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“CHE COS’È L’UOMO PERCHÉ TE NE RICORDI?”. GENETICA E NATURA UMANA NELLO SGUARDO DI JÉRÔME LEJEUNE
Che cos'è l'uomo perchè te ne ricordi?. Genetica e natura umana nello sguardo di Jérôme Lejeune
Partecipano: Birthe Bringsted Lejeune, Vicepresidente della Fondazione Jérôme Lejeune; Jean-Marie Le Méné, Presidente della Fondazione Jérôme Lejeune; Carlo Soave, Curatore della mostra e Docente di Fisiologia Vegetale all’Università degli Studi di Milano. Introduce Marco Bregni, Presidente dell’Associazione Medicina e Persona.
“CHE COS’È L’UOMO PERCHÉ TE NE RICORDI?”. GENETICA E NATURA UMANA NELLO SGUARDO DI JÉRÔME LEJEUNE
Ore: 15.00 Sala A3
MARCO BREGNI:
Buongiorno a tutti, benvenuti all’incontro di presentazione della mostra Che cos’è l’uomo perché tu te ne curi?. Questa mostra racconta l’avventura umana e professionale di Jérôme Lejeune, grande genetista, grande medico e persona profondamente cristiana. Il motivo per cui questa figura di medico, in fondo ricercatore, quindi tutto sommato non così conosciuto al grande pubblico, affascina gran parte delle persone con cui è venuto a contatto e qui, nello stesso nostro Meeting, potete vedere quanti giovani si affollino per vedere questa mostra, fa sorgere immediatamente un interrogativo: perché Jérôme Lejeune è così affascinante per le persone? Che cos’ha fatto? Molto brevemente, il suo itinerario si può raccontare così: lui, giovane, entrato a far parte di un laboratorio di genetica diretto dal professor Turpin, in questo laboratorio ha adottato delle tecniche di citogenetica innovative e in questo modo è riuscito a scoprire la causa della sindrome di Down, vale a dire la presenza di un cromosoma 21 soprannumerario, in più rispetto ai cromosomi normali. Applicando le stesse metodiche, è riuscito a scoprire la causa di numerose altre malattie cromosomiche, e questo avrebbe dovuto aprirgli la strada a un successo scientifico senza pari. In realtà, la sua posizione di uomo e di medico lo ha portato subito, in un ambiente che era contro la nascita dei bambini Down, a prendere la posizione a favore di questi bambini fin dal concepimento. Questo lo ha costretto a un isolamento, la società scientifica in qualche modo lo ha isolato e gli ha tagliato i finanziamenti ma lui non ha mai rinunciato a questa posizione, sia umana sia professionale. Oggi chiediamo ai nostri relatori: cosa dice questa posizione così affascinante a noi che viviamo oggi? Ne parliamo con la moglie di Jérôme Lejeune, madame Birthe Lejeune, il dottor Jean Marie Le Méné, che è Presidente della Fondazione Lejeune e Carlo Soave, che è professore dell’Università di Milano e curatore della mostra. Prima di dare la parola ai tre relatori, chiederei che venga mostrato un breve video che illustra la vita e le opere di Jérôme Lejeune.
Video
MARCO BREGNI:
Madame Lejeune, a lei la parola.
BIRTHE BRINGSTED LEJEUNE:
Vorrei salutarvi tutti, naturalmente, e dire che è con grande emozione che mi trovo qui con voi per la terza volta, perché in effetti molto, molto tempo fa, ero già venuta due volte di seguito con mio marito, e l’anno scorso invece con mia figlia Clara, che vi ha parlato della vita del suo papà. Quest’anno è la prima volta che posso prendere la parola. Avrei molte cose da dirvi, però sono successe tante cose importanti nel mondo che è necessario difendere alcuni valori, quindi sarebbe troppo complicato per me parlare di questo. Ecco perché il mio amico, Presidente della Fondazione, Jean-Marie Le Méné, vi parlerà, appunto, delle nuove misure in fase di preparazione per il futuro dell’umanità. Dopodiché, se sarete d’accordo, potrò rispondere alle vostre domande, e quindi darò la parola al mio portavoce per parlare al posto mio.
JEAN-MARIE LE MÉNÉ:
Vorrei innanzitutto raccontarvi un ricordo personale, un ricordo italiano, tra l’altro. Qualche decina di anni fa, subito dopo il mio matrimonio, ho avuto la fortuna di andare a Roma, proprio assieme al professor Lejeune e alla signora Lejeune. Jèrôme Lejeune doveva incontrare il Santo Padre e il giorno prima di quest’incontro abbiamo appreso che noi avremmo potuto avere l’onore di accompagnarlo, il giorno dopo, alla messa privata del Papa, al mattino. Eravamo giovani sposi, assolutamente entusiasti di poter assistere alla messa privata del Santo Padre; allora abbiamo messo su tre sveglie diverse per essere sicuri di svegliarci all’ora giusta e di essere davanti alla porta di bronzo alle 7 del mattino. Lì abbiamo visto il Santo Padre mentre pregava, come una statua in preghiera, dopodiché è iniziata la messa: ovviamente avevo i piedi che non toccavano terra, avevo la testa completamente in cielo. A un certo punto, a mia moglie è venuto un attacco di nausea. Allora le suorine polacche l’hanno presa e l’hanno portata nel bagno privato del Santo Padre. Dopodiché, la messa è continuata per conto suo e, alla fine, ci siamo potuti recare in biblioteca, dove il Santo Padre ha offerto a tutti i presenti dei rosari, delle foto e ha parlato brevemente con coloro che avevano assistito alla messa. A quel punto, Lejeune ha abbracciato la figlia, che tra l’altro era mia moglie, e l’ha presentata al Santo Padre, dicendo: “Davanti a lei, Padre Santo, vede tre generazioni di Lejeune”. Jèrôme Lejeune e il Santo Padre avevano già capito che se mia moglie aveva avuto quell’attacco di nausea era perché stava aspettando un bambino. A quel punto, il Santo Padre disse: “Tutta la famiglia deve venire a pranzo da me”. Ma vorrei riprendere questa frase pronunciata da Jèrôme Lejeune, “Padre, lei ha davanti tre generazioni”. Era un altro modo per dire quello che era stato il suo messaggio, che non si era mai stancato di dare per tutta la vita: all’inizio c’è un messaggio, e il messaggio è nella vita, e questo messaggio è la vita, e se questo messaggio è umano, allora questa vita è umana. È l’unico messaggio che Jèrôme Lejeune abbia potuto dare, diceva che si trattava di una parafrasi infelice del prologo di san Giovanni, in realtà era un modo per lui di dimostrare che da una parte l’intelligenza, dall’altra la fede, sono due strade che portano alla stessa verità. E poterlo dire usando le stesse parole, con il linguaggio dell’intelligenza, della ragione e della fede, questo è il segno del genio o della santità, o di entrambe le cose.
Allora, come mai oggi non sappiamo più chi è l’uomo? Jèrôme Lejeune diceva questo: “Mentre il progresso scientifico rivela ogni giorno un nuovo segreto della vita, vorrebbero farci credere che sappiamo sempre di meno che cos’è un membro della nostra stessa specie”. È vero che l’esempio della persona affetta da trisomia 21 è un esempio particolarmente pregnante ed esemplificativo: la trisomia 21 è la patologia di cui Jèrôme Lejeune aveva trovato la causa, è al contempo un’icona della debolezza, un simbolo del capro espiatorio, innocente e testimone di civiltà. Molti fatti di oggi ci danno l’opportunità di verificare tutto questo. Primo fatto: sapete che da alcuni giorni a questa parte una giovane cristiana pakistana, che apparentemente è ammalata di trisomia 21, si trova in carcere accusata di blasfemia. La polizia ha arrestato questa ragazza che si chiama Rimsha e dovrebbe essere giudicata dopo la sua detenzione; quindi, forse, c’è una minaccia di morte che pesa su di lei. Nel mondo intero, ovviamente, l’emozione è immensa, rafforzata dal fatto che questa ragazzina pare essere affetta da trisomia 21. E’ curioso, è strano perché si ha la sensazione che sarebbe ancora più ingiusto punire una persona che soffre di deficit intellettuale, che non è in pieno possesso delle sue capacità, e che il crimine sarebbe raddoppiato. Allo stesso tempo, che paradosso vedere che la vita di una persona affetta da trisomia 21 ci commuove in Pakistan piuttosto di quanto non ci commuova in Europa, dove invece tutto è organizzato in modo che questa popolazione non nasca più. Secondo fatto d’attualità: nella stampa stamattina abbiamo visto che la Germania, la Svizzera, il Lichtenstein, l’Austria, da qualche giorno hanno accesso a un nuovo test di screening prenatale della trisomia 21. Questi nuovi test verranno sviluppati presto in Europa e venduti dappertutto: in realtà, si tratta di una rivoluzione vera e propria dal punto di vista tecnico ma non è una rivoluzione morale né scientifica né medica. Sapete che fino ad oggi lo screening della trisomia 21 si fondava su una serie di marker ematici, poi c’erano gli esami ecografici, poi c’era l’amniocentesi, quindi una serie di analisi, esami lunghi e complicati, che non sono sempre certi e che possono causare l’aborto di embrioni sani. Questo era il passato, quello che abbiamo conosciuto fino ad oggi. I nuovi test saranno molto più semplici, basterà fare un prelievo di sangue, una tecnica non invasiva. Il sangue verrà prelevato dalla mamma incinta, e grazie a questo si potrà vedere qual è il genoma del bambino che la mamma sta aspettando e subito si potrà diagnosticare direttamente la trisomia 21. Sarà quindi una diagnosi precoce e sicura, e sarà senza rischi perché non ci sarà più il rischio dell’amniocentesi: quindi, tutta la pubblicità che si fa oggi vuole dimostrare che questo è un progresso tecnico straordinario, ma questi discorsi introducono un elemento di confusione, perché tecnicamente la cosa è interessante. Ma se questa evoluzione interessante si traduce solo nel poter mettere a disposizione un nuovo test che permettesse di eliminare la popolazione affetta da trisomia 21, sarebbe una pessima notizia, perché ci viene detto che se si fanno questi nuovi test non ci saranno più embrioni sani distrutti a causa del gesto tecnico dell’amniocentesi. Ma è terribile dire una cosa del genere: significa che è più grave uccidere un embrione normale che uccidere un embrione anormale, e già significa fare una distinzione, introdurre una selezione, un giudizio sulla persona la cui vita non merita di essere vissuta. E poi ci viene detto che il test è affidabile al 100%, invece sappiamo che già oggi il 95% dei bambini trisomici sottoposti allo screening vengono abortiti, quindi si vuole arrivare a guadagnare quell’ultimo 5%, decimando ancora quel 5% che rimane. In realtà, c’è un grosso business dietro questa cosa, perché lo screening o la diagnosi della trisomia 21 riguarda evidentemente ogni donna, ovvero la metà dell’umanità, e dietro questo ci sono profitti assolutamente enormi per i laboratori farmaceutici. Questo test, usato su una popolazione in generale e sistematicamente su tutte le donne incinte, non presenta alcun interesse dal punto di vista medico. Ci viene detto che si fa per accogliere meglio il bambino trisomico, le cifre però ci dicono che la quasi totalità di questi bambini vengono abortiti. Se le cifre dicessero il contrario, allora direi: bene! In questo caso, infatti, i bambini con trisomia potrebbero venire meglio accolti, ma non è così. C’è quindi uno stimolo molto forte da parte della pubblica opinione, della medicina, dei laboratori, dei media, per utilizzare questi test perché in questo modo ci si può sbarazzare della trisomia 21, sbarazzandosi delle persone affette da trisomia 21.
Il terzo fatto di attualità è una causa attualmente pendente davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: si tratta della mamma di una bambina trisomica che lamenta di non aver potuto effettuare durante la gravidanza lo screening che le avrebbe consentito di scoprire che la figlia era ammalata, e quindi decidere di abortirla. Questa mamma si è presentata ai tribunali del suo Paese, ha esaurito tutti i ricorsi possibili, ha esaurito tutte le vie di ricorso possibili in Lettonia, e adesso si è presentata davanti alla Corte dei Diritti dell’Uomo, per cui c’è un grosso rischio che questa Corte decida che la possibilità di fare uno screening prenatale è ormai un diritto sancito dalla giustizia: e se non viene soddisfatto, evidentemente, ci saranno conseguenze giuridiche. È paradossale vedere come la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, nata dopo la seconda guerra mondiale dopo il processo di Norimberga, sia portata ad adottare questa giurisprudenza tipica dell’eugenismo: sarebbe una sentenza molto grave, che ancora non è stata presa, sarebbe una decisione molto grave, perché verrebbe imposta alle varie giurisdizioni dei Paesi europei.
Allora, mi direte, che rapporto c’è fra questi fatti di attualità e Jerome Lejeune e la sua Fondazione? Niente di ciò che riguarda la trisomia 21 ci può essere indifferente, come ho detto prima. Infatti, la trisomia 21 è una sorta di marker degli sforzi fatti per la società che vuole rimanere civile. All’origine di tutti questi atteggiamenti di esclusione, di rifiuto della persona affetta da trisomia 21, ci sono tante cose: c’è lo sviluppo delle tecnoscienze, il relativismo morale, la giuridicizzazione della medicina. La Fondazione Jerome Lejeune non pretende né ha i mezzi per lottare contro tutte queste cause, ma ci sono alcuni elementi, peraltro obiettivi, contro i quali deve lottare per missione, e lo fa, seguendo il solco dei passi del suo fondatore Jerome Lejeune. Queste tre missioni sono le seguenti: si tratta di rispondere, innanzitutto, ad un interrogativo a cui si dà sempre la risposta sbagliata. Si dice che non si può fare niente per le persone affette da un deficit intellettuale, quindi per la trisomia 21: è falso, noi ne diamo prova tutti i giorni, attraverso le visite che effettuiamo alla Fondazione, gli studi che seguono 100mila pazienti di tutte le età e sviluppano un know-how, un’esperienza in materia di diagnosi. Perché non basta dire che questa persona ha la trisomia 21, bisogna essere capaci di diagnosticare e portare dei rimedi a questi handicap che vanno ad aggiungersi alla trisomia 21: è quello che facciamo tutti i giorni in Fondazione. Sappiamo per esempio prevedere e anticipare problemi relativi alla leucemia, che sono più frequenti fra i malati di trisomia 21: la leucemia nei bambini Down si può guarire, soprattutto se viene presa in tempo. Tante patologie si vanno ad aggiungere alla trisomia 21 e sono curabili: problemi dermatologici, oftalmici, di deglutizione, i denti, quindi, anche podologici, di ortopedia. Sono problemi che possono essere risolti, possiamo migliorare tante cose e molti progressi sono stati già compiuti dai medici, da 15 anni a questa parte. Vediamo persone affette da trisomia 21 che possono parlare da sole, capaci di esprimersi perché si sentono latori di un messaggio importante da dare: questa è una cosa nuova, i progressi ortofonici sono molto importanti. Vent’anni fa questi malati parlavano poco, i progressi di oggi, invece, consentono loro di esprimersi perché hanno qualcosa da dire. Nei nostri studi e nelle nostre visite mediche possiamo arricchire anche la ricerca clinica, lo facciamo tutti i giorni per stimolare il lavoro dei clinici, dei ricercatori: i medici osservano una serie di fatti, li comunicano ai ricercatori che si occupano di trisomia 21, e magari per loro potrà essere utile. La nostra terza missione è rispondere a questa domanda: un giorno, potremo trovare un modo per attenuare o fare sparire il ritardo mentale collegato alla trisomia 21? La società dice no, non si potrà fare mai nulla, ecco perché sviluppa questo tipo di test. In realtà, noi siamo la prova che la ricerca finanziata e condotta in un certo modo permette dei progressi. Grazie all’appoggio finanziario, abbiamo potuto far progredire vari team scientifici nel mondo, che lavorano sulla trisomia 21 in un’ottica di terapia, per curare, un giorno, queste persone affette da un ritardo intellettuale, in modo che possano risolvere queste difficoltà. Oggi i ricercatori ci dicono che è possibile, e questa è una prima vittoria. 15 anni fa, i ricercatori dicevano che era impossibile. Oggi, la maggior parte dei ricercatori che si interessano a questa malattia dice che è possibile, magari non sarà per domani, forse non ci sarà un farmaco miracoloso, ma un giorno, dicono, si riuscirà a risolvere il problema del ritardo mentale: è questa la prima vittoria, avere sconfitto il disfattismo dei ricercatori.
Molti test clinici sono in corso nella nostra Fondazione o altrove, perché abbiamo la fortuna di avere molte persone malate che vogliono beneficiare dei risultati di questi test. Rapidamente continuo per dire che ci sono due filoni di ricerca: da una parte, abbiamo l’azione, l’intervento sul genotipo, sul modulare, la sovra espressione dei geni dovuta alla trisomia 21, a quel cromosoma in più: si tratta di regolare l’espressione genetica, quindi si agisce sul genotipo. L’altro filone è quello che consiste nell’intervenire sul fenotipo, cioè a livello del cervello, in particolare sulle disfunzioni osservate a livello dei neurotrasmettitori cerebrali. Si lavora sulle connessioni cerebrali, non sul genoma, ma su queste parti del cervello che consentono di trasmettere le informazioni e che hanno appunto dei problemi. Sono due filoni di ricerca, non sono gli unici ma sono i principali, per cui abbiamo svariati test in Francia e all’estero. La nostra terza missione, dopo le cure, dopo la ricerca scientifica, consiste nel cercare di rispondere a questa domanda: l’eliminazione della popolazione malata è una soluzione coerente e compatibile con un vero approccio medico-scentifico? E naturalmente la nostra risposta è no, come sempre ha ripetuto Jerome Lejeune.
Vent’anni fa, Jerome Lejeune aveva già notato che il vero pericolo è nell’uomo, in questo squilibrio sempre più preoccupante fra la sua potenza, che diventa sempre più grande, e la sua saggezza, che spesso regredisce. Da questo punto di vista, la situazione tende ad aggravarsi, perché nella corsa fra la tecnoscienza e la saggezza, spesso è la prima ad avere la meglio, forse non definitivamente. Spesso, a breve termine sulla media, è la tecnoscienza che ha la meglio sul progresso etico. Jerome Lejeune diceva ancora che una società che si arroga il diritto di sperimentare sugli embrioni, di uccidere un feto inutile per una donna che non vuole prendersi le sue responsabilità, una società che, allo stesso tempo, decide di fare nascere bambini per una donna più vecchia da una donna giovane, beh, questa è una società in pieno delirio. Queste parole le aveva pronunciate già più di 20 anni fa: l’unica cosa che è cambiata, da allora, è che queste trasgressioni che lui criticava, 20 anni fa erano ancora illegali, oggi invece sono diventate legali: l’avvento delle leggi di bioetica spesso ha fatto sì che queste trasgressioni diventassero legali. Come spiega l’enciclica Evangelium Vitae, questi nuovi attentati verso la vita perdono il carattere di reato, di crimine, che avevano in passato, per assumere quello del diritto. E il rovesciamento dei diritti dell’uomo è proprio il suo contrario. Ormai si fa confusione fra il bene e il male, la società ne è profondamente alterata. Ecco perché noi perseguiamo questo obiettivo, la difesa della vita che è inseparabile dalla ricerca, per cercare di guarirli, e anche dalla medicina che li accoglie, che vuole aiutarli, queste persone che oggi sono più deboli, i poveri della nostra società, come diceva anche papa Giovanni Paolo II nell’enciclica.
Per concludere, vorrei dire che l’apertura della causa di beatificazione di Jerome Lejeune, di cui avete visto le immagini poc’anzi, è un evento importante. Anche prima dell’apertura della causa, il papa Giovanni Paolo II aveva proposto che Jerome Lejeune fosse il modello del laico cristiano, che sempre ha fatto uso della scienza per il vero bene dell’uomo, e soltanto per il vero bene dell’uomo. Il papa aggiungeva che era stato un segno di contraddizione al cospetto della menzogna che uccide, e anche un segno di speranza. E’ un invito a imitarlo, senza temere le pressioni, l’ostracismo, nella speranza di imitare la personalità unificata di Jerome Lejeune: non c’era da una parte il ricercatore da seguire, il medico accettabile, e dall’altra il difensore della vita che ci faceva paura, no! Erano la stessa persona, ed è questa coerenza della vita e della personalità di Jerome Lejeune che siamo invitati a imitare, per imitarne anche le azioni, seguire le azioni svolte dalla Fondazione che porta il suo nome. Il compito è immenso ma tale è anche la speranza. Grazie per la vostra attenzione.
MARCO BREGNI:
Grazie dott. Le Méné. Adesso, Carlo, a te entrare nel dettaglio della vita di Jerome Lejeune.
CARLO SOAVE:
Speriamo che funzionino le diapositive. Bene, questo è il titolo della mostra, quello che vedete all’entrata e che trovate anche sul catalogo. Che cos’è l’uomo perché te ne ricordi?”, perché questa è stata la domanda che ci siamo posti. Abbiamo cercato di approfondire questa domanda attraverso l’esperienza, la testimonianza che ha fatto Jerome Lejeune, perché ci è sembrato che la sua vita fosse una risposta a questa domanda: che cos’è l’uomo? In effetti, se voi vedete la mostra, nel terzo e quarto pannello c’è la sua biografia, e in alto c’è scritto: “Il servo di Dio”. E’ Jerome Lejeune, il servo di Dio, perché è stata iniziata l’inchiesta per la causa di beatificazione, per la canonizzazione. Ma sotto c’è scritto: “Davanti a Dio e davanti a tutti gli uomini, io, Jerome Lejeune, affermo che ogni essere umano è una persona”. Questa è già una risposta alla domanda: che cos’è l’uomo? È una persona. Il problema è che dobbiamo capire – ed è il motivo per cui abbiamo cercato di fare la mostra – che cos’è una persona, che cosa significa per Jerome Lejeune essere una persona. Questo è il filo conduttore della mostra, che è stata organizzata e montata in collaborazione con la Fondazione Jerome Lejeune, con Euresis, che è un gruppo di amici, un’associazione di ricercatori scientifici, tutti appassionati a capire che cosa muova un ricercatore, perché Jerome Lejeune è stato uno scienziato, è stato un genetista, è stato un ricercatore. Una delle cose che ci ha impressionato subito, andando un po’ dentro la storia, è che lui è incredibilmente ottimista, e questo è un punto interessante. C’è una frase che mi aveva colpito moltissimo: “Troveremo, non possiamo non trovare, è un’impresa meno difficile che andare sulla luna”. Detta adesso, sembra scontata, ma allora non era così semplice. Cosa doveva trovare? La causa della sindrome di Down e una strada di terapia. Quindi, un incredibile ottimismo. Ci siamo chiesti: da dove può nascere questa fiducia, questo ottimismo in un ricercatore? Da dove nasce l’ottimismo di un ricercatore? Dalla possibilità di capire. C’è una frase di san Tommaso d’Aquino che dice: la verità è “adaequatio intellectus et rei”, l’accordo della ragione con la realtà, tra la ragione e la realtà. Come dire che noi, con la nostra razionalità e con la realtà del mondo, della nostra vita, dell’universo, in qualche modo ci intendiamo, siamo fatti della stessa musica. Questa è l’esperienza che fa un ricercatore, che certamente faceva anche Lejeune, tanto è vero che la prova vera della verità di questo accordo tra la ragione e la realtà non è tanto, a mio parere, lo stupore ma il fatto che possiamo fare delle domande. Chiunque abbia fatto un’esperienza di insegnamento sa che se un ragazzo non capisce niente di quello che gli dite non può neanche fare una domanda: se facciamo domande è perché possiamo capirci qualcosa. In qualche modo, noi e la realtà suoniamo sulla stessa nota. Questo è un segno che ci riporta a chiederci fino in fondo: ma allora, come mai non ci prendiamo? Come mai noi e questa realtà riusciamo ad intenderci? E ci riporta a mio parere alla domanda che è tipica di ogni ricercatore, genetista, astrofisico, ecc.: ma perché esiste qualche cosa e non il nulla? E perché questo qualche cosa che esiste è arrivato fino a noi, e noi, che cosa siamo? Questo sta in fondo all’esperienza di ogni ricercatore e in questo ottimismo c’è questa apertura alla domanda di senso che ogni ricercatore ha, come primo evidente segno di un’apertura all’infinito. Mi sembra che l’esperienza che ha fatto Lejeune, per come si muoveva sulla ricerca, sia di questo tipo, evidentissima.
C’è poi un secondo tema che ci ha colpito. A un certo punto, e lo troverete in un pannello, la figlia Clara Lejeune dice: “Mio padre è stato medico fino in fondo all’anima”. Anche questo ci siamo chiesti: cosa vuol dire essere medico fino in fondo all’anima? Non è semplice. Vuol dire che aveva la speranza di riuscire in qualche modo a trovare qualcosa di buono per questi pazienti affetti dalla sindrome, di trovare una terapia che, se non poteva risolvere, almeno potesse migliorare le performances. Una speranza in un’azione positiva su queste persone. Ma anche qui, ci siamo chiesti: è chiaro che, se un medico non ha questa speranza di fare qualcosa di buono, forse è meglio che cambi professione. Perché questa deve essere, ogni mattina quando si sveglia e va in ospedale, la sua motivazione di fondo. Tutto vero, ma dove si appoggia questa speranza? Perché, se fosse solo un’illusione… Si appoggia, ancora una volta, su quella fiducia di prima, che in qualche modo, magari non sarò io, saranno i miei successori o quelli dopo ancora, si riuscirà a fare qualche cosa di buono. E questo è fondamentale. Dice due cose, a mio parere, che mi sembra emergano nella mostra: un ricercatore scientifico è ottimista perché sa che ci sarà una risposta alla domanda; secondo, un ricercatore, in particolare in questo caso un genetista umano, non è irresponsabile di fronte a quello che trova: mobilitato da questa speranza, deve cercare poi di vedere come si può mettere a frutto quella questione. C’è un punto interessantissimo nella mostra, al punto in cui avviene la scoperta della trisomia, nel ’59. Una volta che si scopre che c’è il cromosoma soprannumerario, uno si chiede: “Perché un cromosoma in più provoca questi problemi? Vediamo se possiamo trovare una spiegazione per inserirci poi con un progetto terapeutico”. Il modello di macchina che Lejeune costruisce, e che vedete nella mostra, era la risposta a questa domanda che lui si è fatto dopo la scoperta: la speranza incrollabile di poter tirare fuori anche una pista terapeutica. Credo sia una bella lezione per tutti quanti. Il terzo punto che ci ha colpito è la questione di fondo, quando lui si rende conto che la sua scoperta permette una diagnosi prenatale che, invece di aprire una strada terapeutica, come era nelle sue intenzioni, medico fino in fondo all’anima, apre anche un’altra possibilità: quella della selezione dell’eugenismo, dell’ aborto terapeutico. E allora lì prende pubblica posizione e dice: “Signori, qui il problema è to kill or not to kill, li uccidiamo o non li uccidiamo. Qui sta il problema!”. Ci siamo chiesti quale sia la ragione di una posizione così forte in favore della vita. Lui dice spesso che, da 4000 anni, i medici fanno il giuramento di Ippocrate che dice: “Ci impegniamo a non uccidere, a non praticare aborto”. Ma c’è qualcosa di ancora più profondo, che emerge quando lui dice una cosa molto semplice: bisogna ritornare alla cosa cosi come essa è, aderire alla realtà cosi come essa è. In poche parole: che cosa è quell’embrione, un ammasso di cellule o un essere umano? Bisogna decidere! “Allora, in nome della verità, dite cos’è!”. E qui, mi spiace ma la risposta è univoca. La scienza non ha tante certezze ma alcune sì: che la terra è rotonda, che quell’embrione è un essere umano, non ci piove, ogni scienziato lo sa benissimo e tutti noi lo sappiamo benissimo. Questo è un punto di non ritorno della scienza. Si potranno trovare tante spiegazioni ma questo è un fatto, un punto vero come rispondere, alla domanda “che cosa è l’uomo?”, davanti a Dio e davanti agli uomini: “è una persona”. Non basta dire che è un essere umano: quante volte nella storia l’uomo ha fatto fuori degli esseri umani perché erano indesiderati? Non sarebbe la prima volta! Bisogna cercare di capire fino in fondo cosa vuole dire essere umano. Questo è un punto chiave della questione. E allora li si vede cosa intende quando dice persona.
Abbiamo ripreso un intervento che lui ha fatto durante un incontro di ragazzi a Firenze. A un certo punto dice: “Uno scienziato è ottimista perché è in sintonia con la realtà. Perché l’uomo è stato creato ad immagine e somiglianza del suo Creatore”. Qui sta il punto di snodo della sua posizione, perché dire che un essere umano è qualcosa di creato a immagine e somiglianza, vuol dire che non prende il suo valore da solo, da quello che dicono gli altri, ma da Colui che l’ha voluto, il suo creatore. Occorre tornare all’inizio della storia: perché esiste qualcosa e non il nulla, e noi cosa siamo. Quello che mi ha stupito moltissimo in questi giorni, è che Benedetto XVI, nel suo messaggio al Meeting, scriva che noi creature dobbiamo riprendere in mano la parola creazione. E’ un punto interessante, perché è solo qui che noi possiamo appendere tutte le nostre posizioni, le obiezioni di coscienza, definendo fino in fondo che cosa sia un essere umano: prodotto del caso o creato da un creatore buono? Perché, insomma, delle due l’una: l’uomo non esiste per necessità. Tutta la storia della vita sulla terra è una storia di sconvolgimenti incredibili, di cataclismi incredibili: e da questa storia noi saltiamo fuori, ci siamo. Potevamo non esserci e invece ci siamo. E allora, perché ci siamo? Frutto del caso? Non era necessario che ci fossimo, eppure ci siamo! Lo stesso Lejeune, a un certo punto, riprende in mano la questione di Monod: se accettiamo l’ipotesi che ci siamo per caso, allora, scusate ma io, se il mio prossimo mi serve, lo tengo, se non mi serve, non mi interessa più. Ognuno di noi ha valore solo per il tuo valore d’uso! Se mi conviene, mi conviene e se non mi conviene, non mi conviene! Lo stesso Lejeune dice il che il costo di mantenere tutte le situazioni di pazienti con la sindrome di Down è elevato, per la società e per le famiglie, ma è il costo che si deve pagare per rimanere pienamente umani. Se invece è chiaro che noi siamo creati da un creatore buono, allora il nostro valore non dipende dal caso, è un bene esserci perche noi siamo immagine del creatore. Ma cosa vuole dire immagine? È come un quadro, no? Un bel paesaggio, ci rimanda a quello che l’autore, quando fa quel quadro, ha visto! Immagine del creatore vuole dire che noi siamo quel livello della natura che non solo è capace di pensare Dio ma vuole entrare in relazione con lui, in rapporto con lui: vuole dargli del tu. Allora, c’è una cosa che mi ha colpito moltissimo: quando c’è stata la celebrazione per la chiusura della beatificazione in Notre Dame – la cerimonia era stata molto commovente -, a un certo punto, durante la messa, ci sono state le intenzioni. L’ultimo ragazzino prende il microfono e dice: “Nous te louons, Seigneur, Createur qui aime la vie”, “noi ti lodiamo Signore, Creatore” – e poi, a piena voce “che ama la vita”. Chi era presente, lo ricorderà benissimo: quello che dice il ragazzino, in poche parole, è tutto il succo della questione. È quel Tu: “Che cos’è l’uomo perche Tu te ne ricordi?”. Noi uomini siamo quel livello di generazione che vuole dare del tu al creatore, un creatore buono che ama la vita. Questa è la cosa che più ci ha colpito nella vicenda di questi mesi.
Per finire, vorrei innanzitutto ringraziare la Fondazione Lejeune che ci ha aiutato a fare questo lavoro, in particolare Loudovie, che è stata impeccable, e poi l’altro curatore, Mario Gargantini, e soprattutto i ragazzi che ci hanno aiutato: è stata un’esperienza di sei mesi veramente straordinaria. In ultimo, vorrei ringraziare anche mia moglie perché per sei mesi mi ha sopportato. Grazie.
MARCO BREGNI:
Grazie, Carlo. Oggi abbiamo fatto un incontro con una persona affascinante per il suo sguardo sulla realtà e sulla vita, perché ha documentato, con la propria vita, che la persona non è determinata dal suo genoma, dai suoi geni, dai suoi cromosomi, ma dal suo rapporto con l’infinito. E che questo sia vero lo potete vedere nella mostra: se guardate il video, è molto semplice. Questo ragazzino Down che prega il Signore amante della vita è la statura dell’uomo, e Lejeune di questo era consapevole, tant’è vero che ha dedicato la sua vita di ricercatore e di medico a trovare una terapia per questi ragazzi. E non ha mai pensato, da vero medico, che la diagnosi di Down dovesse portare a un aborto ma alla ricerca di una terapia, che poi, come diceva Carlo, sarà tra un anno, dieci, venti, ma ci arriveremo. Col suo coraggio, non ha mai smesso di affermare la dignità della persona, anche quando questo ha messo a rischio la sua carriera. Ha affermato sempre la verità. Abbiamo a che fare con un uomo, un uomo vero, e non ci meraviglia che Giovanni Paolo II lo chiamasse amico. Grazie. Abbiamo ancora qualche minuto, se ci fossero domande è possibile farle. Prego!
DOMANDA:
Sono un professore di citologia all’università di Ancona e mi interesso di evoluzione molecolare. Non vengo qui per parlare della mia ricerca, voglio solo dare una piccola testimonianza di come una persona affetta da una sindrome genetica può migliorare. C’è stato un nostro studente affetto dalla sindrome di KIilnefelter, che per certi aspetti è anche più grave di quella di Down: non riesce a parlare ma usa il computer e sa leggere. Ora, grazie all’impegno della madre e di tutti i colleghi, questo ragazzo l’anno scorso si è laureato in scienze biologiche con una tesi semi sperimentale. Questo dimostra che possono fare grandi miglioramenti. Volevo solo dare questa testimonianza, grazie.
CARLO SOAVE:
Se posso fare un commento a quanto ha detto, questa è un’ulteriore dimostrazione che noi non siamo definiti dai nostri geni. Noi siamo definiti dalla nostra vita e dai rapporti che instauriamo nella nostra vita. Questo è quello che definisce l’essere vivente, e non solo gli uomini, ma tutti gli esseri viventi, dal primo che è esistito, anche il batterio, fino all’ultimo. È la nostra storia, è il motivo per cui siamo unici, irripetibili e imprevedibili, perché quello che succederà domani a ciascuno di noi, chi potrà mai dirlo? Questo è quello che ci dice la scienza: non ci dà una risposta di senso ma è come un ritratto in cui, man mano, i nostri tratti identificativi diventano sempre più precisi, sempre più definiti. E quello che è sempre più definito è che noi siamo rapporto con chi ci ha voluto.
DOMANDA:
Buongiorno, io volevo fare una domanda. Ho una sorella autistica molto grave e volevo solo dire che il problema di una persona affetta da sindrome di Down non è migliorare, potrebbe anche non migliorare. Volevo fare questa domanda: perché nella nostra società ciò che si può curare – tante malattie, con le nuove metodiche, si possono curare – si elimina? Una osservazione: se noi uomini facciamo sparire ciò che nella realtà è difettoso, la medicina muore perche non ha più niente da curare.
MARCO BREGNI:
E’ molto vero che a volte non si privilegia la cura, ma la cosa buffa è che gran parte delle malattie con cui abbiamo a che fare adesso sono malattie croniche, dove è proprio la cura la cosa più importante. Tutte le malattie della società moderna, dal diabete all’ipertensione, dalle cardiopatie ai tumori, sono malattie dove non si guarisce, in gran parte dei casi. Per cui, il ruolo della medicina non è quello di guarire ma di accompagnare e di cercare di migliorare la vita del paziente quanto più possibile. Quindi, eliminare il paziente malato è la cosa più stridente che possa avvenire, perché è assolutamente in contraddizione anche con la medicina contemporanea.
JEAN-MARIE LE MENE:
Jerome Lejeune aveva una formula molto carina, per riprendere le sue parole. Diceva questo: “Quando la natura condanna, il ruolo della medicina non è quello di eseguire la sentenza di morte ma di cercare di commutare la pena”.
DOMANDA:
Io sono membro del Coordown, che è il coordinamento di tutte le associazioni che si occupano della sindrome di Down in Italia. Ringrazio soprattutto per l’invito che ci è stato fatto a partecipare a questa assemblea. Io volevo portare la nostra testimonianza, anche personalmente come medico. È proprio vero che le persone con sindrome di Down ci testimoniano chi è veramente la persona, perché ci sono tanti stereotipi nella mente di chi non li conosce e li pensa tutti uguali, ma chi vive insieme a loro – noi ne conosciamo tantissimi e viviamo insieme a loro nella realtà presente – si accorge che questi stereotipi non sono veri e che veramente ogni persona è una cosa assolutamente unica. Volevo lanciare un messaggio e una domanda: sono un medico ma in questi anni ho scoperto che forse la ricerca sta camminando molto lentamente, mentre ho visto correre di più la scienza educativa, nel senso che con queste persone sono stati fatti dei grandi progressi grazie al lavoro di molte persone che si occupano di educazione. Volevo chiedere se esiste questa sinergia fra l’aspetto della cura della persona, tipico del medico, e la cura educativa della persona, e se proprio per le persone con la sindrome di Down questa possa essere un esempio per tutti. Grazie.
CARLO SOAVE:
La ringrazio molto. In questi giorni, e anche un po’ prima, da quando si era sparsa la voce che si stava facendo la mostra, noi abbiamo ricevuto input da varie persone in Italia, richieste di mettersi in relazione con altre entità che si occupano di pazienti affetti dalla sindrome di Down. L’idea sarebbe: perche non si utilizza anche uno strumento come questo per lanciare una specie di network internazionale, in cui vari gruppi che si occupano di questa cosa si mettono in rete e cercano di sostenere la ricerca e l’assistenza alle famiglie? Sarebbe un’occasione molto interessante: la fondazione Lejeune, se ho ben capito, già fa parecchio su questa cosa. Se tutti quelli che sono interessati a entrare in contatto ci danno un riferimento, poi si comincia a creare una rete, anche tenendo conto delle realtà che già esistono in Italia e anche da altre parte. Potrebbe essere un aiuto e un supporto alla ricerca, per tenersi in contatto e sapere le novità. Se invece volete rispondere sulla parte più propriamente medica…
JEAN-MARIE LE MÈNÉ:
La persona che ha preso la parola ha ragione. Talvolta si tende a contrapporre i modi con cui ci occupiamo delle persone affette da trisomia 21: da una parte, la cura, dall’altra l’educazione: in un certo periodo si diceva che fosse solo una questione di educazione e non un problema medico o scientifico. Naturalmente tutto contribuisce a migliorare lo stato, la condizione, le performance intellettuali, il comfort: è importante che tutte queste attività vengano effettuate in modo appropriato. E chi lavora in questo modo, con tecniche sempre più straordinarie, come vediamo noi alla fondazione, fa qualcosa di assolutamente proficuo, perché tutto questo lo si fa in sinergia con i progressi medico-scientifici del futuro. Tutto va insieme: la cosa peggiore sarebbe opporre i saperi. Al contrario, bisogna collegarli gli uni agli altri, e per farlo bisogna guardare alla persona. Ed è possibile farlo solo se la si ama: lo può fare chi vuole il suo bene, senza opporre il proprio sapere a quello dell’altro. Se amiamo la persona trisomica, dobbiamo guardarla con amore e mettere insieme tutti i saperi. In questo modo potremo fare altri progressi.
MARCO BREGNI:
Grazie. Chiederei a madame Lejeune di concludere questa discussione.
BIRTHE BRINGSTED LEJEUNE:
Vorrei dirvi che la modestia di mio marito forse apparirebbe chiara nel fatto che soffrirebbe a vedere tutto questo agitarsi intorno al suo nome. Però sarebbe bello se voi andaste via da qui con la convinzione che ci sono valori da difendere: questa è la cosa migliore che possiate fare per gli handicappati ma anche per tutta l’umanità. Grazie di essere venuti così numerosi quest’oggi, siamo veramente contenti e ci sentiamo a casa nostra.