio finanziamento ma di lasciare questo semplicemente alla volontà del popolo, popolo che in effetti, fin dall’inizio, rispose con grande entusiasmo. Vi erano diverse le modalità con cui la fabbrica del Duomo raccoglieva i doni del popolo, della gente: innanzitutto c’erano grandi lasciti, i testamenti, le case, i terreni che i milanesi lasciavano, gli anelli, i gioielli delle matrone delle nobildonne della città, ma non solo. Oltre al denaro che veniva portato, tantissimi oggetti venivano donati alla cattedrale (infatti, non tutti avevano disponibilità di denaro contante). Allora tutto poteva concorrere alla costruzione di questa cattedrale: le monetine che venivano lasciate nelle cassette, poste strategicamente ai crocicchi delle strade, davanti ai palazzi pubblici più importanti; le offerte che venivano raccolte da fanciulle biancovestite, che sfilavano per le vie della città danzando e ballando; la biada che veniva raccolta al limitare dei campi da ufficiali della fabbrica, che si presentavano davanti ai contadini e questi davano al Signore una parte dei loro raccolti in gratitudine; o ancora le centinaia e centinaia di oggetti, il pezzo di formaggio, il bottone, il pezzo di un vestito portato all’altare centrale della cattedrale in offerta.
Tutti gli oggetti raccolti, se non venivano prontamente utilizzati nel cantiere della Cattedrale, come per esempio la cera per l’illuminazione o il pane e il vino per rifocillare gli operai, venivano poi messi all’asta, una volta alla settimana, sulla piazza pubblica, banditi al miglior offerente e in questo modo monetizzati nell’arco di qualche giorno.
I registro delle donazioni tengono nota ogni giorno di tutto quello che perviene. Come vedete nelle pagine, due sono le colonne principali della pagina del registro: da una parte sulla destra, il numero, il valore di queste offerte, dall’altra parte, sulla sinistra, la colonna più fitta racconta di che cosa sia questo dono, cioè descrive il dono, ma anche il donatore, il suo nome, il suo Paese di provenienza e, se la dice, la motivazione della sua offerta.
Il primo passo della mia indagine è stato quello di andare a prendere un campione statisticamente significativo di migliaia e migliaia di questi dati e trascriverli, andando a confrontare sull’arco di un anno, quella che era la grandissima donazione annuale del principe Gian Galeazzo Visconti, pari a quattordicimila lire, con tutte le varie offerte portate dal popolo.
La prima cosa che immediatamente emergeva ai miei occhi era come la maggior parte di queste donazioni – quasi la metà – fosse costituita da donazioni di valore piccolo o piccolissimo, tra le una e le dieci lire, ma andando poi a sommare insieme sull’arco di un anno tutte queste uno, due, tre, quattro, cinque, dieci lire, il risultato è stato sorprendente. Infatti questi andavano a costituire l’86 per cento delle donazioni. Dunque, la grandissima donazione delle 14000 lire del principe costituiva semplicemente il 14 per cento; un Duomo, dunque, non solo come tensione ideale ma, davvero, nella concretezza, costruito dal popolo. Allora, di fronte alla sorpresa per me in prima persona di questa scoperta, ho deciso di concludere gli sudi di economia e, segno dopo segno, continuare, andando a cercare di capire di più, chi erano queste persone e quest’epoca da cui provenivano, il Medioevo. Allora sono ritornata in archivio per poter guardare questa volta la colonna di sinistra, quella fitta, con le indicazioni dei donatori, andando a ricercare nei vari registri dei vari anni, dei primi 20-30 anni dall’inizio della costruzione nel Duomo, i nomi che, di registro in registro, si ripetevano. Andando poi a metterli insieme, tassello dopo tassello, hanno incominciato a prendere forma le figure di alcuni donatori, le loro storie.
La prima cosa che subito mi stupiva era come tutti potevano concorrere alla costruzione della cattedrale. Non solo i pii e i devoti, ma gli usurai, i criminali, i carcerati, le prostitute: come le prostitute che arrivavano alla sera di fronte al sagrato della cattedrale e contavano quanto fatto e andavano poi a deporre una parte in offerta per la Madonna dentro alla cattedrale, dove un ufficiale le aspettava tutta la notte e non dimenticava di annotare, come loro puntigliosamente richiedevano, il loro nome, accompagnato dall’inequivocabile appellativo meretrix.
Tra le prostitute, merita una menzione d’onore Marta de Codevachi, una donna che giunge a Milano da Padova per esercitare la professione più antica del mondo e lì diventa presto famosa, soprannominata “Donona” dai milanesi e arriva possedere case, appartamenti che proficuamente affitta, gioielli, pellicce; ad un certo punto però decide di lasciare questa vita; lascia il bordello e si dedica invece a guardare chi intorno a lei ha bisogno, per cui si accorge che il convento delle suore nel quartiere dove abita versa in ristrettezze economiche, per cui le aiuta prima con donazioni in denaro e poi regalando loro un calice d’argento tempestato di pietre preziose.
Poi viene a sapere che una bimbetta è stata abbandonata, esposta in una di quelle ruote in cui venivano lasciati i trovatelli, allora la prende con sé e la alleva con amore di una figlia, chiamandola Venturina. Ad un certo punto, però, Marta si rende conto che è afflitta da un male incurabile e poco le resta ancora da vivere; decide allora di fare testamento e nel testamento chiede che tutti i suoi beni vengano lasciati alla Madonna, sempre presente nelle sue vicende umane, in particolare per la costruzione della casa della Madonna, questa cattedrale a Lei dedicata, di cui era iniziata la costruzione nel centro della città da pochi anni. Ma lascia due altre postille: la prima, non si dimentica di affidare la bimbetta Venturina agli ufficiali della fabbrica e chiede loro di prendersene cura fino alla maggiore età; la seconda, provvede che tutte le sue pellicce, gioielli vengano date all’amica, alla cara amica Novella, anche lei una prostituta, ma a questa condizione: “che, scrive nel testamento, abbandoni il bordello dove si trova al presente e che conduca una vita onesta”, come a dire, per poter far sì che anche lei potesse sperimentare quella bellezza da lei intravista. Dopo due settimane dall’aver stilato il testamento, Marta muore e la cosa più bella nella sua vita è l’atto finale, perché la fabbrica decide di additare questa prostituta all’esempio di tutta la città e organizza per questa donna un corteo funebre, con tutto il seguito dei preti della cattedrale, che parte dalla sua casa ed arriva alla Chiesa, sfilando insomma per quelle strade che per tutta la vita aveva percorso da prostituta e ora, dopo la morte, con un corteo forse degno di una Santa. Dunque, tutti concorrono: Marta, di cui qui vedete riassunta la storia – in uno dei documenti della fabbrica – ma anche mercanti spregiudicati e intraprendenti come Marco Carelli.
Queste faccine sono alcuni particolari che abbiamo ripreso dallo Zoccolo laterale del Duomo; non sono chiaramente i personaggi di cui stiamo parlando, ma ci hanno colpito perché, con la loro suggestione, gli scultori avevano scolpito facce del popolo che ci ricordavano appunto questi personaggi.
Dunque Marco Carelli, un mercante che, partito praticamente dal nulla, rinunciando all’eredità paterna, diventa ricchissimo, uno dei più grandi mercanti del nord Italia alla fine del ‘300, chiamato il Principe della mercatura medievale; si arricchisce commerciando tra Milano, Padova, Venezia, Bruges, andando a stanare le opportunità del mercato come la noce moscata che importa da Venezia e Milano, con un ricarico dell’800% o andando sempre a muoversi come molti mercanti all’epoca, nel sottile limite tra lecito ed illecito (infatti più volte viene trascinato in Tribunale con l’accusa di usura, senza troppi pensieri espropria delle proprie case decine di debitori insolventi).
Allo stesso tempo fonda a Venezia una Confraternita con 300 mercanti milanesi trapiantati a Venezia, una Confraternita per riunirsi e fare affari e andare a messa la domenica e portare il sabato e la domenica il cibo ai poveri della laguna. Accoglie in casa fanciulle povere e dà loro un’istruzione: un maestro di latino e di matematica e la dote per potersi sposare. Ad un certo punto della sua vita, il mercante ultrasettantenne, ma ancora arzillo e attivo nei commerci, decide di stilare testamento. È il 15 agosto, una data non a caso, è la data della Assunta e la data della posa della prima pietra della cattedrale nel 1386; scrive il testamento e lascia tutta la sua fortuna – 35 mila ducati, una cifra impressionante – per la fabbrica del Duomo.
Immaginate la gioia degli ufficiali della fabbrica di fronte a un dono del genere. Sennonché, proprio in quel mentre, la fabbrica versava in condizioni abbastanza gravi: carestia e pestilenze serpeggiavano per la città e la popolazione era costantemente vessata dalle tassazioni di Gian Galeazzo Visconti. Le offerte dunque incominciano a scarseggiare, la fabbrica è costretta a mettere a metà giornata tutti gli operai, a fermare tutti gli acquisti di materiali da costruzione e il proseguimento stesso dei lavori è in forse. Allora un gruppetto di delegati della fabbrica ha l’ardire di presentarsi a bussare alla porta del mercanti Carelli per chiedergli un piccolo anticipo della sua immensa donazione. Il mercante Carelli, da uomo avveduto che ben ponderava le sue scelte, ci pensa sopra qualche mese e nel marzo di quell’anno si presenta di fronte agli sbigottiti Consiglieri della fabbrica, chiedendo di poter donare, seduta stante, tutto quello che possiede.
Dunque Marco, il ricchissimo mercante Marco, trascorre gli ultimi anni della sua vita come un povero, non andando a rinchiudersi in un eremo lontano, ma continuando a fare il mercante, questa volta però a titolo gratuito, per conto della fabbrica, andando cioè fra Milano e Venezia a recuperare tutti i crediti ancora in essere, in modo da poter dare alla sua morte alla fabbrica il proprio patrimonio nello Stato più florido possibile.
Nel lunghissimo testamento – 280 righe -, non lascia nessuna menzione al funerale o al luogo di sepoltura, eppure la fabbrica decide di decretare per questo grandissimo benefattore gli onori più grandi. Marco Carelli muore a Venezia nel 1394 e lì viene sepolto, ma dopo un anno, i Consiglieri della fabbrica ottengono da Gian Galeazzo Visconti il permesso eccezionale di poter riesumare il corpo e di trasportarlo con un feretro adornato da 24 croci e 24 torce per via fluviale da Venezia a Milano. Arrivato a Porta Romana, viene issato su un carro e da lì prosegue verso la cattedrale, seguito da uno stuolo di migliaia di poveri e di cittadini milanesi. Viene poi sepolto un un’arca, in un sarcofago che viene scolpito in quello stesso marmo di Candoglia, con la sua effige, che ancora oggi potete ammirare in Duomo, nella quarta campata della navata di destra; a Carelli viene intitolata la prima guglia che, dal 1404, svetta sul retro della cattedrale, anticipo di quello che sarà tutta la cattedrale completa. Dunque doni grandi, grandissimi ma anche piccolissimi, come quello di Caterina, una vecchietta che – i registri ci dicono – era poverissima; lavorava nel cantiere con gli operai, pulendo le pietre dalla terra, ponendole poi nella gerla che portava sulle spalle e trasportandole così da un punto all’altro del cantiere.
Una mattina fredda di novembre del 1387, Caterina si reca al lavoro nel cantiere, come tutte le mattine e rimane forse stupita, sorpresa e commossa dalla lunga fila di donatori, che, come tutti i giorni, si accalcava di fronte all’altare delle donazioni; allora anche lei si accoda con gli altri, ma arrivata si rende conto che non ha nulla da donare; allora si toglie dalle spalle l’unica pelliccetta logora che la riparava dal freddo e la porta in offerta. Gli ufficiali registrano la pelliccetta, con una stima minima, del valore di una lira; il giorno successivo è un venerdì, è il giorno dell’asta pubblica; dunque anche la pelliccetta viene bandita, insieme a tutti gli oggetti raccolti quella settimana. Quando la pelliccetta viene bandita, passa lì un uomo, Manuel Zuponerio, che immediatamente riconosce la pelliccetta di Caterina. Allora si slancia, paga la lira per riscattarla e corre al cantiere per trovare Caterina e, come ci racconta questo pezzo del registro, gliela rimette sulle spalle, perché “essa, lui sapeva, versava in grandissime strettezze”. Alla sera, quando gli ufficiali guardano il Registro delle donazioni e delle vendite dell’asta, capiscono quello che è successo, intuiscono cioè che questa donna ha donato tutto ciò che aveva; allora la mandano a chiamare chiedendole: cosa desideri? Ed esaudiranno poi questo suo desiderio tre anni dopo, nel 1390, quando doneranno a Caterina, vecchietta poverissima, tre fiorini d’oro, cioè l’equivalente del salario annuale di un operaio, per poter andare a Roma a lucrare l’indulgenza plenaria concessa per il Giubileo di quell’anno. In un orizzonte grande, come quelle degli uomini che costruirono la cattedrale, ogni gesto, anche il più piccolo, acquista un valore infinito.
MARIELLA CARLOTTI:
L’ultima parte della mostra cerca di documentare che mentre questo popolo costruiva il Duomo, il Duomo ha costruito Milano. Nell’ultima parte della mostra raccontiamo questo, raccontando che il cantiere del Duomo di Milano assicurò innanzitutto alla città occupazione. Per i primi decenni, furono quattromila i dipendenti regolarmente pagati da Candoglia ai traghettatori dei navigli fino al cantiere di piazza Duomo. Ma Milano 1386 non aveva le competenze per costruire un Duomo di queste proporzioni e vediamo che nei primi trent’anni della fabbrica più del 20 per cento della manodopera è rappresentato da maestranze importate dalla Mitteleuropa, soprattutto da Francia e Germania; queste poi insegnano i mestieri al popolo di Milano, così che decollano imprese che rendono, nel giro di trenta anni, il cantiere del Duomo totalmente lombardo. Impressionante è tutta la vicenda del marmo, che veniva portato da Candoglia sul Lago Maggiore, attraverso vie d’acqua per 100 chilometri e fino al centro di Milano; attraverso i navigli arrivava fino al laghetto di Santo Stefano, scavato per il cantiere della Ca’ Granda e del Duomo; qui i marmi venivano scaricati e avviati dove venivano lavorati e messi in opera.
Perciò il Duomo fu un’occasione di lavoro, di rapporti internazionali, fu un’occasione di innovazione tecnologica – basti pensare che per l’ottimizzazione dei navigli e del sistema delle chiuse fu chiamato a Milano Leonardo da Vinci. Io credo che Milano, che è forse la città italiana la cui identità culturale più si identifica proprio con l’immagine del Duomo – basti pensare alla letteratura milanese o alla canzone milanese – sia stata segnata dalla forma del Duomo.
Io credo che il cantiere ed una cattedrale dessero ad una città molto più che il benessere economico o i vantaggi sociali che abbiamo descritto, perché il cantiere di una cattedrale dava alla città soprattutto un’anima, un animo giusto; lo ricorderà Nenni, perciò un personaggio al di sopra di ogni sospetto clericale, in una seduta del Parlamento italiano negli anni cinquanta, quando, parlando della ricostruzione italiana, disse: “Io non so se l’Italia rinascerà, se tornerà ad essere il Paese che è stato; so però qual è l’animo che gli occorrerebbe” e per descrivere questo animo raccontò un aneddoto famoso: “C’è un uomo che passa lungo una via, vede due operai che fanno lo stesso lavoro, domanda al primo: cosa fai? E il primo risponde: ammucchio sassi. Domanda secondo: tu cosa fai? Io innalzano una cattedrale”. E Nenni concluse dicendo che il nostro Paese avrebbe conosciuto una rinascita soltanto se l’animo del secondo fosse diventato l’animo degli italiani, se uno, mentre fa il suo lavoro, mentre ogni giorno ammucchia i suoi sassi, sa che sta collaborando a costruire una cattedrale.
Per questo abbiamo chiuso la mostra con una frase di Saint-Exupéry, che dice: “Colui che si assicura un posto di sagrestano nella Cattedrale costruita, è già un vinto, ma chiunque porta nel cuore una cattedrale da costruire, questo è già un vincitore”.
BERNHARD SCHOLZ:
Grazie. Grazie a Mariella, grazie a Martina che ci hanno illustrato questa mostra e penso che si sia capito che la storia della costruzione del Duomo è una storia non finita, è una storia che va avanti e passa attraverso ognuno di noi. E quando la vita diventa un cantiere. concepita come un cantiere, immediatamente diventa importante la domanda: ma cosa costruiamo e per che cosa costruiamo? Spesso questo noi lo diamo per scontato, però, improvvisamente, può capitare che ciò che diamo per scontato non sia più scontato per niente quando, com’è successo in Emilia, nel giro di 5 minuti la tua azienda non c’è più, è distrutta e tu ti chiedi: chi mi fa ricostruire, per quale motivo posso ricostruire? Ed è questa l’esperienza di Roberto Cresta, la cui azienda fu distrutta nel terremoto dell’Emilia, e noi gli abbiamo chiesto di portare la sua esperienza, perché riteniamo significativa la domanda che si è posto quando ha visto la distruzione di ciò che lui aveva costruito faticosamente per tanti collaboratori e per la sua famiglia.
ROBERTO CRESTA:
Buonasera. Fino a dieci anni fa io facevo il dirigente di azienda, l’ho fatto, in giro per l’Italia, lavorando nei siti italiani di diverse aziende multinazionali. Dieci anni fa, all’alba dei miei primi cinquant’anni, ho dato vita a questa piccolissima azienda, prima come consulente, e poi da cinque anni ci siamo messi a produrre campionari per i mobilieri, quelle cartelle di colori che vi fanno vedere nelle mostre, quando andate a scegliere la cucina, piuttosto che il salotto. Cinque anni fa abbiamo iniziato questa attività, in un periodo sicuramente non facile, però l’azienda stava andando bene, stava crescendo e siamo arrivati ad essere in dieci addetti, me compreso. Il tutto bene anche dopo la prima scossa di terremoto. Lo stabilimento è situato in provincia di Mantova, a 10 chilometri di distanza da Mirandola, quindi dopo la prima scossa qualche crepa, qualche calcinaccio ma niente di più. Non così è stato dopo la scossa del 29. Io non c’ero, ero via per lavoro a Milano, sono stato chiamato da un mio collaboratore che, testualmente, mi ha detto: qui è venuto giù il disastro, però siamo tutti vivi e stiamo tutti bene. Ho cercato di ritornare immediatamente in zona, mi sono interessato delle condizioni dei miei familiari – noi abitiamo Mirandola, che è stato il centro più colpito – nel pomeriggio sono andato a vedere il capannone, ho chiamato un ingegnere che mi segue nei lavori e immediatamente mi ha fatto balenare il dubbio che, nonostante il capannone fosse ancora in piedi, però non fosse agibile. Il giorno dopo ho chiamato un altro tecnico del movimento, che questa volta, senza mezze misure, mi ha detto che il capannone non era agibile, e francamente in quel momento non sapevo cosa fare dei materiali dei miei clienti che avevo dentro, le macchine non erano danneggiate, però l’idea di rimanere bloccato, non so fino a quando, con il lavoro, mi stava mandando un po’ in crisi, come è facile da capire. Per mia fortuna, con me era venuto un nostro collaboratore, che è un ragazzo afgano di 22 anni, che collabora con noi da quattro anni. Vedendomi in difficoltà mi ha dato una pacca sulle spalle e mi ha detto: “Coraggio, la vita continua”. Subito non ci ho fatto caso, alla sera avevo una riunione con degli amici del movimento e per strada, in quel quarto d’ora per raggiungerli, ho riflettuto su quanto mi era successo e mi sono chiesto: ma se Alì – questo è il nome del mio collaboratore afgano, che all’età di dodici anni ha visto trucidare dai talebani i suoi genitori insieme al fratello, che per lo shock è rimasto muto – se Alì, che ha visto le prigioni iraniane – dove è stato per cinque anni profugo -, se dall’Iran è arrivato in Italia con i mezzi più di fortuna che uno possa immaginare, mi fa coraggio, allora posso io permettermi di demoralizzarmi? Che cos’è quel messaggio che mi sta arrivando? E ai miei amici ho detto che, è vero, mi era successo il terremoto, ma mi era successa anche una cosa bellissima ed ho raccontato loro quello che questo ragazzo mi aveva mandato come messaggio, e che in quel momento gli occhi a mandorla di Alì mi erano sembrati gli occhi di Gesù Cristo, di quel Mistero che mi stava mandando un segnale comunque di estrema positività. La mattina dopo abbiamo ordinato una tensostruttura, un ufficio mobile, un bagno – l’abbiamo dovuto affittare ma ovviamente serviva anche quello -. I miei ragazzi, io li chiamo così anche se due di loro hanno cinquant’anni, gli altri però sono tutti giovanissimi – si sono adoperati per collegare le macchine sotto la tensostruttura. Il lunedì mattina eravamo tutti presenti, tutti operativi, compreso quei due a cui il terremoto aveva distrutto la casa. Da quel momento si è instaurata una situazione in azienda completamente diversa. Tutti, forse come quelli che hanno costruito Duomo di Milano, ovviamente nel nostro piccolo, abbiamo messo in pratica tutti gli sforzi possibili per andare avanti, per recuperare il tempo perduto. Vi garantisco che lavorare in una tenda con il caldo che c’è stato a luglio non è stato facile, ma tutti quanti hanno collaborato perché le cose potessero andare avanti. Siamo riusciti a consegnare tutti gli ordini che avevamo, ne abbiamo presi degli altri, in questi giorni stiamo finendo di mettere in sicurezza il capannone, a breve rientreremo dentro e potremo riprendere a lavorare comunque in un modo molto diverso da come avevamo lavorato fino a prima, con una comunione di intenti completamente diversa, che ci permetterà di superare questa difficoltà incontrata.
BERNHARD SCHOLZ:
È possibile che l’infinito si presenti proprio quando tutto sembra finito. Grazie Roberto. Erasmo Figini è stilista, interior designer, insegnante, imprenditore. Insieme a suo fratello Innocente ha dato vita a Cometa, una realtà di famiglie impegnate nell’accoglienza e nella formazione dei giovani. La passione per la bellezza, ma anche per l’educazione, hanno portato Erasmo a fondare la scuola Oliver Twist, ma anche la Contrada degli Artigiani, un’impresa dove maestri insegnano ai giovani a realizzare prodotti di eccellenza, dove il lavoro diventa quindi espressione, ma anche educazione alla bellezza e attraverso la bellezza.
ERASMO FIGINI:
Prima di tutto volevo ringraziare te, Bernhard, ed il Meeting per avermi invitato a questo incontro: “L’infinito plasma l’opera”. Vedendo la mostra l’altro giorno, mi è tornato in mente quando mia zia da piccolo mi portava in Duomo, e provavo un senso di benessere, non volevo mai uscire, uscivo a fatica. Più tardi io mi chiesi come mai stando in queste cattedrali stavo bene, mi sentivo come a casa, e sono sempre state per me come dei punti di fuga, come la bellezza del creato. Ad un certo punto però un incontro, quello con il Giuss, mi ha cambiato gli occhi, mi ha dato un paio di occhiali che mi hanno permesso di vedere una presenza. Faccio una piccola divagazione perché ho promesso un quarto d’ora e in un quarto d’ora ci sto, visto che è fine della giornata e siamo tutti stanchi. Proprio ieri, tornando col pulmino dei ragazzi, dopo l’incontro con Nespoli e Bersanelli, dicevo: ma ti rendi conto che lo stesso Dio che ha creato tutto questo si interessa a ogni uomo, ragazzi, si interessa a me? Che vuol condividere con un pirla come me tutto questo, decidendo di morire in croce e amandomi di un amore eterno? Comunque, ritornando al tema e a quello che tu hai già introdotto, in questo momento difficile dove sembra che il nulla abbia vinto, sono convinto che sia l’inizio di una nuova umanità, dove Cristo attraverserà la crisi con uomini umili, ricchi di verità e sapienza. Non occorrono uomini perfetti, occorrono uomini giusti, che non si scandalizzino dei propri limiti ma che continuamente riprendano l’edificazione per amore di Colui che fa tutte le cose, come ci ha ricordato il nostro amico adesso. Devo dire che questi pensieri, questa certezza, mi riportano alla memoria una mattinata che per me fu piena di grazie. Stavo arredando la casa del Gius, a Gudo, quando ebbi l’opportunità di paragonarmi con calma con lui su quella esigenza che avvertivo potentemente di esprimere la bellezza in ogni cosa. Esigenza che mi sembrava troppo totalizzante allora, e che tanti intorno a me leggevano, interpretavano, scambiavano come un puro estetismo, un estetismo fine a se stesso. Lì don Giussani mi liberò dal peso e dalla confusione, facendo coincidere l’irrequietezza che avvertivo nel cuore di fronte allo stupore continuo della bellezza, con un compito, e mi disse: “Ma perché perditempo a tormentati? Ringrazia Dio per questo dono e mettilo a servizio degli uomini. Non sarai capito ora, ma questa è la strada: ringrazia dei tuoi talenti e mettili a servizio degli uomini. Devo dire che queste parole le ricompresi nel tempo, furono un grande incoraggiamento ad andare avanti, furono concrete e liberanti, mi collocarono dentro una comunione. Dio usa degli uomini e valorizza i talenti che ti ha dato, e facendoti vivere, lasciandoti plasmare dalla realtà, tu diventi strumento nelle Sue mani. Muovendosi con questa coscienza, “con le mie mani ma con la Tua forza” come ci insegnano i benedettini, l’unicità di ciascuno di noi è esaltata, i talenti valorizzati e messi a servizio. Dare la vita per l’opera di un altro è l’inizio di una nuova umanità. Anche l’edificazione a Cometa, della Città nella città, è così, testimonia questo. La Città nella Città, una costruzione che testimonia la certezza di un bene comune, ci suggeriva il Giuss, dove la bellezza è al servizio ed è espressione dell’opera, dove la Sua presenza è un’esperienza così reale che supera il limite di ognuno di noi. Mettere al servizio questo dono vuol dire declinare tutto questo nella semplice realtà quotidiana, e così mentre mangi, mentre preghi, mentre guardi come hanno apparecchiato la tavola, i fiori, gli oggetti diventano guglie di una cattedrale. La bellezza genera stupore e rispetto. Rispetto dal latino respicere, composto da re – “di nuovo” – e spicere – “guardare” -, ovvero guardare di nuovo. Così la costruzione di Cometa, il progetto della Città nella Città e il mio lavoro sono stati e sono l’esperienza di questo dono ricevuto. Quello che la maggior parte delle persone confondevano con un puro estetismo, nel tempo e nella certezza di quell’incontro, è diventato la condivisione di un dono ricevuto, un’esigenza di bellezza condivisa. Devo dire però che questo cambiamento avviene nell’accogliere le circostanze che la realtà ci propone attraverso il lavoro quotidiano. Per stare in questa posizione è indispensabile vivere una comunione, una comunione che esalti la vera libertà, valorizzando il singolo come dentro un grande coro, dove la bellezza e la potenza della voce si realizzano nell’ordine e nell’ubbidienza di tante voci. La comunione libera dall’esito, libera da te stesso e da pace nell’azione. Così il mio umile fare ha plasmato non solo la materia delle cose ma anche me stesso. E anche la grazia, quella che io vissi come grazia, quella di progettare l’ultima dimora terrena del Gius, la sua tomba, mi richiama al tema di questo incontro: l’infinito plasma l’opera, che è ciascun io. Le grandi vetrate che circondano la roccia del suo sarcofago testimoniano infatti questo punto di fuga, che ci rimanda a quella bellezza a cui introduce lo stupore dell’incontro. Ricordo che proprio qui al Meeting, cinque anni fa, in occasione della mostra di Cometa, ebbi la grazia di incontrare il maestro giapponese Sotoo. Fu un vero incontro, breve e intenso, lo ricordo proprio lucidamente, con chiarezza. Ci siamo confrontati subito sul tema della bellezza, e mentre io lo ringraziavo per quello che stava facendo, che sta facendo, alla Sagrada Familia di Barcellona, lui mi corresse dicendo: “No, sono io che devo ringraziare voi, perché state costruendo una vera cattedrale, una cattedrale di carne”. Io lo corressi dicendo: “No, perché in verità tutti noi insieme stiamo costruendo una cattedrale come espressione di un popolo, perché dentro questa espressione tu incontri la fedeltà, quella che don Giussani ci diceva: la fedeltà all’incontro è lasciarsi cambiare nell’istante”. Questa è l’eterna giovinezza nel cuore. Questo è il punto di maggior lavoro. Questa cattedrale carnale, questa realtà sociale, questa realtà di famiglia dove ogni uomo, bambino, ragazzo può essere accolto, amato ed educato, formato a introdursi nella realtà della vita con un senso e un significato. Ecco, questo è un altro semplice e umile segno della potenza dell’incontro. Volevo accennare un attimo alla scuola professionale Oliver Twist di Cometa, che offre a circa 300 studenti corsi di istruzione e formazione professionale, per diventare operatori nell’ambito del legno-arredo, del tessile e della ristorazione come addetti a sala bar. In questa scuola, nata in nome della bellezza e legata al mondo del lavoro, al mondo della ricerca, anche tutta la mia esperienza professionale ha trovato un luogo dove potersi esprimere, rinnovarsi e diventare educazione. Da quest’esperienza poi è nata, come per gemmazione, la Contrada degli Artigiani, una cooperativa di produzione e lavoro dove maestri artigiani e ragazzi, attraverso laboratori di falegnameria, restauro, decorazione e tappezzeria, realizzano prodotti di eccellenza, rilanciando il patrimonio di competenze dell’artigianato. All’ingresso della Contrada degli Artigiani abbiamo voluto installare la frase di Péguy, che io faccio imparare a memoria ai ragazzi: “Un tempo gli operai non erano servi, lavoravano, coltivavano con un onore assoluto. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta, era naturale, era inteso. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario o in modo proporzionale al salario, doveva essere ben fatta di per sé, in sé. Una tradizione, una storia, un assoluto onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta”. Mentre in falegnameria abbiamo appeso un’altra frase, in una gigantografia, una frase che ci aveva lasciato il Gius, che dice: “Ogni uomo ha un temperamento e questo è a servizio di Dio. Perché la comunione non si erige tra temperamenti simili ma nell’unità tra cuori”. Questi ragazzi attraverso il lavoro dell’intelligenza e delle mani hanno ripreso il cammino per diventare uomini all’altezza dei loro desideri. Vi garantisco che guardare questo, fare memoria tutti i giorni di questo, aiutarsi, correggersi insieme, ecco, tutto questo sta generando un luogo dove è possibile fare la stessa medesima esperienza di coloro che costruirono il Duomo di Milano, un’esperienza reale e concreta, espressione di quella mentalità per la quale ogni guglia, ogni statua, anche la guglia più lontana e nascosta, doveva essere fatta con la stessa passione e con la stessa certezza, perché era fatta per Lui. Come dice Carrón “E’ il tempo della persona”. Questa comunione, questa presenza, cambia l’azione e genera un io nuovo. Tutto nella mia storia si è giocato in un sì, anche dei piccoli sì, come quello detto l’anno scorso per la mostra “Con gli occhi degli apostoli. Una presenza che travolge la vita” del Meeting scorso, che è diventato un sì fecondo e pieno di grazia. E’ con questi occhi nuovi che si deve guardare la realtà. Come il progetto della costruzione del Duomo ha cambiato il volto delle città e ha forgiato un popolo nuovo, così questa nostra compagnia, nata seguendo un testimone irriducibile, sta costruendo questa grande cattedrale di carne, che deve avere lo stesso metodo: guardare con gli occhi degli apostoli, lasciarsi stupire, seguire il progetto di un Altro, ubbidendo e costruendo. Per concludere vorrei leggere un pezzettino, tratto da I cori da La Rocca, che ci invita al compito del nostro lavoro.
In luoghi abbandonati
noi costruiremo con nuovi mattoni.
Ci sono macchine e mani
e creta per nuovi mattoni
e calce per nuovo cemento.
Dove i mattoni sono crollati
noi costruiremo con nuove pietre.
Dove le travi sono marcite
noi costruiremo con nuovo legno.
Dove la parola non è pronunciata
noi costruiremo un nuovo linguaggio.
C’è un lavoro comune, una Chiesa per tutti, un impegno per ciascuno. Ognuno al suo lavoro”. Con questo auguro buon lavoro e buona serata a tutti.
BERNHARD SCHOLZ:
“L’infinito plasma l’opera”. Questo è il titolo della mostra. Penso che, grazie a Martina, Mariella, Erasmo e Roberto, abbiamo capito come questo succede. Succede attraverso le nostre mani, perché se la natura dell’uomo è rapporto con l’infinito, più l’uomo vive questo rapporto, più le sue mani plasmano l’opera, il modo di costruire, di curare, di pulire, di cucinare, di calcolare, di abbracciare. E qual è l’esito più sorprendente? Che allora l’opera delle nostre mani ci ricorda l’Infinito che l’ha plasmata. Allora una stanza pulita, un piatto fatto bene, un bicchiere costruito bene, una scuola fatta bene, tutto il bene che possiamo creare viene, attraverso un’immensa gratitudine, accolto come segno dell’Infinito. Allora scopriamo l’infinito che siamo in maniera completamente nuova, ogni giorno. Io penso che la mostra ci inviti anche a riflettere che noi siamo troppo, troppo interessati al fare e troppo poco interessati a ciò che siamo, perché se fossimo più interessati a ciò che siamo, anche il nostro fare sarebbe molto più bello, più interessante e più affascinante come espressione dell’infinito. Grazie a tutti e buona serata.