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LA SFIDA DEL DISCORSO DI RATISBONA E LA LEZIONE DI EUGENIO CORECCO
Partecipano: Andrea Bettetini, Docente di Diritto Ecclesiastico all’Università degli Studi di Catania; Libero Gerosa, Direttore dell’Istituto Internazionale di Diritto Canonico e Diritto Comparato delle Religioni alla Facoltà di Teologia di Lugano; Gian Piero Milano, Preside della Facoltà di Giurisprudenza all’Università di Roma Tor Vergata; S.Em. Card. Antonio Maria Rouco Varela, Arcivescovo di Madrid; Patrick Valdrini, Presidente della Consociatio Internationalis Studio Iuris Canonici Promovendo. Introduce Romeo Astorri, Docente di Diritto Canonico all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza.
LA SFIDA DEL DISCORSO DI RATISBONA E LA LEZIONE DI EUGENIO CORECCO
Ore: 15.00 Sala Neri GE
ROMEO ASTORRI:
Tocca a me fare da moderatore a quest’incontro dal titolo: “La sfida del discorso di Ratisbona e la lezione di Eugenio Corecco”. Il senso dell’incontro è la provocazione che, a partire dal discorso di Ratisbona e dall’applicazione al diritto che di questo discorso al Bundestag fatto da Benedetto XVI, viene al diritto canonico e in qualche modo provoca a pensare a quella che è stata la lezione di Eugenio Corecco. Per questo abbiamo chiamato il Card. Rouco Varela che di Corecco è stato amico e compagno di studi a Monaco, entrambi allievi di Klaus Mörsdorf e altre persone che, per motivi istituzionali e per motivi amicali, hanno conosciuto Corecco, a confrontarsi su questo tema. Io ho già parlato troppo, do subito la parola al Card. Rouco Varela.
S.EM. CARD. ANTONIO MARIA ROUCO VARELA:
Per me è un onore partecipare a questo incontro in memoria di Eugenio Corecco e, all’interno di questo titolo, sulla sfida di Ratisbona nella lezione di Eugenio Corecco. Il mio intervento è strettamente personale, è più ricordo, memoria di un’amicizia che risposta alla questione che emerge attraverso il titolo, cioè la sfida di Ratisbona e la lezione di Eugenio Corecco. Per questo ho inserito come titolo del mio intervento: memoria di un’amicizia nata e nutrita nel servizio alla comunione della Chiesa. Mi sembra che la sfida di Ratisbona, questa nuova forma di dialogo fra la ragione e la fede, possa trovare applicazione alla comprensione della dimensione giuridica della Chiesa attraverso la categoria della comunione.
Quindi inizio la prima parte: “Memoria di un’amicizia sacerdotale, premessa viva di un’amicizia accademica”. L’impegno serio e duraturo nei confronti della scienza, a prescindere da quale essa sia nel senso della sua valutazione da parte di Benedetto XVI nella sua lezione di Ratisbona, presuppone sempre, sotto un’ottica esistenziale, una posizione di amanti della vita, una vocazione. Se quanto sopra lo esprimiamo in termini di esperienza cristiana, bisognerebbe parlare di una libera scelta per Cristo, assunta e decisa alla luce della fede. Questo equivale a dire frutto del dono di un incontro con Lui, che ci viene incontro in un dato momento e in un luogo storico preciso della nostra esistenza, che Lui sceglie, non noi, un incontro che ci trasforma nella parte più intima del nostro essere e del nostro possedere. Nel libro degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio, che culminano nella contemplazione per raggiungere l’amore, la risposta che deve uscire dall’anima dell’esercitante, alla fine del percorso spirituale fatto, è la bellissima preghiera: “Prendi, Signore, e ricevi tutta la mia libertà, la mia memoria, la mia intelligenza e tutta la mia volontà. Tutto ciò che ho e possiedo tu me lo hai dato; a Te, Signore, lo ridono, tutto è tuo, di tutto disponi secondo la tua volontà; dammi solo il tuo amore e la tua grazia e questo mi basta”. È la risposta dovuta dell’esercitante, conformemente alla logica del cuore, soprattutto immaginandosi Cristo, Nostro Signore, davanti e posto in croce e facendo un colloquio con Lui. Egli, da Creatore, è venuto a farsi uomo e dalla vita eterna è venuto alla morte temporale, così da morire per i miei peccati. Farò altrettanto esaminando me stesso: che cos’ho fatto per Cristo, che cosa devo fare per Cristo e che cosa sto facendo per Cristo? Infine, vedendolo in quello stato e appeso alla croce, esprimerò quei sentimenti come mi si presenteranno. Ecco le parole di sant’Ignazio: “Se per qualsiasi vocazione cristiana la profondità dell’impegno che si deve concedere alla risposta, al Signore che chiama, non ammette dubbi, tanto meno allora per la vocazione al sacerdozio ministeriale”. Questa comune vocazione sacerdotale, vissuta negli anni della storia della Chiesa in Europa e nel mondo, anni contrassegnati dall’annuncio della convocazione del Concilio Vaticano II, è stata quella che ha unito i due giovani sacerdoti, l’uno svizzero, di lingua italiana e l’altro spagnolo, che si sono ritrovati nelle aule dell’Università di Monaco nel semestre invernale dell’anno accademico 1959-1960. Si sono incontrati come discenti, come allievi di Diritto Canonico, in cui brillava di luce propria Klaus Mörsdorf, maestro di una nuova forma di comprensione della dimensione giuridica della Chiesa, di forte richiamo, in un certo qual modo appassionante, sotto un’ottica intellettuale e sacerdotale. Lui stesso si mostrava un sacerdote fedele della Chiesa cattolica; sì, certo, era un buon sacerdote. La novità delle sue idee sulla natura e il fine del diritto canonico, consisteva, il tutto preso con un retroterra scientifico ed ecclesiale, in qualcosa di elementare nella e per la coscienza cattolica della Chiesa, cioè il fatto di affermare e di far vedere che essa, nella completezza del suo essere visibile e invisibile, era stata istituita dal Signore e che quindi apparteneva all’ordine delle realtà salvifiche, accessibili nella loro radice ed essenza solo attraverso la conoscenza della fede. L’ordo ecclesiae non era scindibile dal Vangelo. Si tratta solo di una novità sorprendente per alcuni giovani studenti, che anelavano di aprirsi ad orizzonti intellettuali ed ecclesiali diversi da quelli in cui erano stati educati e formati fino al momento di essere stati ordinati sacerdoti? Sicuramente sì. In base a complesse ragioni di teoria, storia e vita, l’aspetto della costituzione umano-divina della Chiesa, che sembrava più vicino al mondo, era quello della sua struttura giuridica. Non è certo un caso che per difenderla in modo efficace, nell’ambiente culturale e politico creato dal liberalismo e dall’illuminismo, i canonisti, accompagnando e assecondando il magistero della Chiesa, si erano avvalsi di una categoria della filosofia sociale molto in voga all’epoca, cioè quella della società perfetta. È stato e continua a essere opinabile il risultato dei loro sforzi intellettuali, soprattutto vedendo quanto successo nella prima metà del XX sec. in Europa e nel mondo: due conflitti mondiali, persecuzioni atroci della Chiesa e del fatto cristiano, le più numerose e le più crudeli dell’intera storia. Ma non era questo fattore – no, lungi da ciò – la cosa peggiore: in fin dei conti il martirio di tanti fratelli nella fede stava germogliando come seme di nuovi cristiani e come nuova e promettente ora della Chiesa. La Chiesa cominciava a risvegliare e a risvegliarsi nelle anime, secondo una diagnosi nota e brillante di Romano Guardini. La cosa peggiore invece si ritrovava nella valutazione pastorale del fatto istituzionale della Chiesa e nel modo di vivere il fatto canonico da parte di molti cattolici degli anni ’50, degli anni ’60 dello scorso secolo, in cui era stato convocato un Concilio ecumenico con il proposito basilare dell’aggiornamento della loro vita, azione e missione. L’antigiuridismo, ben noto e consolidato nell’esperienza e nella scienza giuridico-ecclesiastica del protestantesimo contemporaneo, aveva attecchito in circoli cattolici molto importanti, molto significativi, influenti, nel mondo accademico e nelle più svariate istanze pastorali della Chiesa.
Seconda parte: “Sacramento e diritto: antinomia nella Chiesa? Riflessioni per una teologia del diritto canonico”. Riflessioni condivise da quei due giovani sacerdoti nell’estate di Monaco del 1970, amici sin dai primi passi come allievi di Klaus Mörsdorf, adesso docente di Diritto Canonico, rispettivamente negli atenei di Friburgo e della Università Pontificia di Salamanca. Ebbene, hanno trovato accoglienza editoriale presso Jaca Book, nel 1971, con il titolo, Sacramento e diritto: antinomia nella Chiesa? Riflessioni per una teologia del diritto canonico, all’interno della collana “Strumenti per un lavoro teologico”. Il loro genere letterario è stato quello del dialogo e l’ispirazione e la motivazione è stata quella di voler contribuire a un cambiamento di percezione intellettuale e di sensibilità ecclesiale. Rispetto a una delle questioni maggiormente cruciali nel difficile e complesso processo di applicazione, accoglimento del Concilio Vaticano II, vale a dire quello della retta concezione della Chiesa, da parte di teologi pubblicisti si discutevano e si mettevano apertamente in questione i contenuti che facevano parte della dottrina della fede, esposti in modo inequivocabile e in modi appassionati e mostrati nei documenti conciliari, in particolare nelle quattro Costituzioni e in modo primario, sotto l’ottica di una buona ermeneutica teologica, nella Costituzione dogmatica Lumen gentium. Fra le questioni discusse ritrovavamo ad esempio la fondazione della Chiesa da parte di Gesù Cristo, la sua sacra mentalità, la successione apostolica, il magistero, gli elementi dottrinali-sacramentali dell’appartenere alla Chiesa, la natura umana e divina, escatologica del suo essere, della sua vita, della sua missione, il sacerdozio ministeriale, e così via. L’operazione intellettuale e pastorale di riduzione dell’ambito specifico della sua azione e presenza nel mondo, a livello delle realtà temporali che maggiormente dipendevano dal potere umano, ad esempio l’economia, la politica, il diritto, era in piena auge all’inizio del decennio degli anni ’70. Era quello il momento della nascita della Teologia della liberazione che si presenta nelle prime versioni scientifiche pubblicistiche, con la pretesa teorica di sviluppare un’idea e una pratica dell’evangelizzazione al servizio dei poveri, senza però che si potesse evitare comunque il fatto di dissimulare, di occultare i contenuti e i fini prettamente socio-economici e politici. L’influenza su di essa delle categorie della filosofia e dell’ideologia marxista era lampante. La sfida personale vocazionale dei canonisti, impegnati con l’illusione intellettuale ed ecclesiale di far luce partendo dalla prospettiva di una incipiente teologia del diritto canonico, in quel momento della vita e dell’esperienza pastorale della Chiesa contraddistinta da così tanta confusione dottrinale e da una così alta agitazione ideologica, gli sforzi di questi canonisti si possono capire facilmente. Momenti fra l’altro in cui si moltiplicavano, proliferavano proposte, problematiche sinodali, l’intesa d’Olanda e mi fermo lì, dove proliferavano, si moltiplicavano proposte e problematiche, come ho detto, quasi sempre mistificate dall’adozione univoca dell’idea secolare della democrazia politica. Era quindi necessario cambiare prospettiva intellettuale ed esistenziale e, per l’analisi e la soluzione della problematica dottrinale e pastorale posta, occorreva porsi sul punto di partenza dogmatico della fede, trasmessa ed insegnata dalla tradizione e dal magistero vivo della Chiesa. L’esempio di Romano Guardini e il modo in cui Joseph Ratzinger lavoravano teologicamente all’epoca, per noi è stato un fattore decisivo. Quindi, in altri termini, era urgente assumere, senza riserve intellettuali e/o esistenziali, come presupposto ermeneutico indiscutibile la confessione della fede nella sua pienezza cattolica ed apostolica, una fede che non rifugge, piuttosto ricerca l’incontro con la ragione, sulla falsariga dello stile epistemologico anselmiano della fides quaerens intellectum. La definizione della norma canonica come ordinatio fidei, che Eugenio Corecco avrebbe proposto alcuni anni più tardi, non cozzavano dal punto di vista dialettico con la buona teoria della conoscenza teologica, che strutturava il progetto iniziale di una teologia del diritto canonico, anzi, germinava, in quei dialoghi di inizio degli anni ’70 dello scorso secolo, da un punto di vista tematico e metodologico, germinando nell’ordine delle idee e nel campo dell’esperienza viva della Chiesa, germinando, dicevo, come una ramo della teologia con personalità scientifica propria. I due protagonisti di quelle riflessioni teologico-canoniche, risultato di una lunga amicizia accademica e sacerdotale, speravano di avere offerto una risposta strutturata, articolata da un punto di vista scientifico ed orientata da un punto di vista pastorale a quello che stavano chiedendo i segni dei tempi.
Terza e ultima parte: “Il diritto canonico al servizio della comunione ecclesiale”. Nei giorni 19-24 aprile del 1993, si sono ritrovati di nuovo a Roma gli autori dell’opuscolo milanese, invitati come relatori al Simposio Internazionale di Diritto Canonico, organizzato dal Consiglio Pontificio per l’interpretazione dei testi legali, in occasione del decimo anniversario della promulgazione del nuovo codice di diritto canonico, che Giovanni Paolo II aveva chiamato il Codice del Vaticano II. Entrambi potevano vantare un lungo periodo di ministero episcopale, esercitato rispettivamente a Santiago di Compostela dal 1976 e a Lugano dal 1986. L’esperienza accademica degli anni di ricerca e di docenza universitaria, non dimenticata, si arricchiva e si sviluppava, si perfezionava, attraverso una qualificata esperienza pastorale. All’interno del programma di questo Symposium, dedicato allo studio del ius in vita et in missio Ecclesiae, ci affidarono la relazione sul diritto canonico al servizio della comunione ecclesiale nella seconda sessione (Rouco Varala), e quella che doveva affrontare il diritto universale, diritto particolare nella quinta sessione (Eugenio Corecco). Giorni duri per lui: i segni dolorosi della sua grave malattia, vissuta in croce come oblazione sacerdotale con e nel Signore, erano evidenti. Sarebbe deceduto solo due anni dopo; tuttavia, il vissuto di questo stato di salute in croce irradiava speranza e vigore apostolico. Nel frattempo era maturata fra di noi, inclusi tutti gli amici di quella che si riconosceva come “Scuola di Monaco”, la convinzione teorica e pratica che l’idea o la categoria teologica chiave, per fondare e capire la dimensione giuridica della Chiesa, era quella di communio. Nella relazione finale del Sinodo straordinario dei vescovi del 1985, era stata collocata, da un punto di vista teologico, fra le categorie ecclesiologiche del mistero e della missione; il Sinodo aveva cercato di rispondere alle ambiguità dottrinali, alle deviazioni pratiche, constatabili innumerevoli volte nell’esperienza postconciliare della Chiesa, con la triade teologica di Chiesa-Mistero, Comunione e Missione. Tuttavia, dal punto di vista della spiegazione teologica e dal punto di vista della ragion d’essere del diritto nella vita e nella missione della Chiesa, la categoria communio era quella decisiva. Essa consentiva di sviluppare un discorso della ragione teologico-giuridica che chiariva e faceva capire logicamente la relazione costitutiva fra valenza visibile e invisibile del mistero della Chiesa e al contempo la natura e il contenuto storico salvifico della sua missione, poiché nella comunione ecclesiale venivano comprese la comunione dei fedeli, la comunione gerarchica e la comunione delle Chiese nella loro intrinseca dipendenza e destinazione, al fine di poter essere realizzata, sotto un’ottica personale e comunitaria, come comunione dei santi nelle cose sante, vale a dire, come il luogo e il tempo storico salvifico dove avviene l’incontro con Gesù Cristo, capo della Chiesa, nel Suo Spirito, mandato da Lui affinché tutti i figli della Chiesa possano avanzare sulla strada della loro storia temporale verso la casa e la gloria del Padre. Il modello di esistenza umana realizzata in comunione, che si evince dalla conoscenza e dal vissuto interno della communio ecclesiale, interpretata da un punto di vista teologico, è di una enorme virtualità etica e spirituale per tutti coloro che vogliono avanzare in un modo autenticamente umanistico di esperienza sociale e addirittura politica; virtualità storica che si può comprovare, verificabile quando ispira, sostiene, sospinge e conforma la vita personale e le iniziative culturali e sociali dei cristiani. Don Giussani e la sua opera sono una testimonianza veramente buona e ottima di tutto questo. Grazie, grazie a tutti.
ROMEO ASTORRI:
Ringrazio il Card. Rouco Varela per questa densa, sia umanamente che dal punto di vista intellettuale, relazione, comunicazione che ci ha fatto. Do la parola a Libero Gerosa, che è Direttore del Dipartimento di Religioni Comparate della Facoltà Teologica di Lugano e che è stato Professore di Diritto Canonico in parecchie università tedesche e Rettore della Facoltà Teologica di Lugano. Prego.
LIBERO GEROSA:
Dopo aver visto la stupenda mostra allestita qui al meeting di Rimini sul nostro amico Eugenio Corecco e dopo aver ascoltato la Lectio magistralis di Sua Eminenza, compagno di studi di Eugenio Corecco, potete sicuramente, facilmente intuire che il compito del sottoscritto non è facile. Però il moderatore mi ha invitato a parlare come uno dei discepoli di Corecco; visto che Corecco amava le sfide, cercherò malamente di assumerne una anch’io. Lo faccio a partire dal titolo di questa tavola rotonda che è abbastanza intrigante. Un giornalista questa mattina mi chiedeva: ma in fondo, non c’è in questo titolo un anacronismo, visto che la lezione di Ratisbona viene tanti anni dopo le lezioni di Eugenio Corecco? La mia risposta è stata un no secco, per queste ragioni. Se non sbaglio, ridotta all’osso, veramente fino all’osso, la sfida lanciata da Papa Benedetto XVI a Ratisbona è quella di una duplice coniugazione che ogni cristiano, ma oserei dire, anche ogni fedele di qualsiasi altra religione oggi è chiamato, volente o nolente, a fare fino in fondo. La prima: coniugare la fede con la ragione e la seconda, non meno difficile, coniugare la religione con l’amore. Istintivamente a noi cristiani ci vengono subito in mente i nostri fratelli musulmani, per i quali non deve essere facile assumere questa duplice sfida. Sull’argomento ho già scritto un libretto, pubblicato da Rubbettino in Italia, ma il Meeting di Rimini ci insegna, ormai da anni, che questa duplice coniugazione la dobbiamo fare noi, inizia nel nostro cuore e nella nostra intelligenza; è in noi che deve iniziare la conversione, questo duplice processo di coniugazione di fede e ragione e religione o se volete appartenenza anche a un movimento e amore. È lo stesso Luigi Giussani che ce lo richiama in quel famoso libretto, che io ancora conservo gelosamente nella sua versione originale, perché privo di qualsiasi commento: Tracce di esperienza cristiana. A pagina 137 dice: “E’ attraverso noi che Cristo si propone agli uomini, è il nostro atteggiamento e la nostra parola che costituiscono il richiamo attraverso cui gli altri possono conoscerlo”; e nell’altro, non meno importante per me, insuperabile librettino di Giussani, librettino per modo di dire, perché è una bomba, Il rischio educativo, a pagina 21, il fondatore di Comunione e Liberazione dice: “L’educazione consiste nell’introdurre ragazzo alla conoscenza del reale, precisando e svolgendo l’originale visione suscitata dall’incontro. Esso ha così l’inestimabile pregio di condurre l’adolescenza alla certezza dell’esistenza di un significato delle cose. La realtà non è mai veramente affermata se non è affermata l’esistenza del suo significato. In questo si risolve quell’esigenza assoluta di unità che costituisce l’anima dell’umana coscienza. Indubbiamente, continua Giussani, ogni dinamismo naturale deve essere rispettato nella sua vera fisionomia. E’ importante perciò osservare come il processo di dipendenza, oggi tradurremmo la sequela, al carisma originario non debba risultare ottuso, un subire meccanico da parte del discepolo e un imporre sconsiderato da parte del maestro. Sia il primo un seguire accompagnato da sempre maggiore consapevolezza e il secondo un proporre che trovi la sua forza nei motivi che sa portare e nelle esperienze che sa soffrire”. Ecco la luce di queste due citazioni del fondatore di Comunione e Liberazione, amico di Eugenio Corecco! La domanda fondamentale suggerita da questa tavola rotonda, a mio avviso, potrebbe essere tradotta in questo modo e comunque è la pista per seguire quel poco che ho da dire in questa numerosissima assemblea. Come Eugenio Corecco ci ha insegnato a vivere noi e a regalare agli altri il contenuto che, magistralmente, papa Benedetto XVI ha svolto vent’anni, qualche anno dopo insomma, a Regensburg, attorno a questi due binomi: fede e ragione e religione e amore. La mia risposta si concentra irriducibile su tre atteggiamenti fondamentali: ascolto, offerta e coraggio. E’ a tutti noto, anche sua Eminenza l’ha ripreso, che Eugenio Corecco è uno dei maggiori rappresentanti, assieme a Sua Eminenza e a Oskar Saier, poi vescovo della cosiddetta scuola di Monaco, la quale ha contribuito non poco a rinnovare il diritto canonico, ossia il diritto della Chiesa Cattolica e in particolare la sua metodologia scientifica, che è sempre tesa costantemente, e nelle lezioni di Eugenio Corecco è evidente la cosa, alla ricerca ostinata della verità che sta sotto alle leggi e alle norme giuridiche. Anzi, la sua ostinazione è stata tale che, come ha già raccontato Sua Eminenza, ha osato, la parola giusta è osare, negli anni ’70, criticare la definizione data da S. Tommaso per formularne una nuova. Addirittura qualche anno dopo, il grande quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung ha dedicato alla cosa ben tre colonne dal titolo: “Capovolto dalla testa ai piedi”. Scusatemi se è poco. Ha osato, partendo dal suo ascolto di maestri, capovolgere l’impostazione del diritto della Chiesa. Quindi la mia domanda è: ma Eugenio Corecco ha osato fare al mondo canonista e a tutto il mondo ecclesiastico questa provocazione esclusivamente a partire dalla sua evidente dote naturale, dalla sua genialità oppure dobbiamo ricercare in lui spunti e intuizioni che gli sono venute a partire da altri? Eugenio Corecco è arrivato a fare questo passo e portarlo fino alle ultime conseguenze, – anzi nel convegno già citato di Lugano ha detto che, una volta lanciata questa definizione, ha dovuto per il resto della vita rincorrerla, per cercare di dimostrare a tutti che era vera – ha potuto fare questo grazie a un grandissimo atteggiamento di ascolto e chi lo ha conosciuto personalmente può documentarlo ancor meglio di me, ascolto di due maestri: don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione e Klaus Morsdörf, padre riconosciuto della teologia del diritto canonico. Il primo nome indica l’esperienza ecclesiale di Eugenio Corecco, il secondo il suo maestro di studi. Grazie al primo, Eugenio, don Eugenio, ha riscoperto l’essenza della fede come lo stupore di fronte a una presenza contemporanea qui ed ora, che rinnova la vita e fa, e permette all’uomo di riscoprire tutta la dignità e la ragionevolezza della vita: è ciò che si vede in modo bellissimo, plastico, nella mostra qui allestita al Meeting di Rimini. Pensate che nella prima enciclica, Giovanni Paolo II è arrivato a dire che quello stupore è l’essenza stessa della fede cristiana. Potremmo dire che Eugenio ha fatto quello che ha fatto semplicemente perché era cristiano. Perché, come mi diceva colei che ha curato in modo particolare la mostra, già in seminario aveva scritto al suo vescovo dicendo: “Ho l’impressione che abbiamo dimenticato l’essenziale”. Purtroppo in molti seminari è stato così e questo ha permesso a lui di ascoltare in un modo diverso da altri l’insegnamento di Klaus Morsdörf, che ha cercato di mostrare il perché la Chiesa, un suo diritto, perché questi rapporti di comunione sono anche giuridicamente vincolanti, a partire da quei due strumenti attraverso i quali in ogni cultura umana vengono prodotte relazioni giuridiche che sono la parola e il simbolo, che nell’esperienza cristiana diventano l’annuncio o il kerigma e il sacramento e quindi giuridicamente ancor maggiormente vincolanti, perché più immediatamente radicati nel jus divinum positivo. Mi fermo qui, su questo primo punto, scusatemi se è poco, ma questa sembra modestamente una meravigliosa riconiugazione della fede con la ragione umana. Ma Eugenio Corecco non è secondo a nessuno neanche nell’altra riconiugazione, della appartenenza con l’amore. Chi ha abitato assieme nella famosa casa di Gambar, sa che in quella casa lì ne sono proprio passati di tutti i colori. Eugenio sapeva accogliere chiunque e far sentire chiunque a casa, accolto. Non gli chiedeva prima se era cristiano o no, se faceva scuola di comunità oppure no ecc.: lo accoglieva e esprimeva il suo modo di essere. E ne abbiamo avuto conferma anche quando alla televisione, essendo ormai la sua malattia avanzata, afferma che l’essenza della vita si è concentrata, assumendo uno spessore esistenziale molto più forte di prima. La vita assume una dimensione di urgenza prima insospettata. Si capisce che oltre ad essere irripetibile, il tempo è diventato breve, per cui dev’essere vissuto e apprezzato più intensamente di prima. Questo non certo per quello che si riesce ancora a fare, ma per quello che si vive interiormente, paragonando se con se stessi e con il proprio destino ed è in questo paragone che, come insegna il catechismo della Chiesa Cattolica, la persona è orientata a discernere nella propria vita ciò che non è essenziale per volgersi verso ciò che è essenziale. L’esperienza umana fa sentire così la verità della fede, perché la fede ci è data per capire meglio la nostra umanità e il nostro destino umano, non per sostituirlo, per capirlo meglio, perché la fede non è un’alternativa alla vita, ma è la rivelazione della verità sull’uomo e su Dio, dunque per vivere meglio quello che stiamo facendo. Questo paragone costante, che ci permette di migliorare nella nostra umanità giorno dopo giorno grazie alla coniugazione della fede con la ragione e l’appartenenza con l’amore verso a tutti, non si dà, cari amici, senza il terzo atteggiamento caratteristico del temperamento della vita di fede di Eugenio Corecco: il coraggio, soprattutto il coraggio di pensare. Sarò brevissimo, perché questo è il punto più delicato della mia testimonianza, soprattutto oggi nella Chiesa e lo dico con un aneddoto: un giorno dell’Anno Santo 2000, in cui su ordine di un altro Cardinale mi sono recato dal Cardinale Josef Ratzinger per spiegargli, per modo di dire, la contraddizione esistente tra un testo giuridico e un testo dogmatico, l’allora Cardinale Josef Ratzinger, con un sorriso molto simile a quello di Eugenio, il sorriso di un padre affettuosissimo, mi dice: “Caro don Libero, per quanto importante sia la teologia del diritto canonico, è la bella straniera anche a Roma”. Fuori di metafora, voleva dire: “Stai attento, perché nella Chiesa, anche nella Chiesa, sia i conservatori che i progressisti preferiscono un’altra concezione di diritto, quella positivista, perché è più facile, con questa concezione, far passare la propria politica nella Chiesa”. Ecco, una cosa posso testimoniare con assoluta certezza: il canonista Eugenio Corecco non ha mai, ma veramente mai, ceduto a questa tentazione e con il suo sorriso impareggiabile sapeva incoraggiarti e dirti “vai fino in fondo in quello che credi, non mollare anche se faranno di tutto per farti fuori”. E’ a mio avviso lo stesso coraggio simile al coraggio a cui il Papa indimenticabile, Beato Giovanni Paolo II, ha voluto richiamare tutti noi, nel lontano Meeting del 1982, ma estremamente bello, dove Giovanni Paolo II ci ha detto che la verità e la forza della pace generano una civiltà che nasce dalla verità e dall’amore. Costruire senza stancarsi mai questa civiltà è “la consegna che oggi vi lascio. Lavorate per questo, pregate per questo, soffrite per questo!”. Ecco, oggi come allora, cari amici, possiamo assumere questa consegna solo se non ci manca il coraggio che, assieme alla fortezza, è un dono dello Spirito Santo, che consiste in una specifica fiducia infusa nell’animo, escludente ogni timore dovuto alle difficoltà e alle contrarietà, e che purtroppo oggi manca, occorre dirlo, in molti cristiani, anche in cristiani che hanno la grazia di essere educati in nuove comunità e movimenti ecclesiali, perché non sanno più coniugare il credere con il pensare, mentre Papa Benedetto XVI ci sta insegnando alla grande, ogni giorno, che anche la teologia come scienza, quella che Eugenio Corecco ha praticato fino in fondo, cito, “postula sempre un nuovo inizio del pensare, che non è prodotto dalla nostra propria riflessione o genialità, ma dall’incontro con una parola che ci precede”. Grazie per l’ascolto.
ROMEO ASTORRI:
Ringrazio don Libero per questa descrizione della personalità di Corecco. Dò ora la parola al professor Valdrini, che è presidente della Consociatio internationalis studio iuris canonici promovendo, l’Associazione internazionale dei canonisti di cui Corecco è stato presidente. Attualmente è prorettore dell’Università Lateranense ed è stato rettore dell’ “Institut Catholique” di Parigi. Chiedo a lui come agli altri relatori lo sforzo di una maggiore sintesi, per evitare un po’ a tutti noi di prolungare oltremisura il nostro incontro. Grazie
PATRICK VALDRINI:
Con piacere e sentimenti di ringraziamento, come presidente attuale della Consociatio, ho risposto all’invito fattomi di partecipare a questa tavola rotonda. Cercherò di riassumere il testo che avevo presentato. Personalmente ho conosciuto Corecco quando mi propose di organizzare per Consociatio un congresso a Parigi. Mi chiamo Valdrini, sono figlio di immigrato e sono nato in Francia, l’accento mi tradisce. Ho avuto incontri con lui, proficui nel 1990. In questa occasione ho scoperto la personalità del professore universitario e dell’allora presidente della Consociatio. La procedura è che quello che organizza faccia una proposta; avevo proposto il tema della sinodalità, lui non era insensibile a questo tema, ti ricordi Gianpier, il tema della sinodalità, il tema principale di Corecco. Però in seno al direttivo c’è stato un dibattito. Devo dire che come professore ho ancora un vivo ricordo dell’ambiente di quel direttivo, in cui ho fatto una bella esperienza di disputatio, dialogo, di disputatio tra universitari e, per quanto riguarda Corecco, del suo ruolo all’interno delle scuole, metodi e pensieri dottrinali nel diritto canonico e nel diritto ecclesiastico. Era presidente della Consociatio cioè un’associazione di canonisti, nata nel 1970, dopo il Vaticano II, che è stata fondata da docenti di diritto canonico ed ecclesiastico della facoltà di giurisprudenza dell’università La Sapienza di Roma, che hanno voluto convocare, cito una delle frasi del testo fondatore, “le energie più vive e vitali della canonistica giuridica contemporanea nelle sue diverse scuole e indirizzi e nei suoi maggiori maestri e chierici e laici”. Corecco come presidente e studioso universitario, ma allo stesso tempo sacerdote e poi vescovo, ha diretto la Consociatio tenendo fede alla volontà dei fondatori di mantenere la natura aconfessionale del gruppo costituito e di creare uno spazio di dialogo, di confronto tra le persone di dottrina diversa. Sotto la sua presidenza, l’ Associazione non ha mancato di garantire a tutti di poter esprimere le opinioni più divergenti, specialmente quando abbiamo organizzato congressi ogni tre anni su argomenti che riguardavano il diritto ecclesiastico e il diritto canonico. Tutto ciò io l’ho sperimentato a Parigi sul tema della sinodalità e in quell’ epoca, e ancora oggi, c’erano e ci sono opinioni divergenti. Perciò il dovere dell’attuale presidente della Consociatio è esprimere il ringraziamento dei membri a uno dei suoi più illustri presidenti, che ha saputo mantenere fortemente questo elemento dell’identità del nostro gruppo di studiosi. Voglio farlo solennemente, a nome di tutti i membri della Consociatio. Dopo farò un riassunto per spiegare come ho incontrato non solo la persona di Corecco, ma il suo pensiero. Io sono francese, ho fatto gli studi a Strasburgo, una scuola diretta dal professor Schlick, che era esattamente l’opposto del pensiero di Corecco. Lì ho fatto la mia preparazione universitaria, in un sistema dove vigeva un’opinione sulla natura, sui fondamenti del diritto canonico che lo definiva il diritto di una società religiosa. Non usavamo, infatti, il concetto di società giuridica perfetta, perché volevamo distaccarci dal concetto apologetico, però il diritto che studiavamo e presentavamo doveva essere profondamente giuridico, con concetti trasportabili nell’ambito degli ordinamenti statali con cui eravamo invitati a confrontarci. Vigeva un principio di mutua interazione dei concetti, questo era molto importante, nel dialogo con gli ordinamenti statali, con i giuristi degli ordinamenti statali, Senza tuttavia che fosse negletto il confronto col concetto mutuato dalla tradizione canonica. Questo punto del pensiero Lussemburghese era forte ed efficiente. Quando sono andato a Parigi, dopo, mi sono confrontato di nuovo al pensiero di Corecco, perché dovevo entrare in un altro modo di pensare. Avevo cambiato facoltà e dunque diciamo che avevo un riferimento più chiaro all’ecclesiologia e alla teologia e dunque, ripercorrendo il suo iter di pensiero, mi sono inserito a mio modo nella sua volontà, questo mi sembra il punto essenziale, di uscire da un diritto canonico fondato solo sull’adorazione, come diceva sua Eminenza. E non potevo rimanergli indifferente, anzi mi affascinavano i motivi di fondo che spiegavano la volontà di Corecco di trovare uno spazio nuovo di creazione di un diritto canonico con una sistematica propria. Questo era la cosa che era per me affascinante. Il suo pensiero fa entrare in una logica di ragionamento nella quale la fede produce un’istituzionalizzazione propria, che non ha di per sé una necessità di mutuare i concetti da sistematiche strane, con le quali è imprescindibile un dialogo che si svolge con un’identità forte e soprattutto autonoma. Nel testo che leggo, volevo fare un accenno agli ambiti della teologia e dell’esegesi. Questo l’ho visto sotto le mie finestre, perché l’arcivescovo di Parigi ha creato una Facoltà di teologia che era assolutamente diversa dalla facoltà dell’istituto Cattolico di Parigi e il suo progetto era proprio di ricostruire una teologia e di farne nascere un’istituzione con una nuova prospettiva di confronto con le altre scienze di riflessione intellettuale sull’essere umano, fondata su “l’ordo fidei”. E’ questo lo dico perché c’è un modo di fare teologia così come c’è un modo di fare l’esegesi e di fatto questo modo lo conosciamo perché è il metodo canonico, che ha espresso il Papa Benedetto XVI in Gesù di Nazareth. Diciamo la fede fonda una cultura, fonda un’istituzionalizzazione. Avete chiesto ai partecipanti di preparare un intervento per fare un collegamento tra il pensiero di Corecco e diversi testi di Benedetto XVI. Ora, alla luce di quanto detto sopra circa l’incontro voluto tra i due autori, a me sembra che una delle prime sfide della Chiesa Cattolica nel mondo odierno, che ritrovo nei due autori, sia quello di potere entrare in dialogo con diversi sistemi di pensiero, presentando temi e concetti fondati sulla fede e dimostrando come, fondandosi sulla certezza della trascendenza, essi siano imprescindibili per raggiungere una verità sull’essere e i suoi componenti. A questo punto divergenze di metodo possono esistere sul modo con cui dialogare, con chi dialogare, fino a che punto dialogare, quali temi privilegiare per dialogare. Però bisogna mettere in evidenza che la fede non solo ha prodotto una cultura dei rapporti tra gli uomini nel passato, ma è un elemento centrale della cultura. Rifiutare il posto rivendicato dalle religioni nelle società, spesso espresso nei confronti della chiesa Cattolica, delle religioni che vogliono esercitare il loro compito sociale, che è uno delle ragione di essere religioni per gli uomini, mi sembra che non sia andare nel senso della storia, per quanto lo possiamo capire oggi. Perché la dimensione della trascendenza apre una via di civiltà, di incremento dei desideri più positive dell’uomo, di trasformazione della vita nella quale sia considerata l’appartenenza di tutta la comunità e di rispetto delle persone e della loro libertà di coscienza. L’apertura alla trascendenza apre una via di comprensione e di trasformazione dell’umanità e per questo è considerata come un bene per la società. Il Papa l’ha assolutamente detto meglio di me al Bundestag: “Il concetto positivista di natura e ragione, la visione positivista del mondo è nel suo insieme una parte grandiosa della conoscenza umana e della capacità umana, alla quale non dobbiamo assolutamente rinunciare. Ma essa stessa nel suo insieme non è una cultura che corrisponda e sia sufficiente all’essere uomini in tutta la sua ampiezza. Dove la ragione positivista si ritiene come la sola cultura sufficiente, relegando tutte le altre realtà culturali allo stato di sottoculture, essa riduce l’uomo, anzi minaccia la sua umanità”. Questa mi sembra, sia per Corecco, sia per Benedetto XVI, una sfida molto importante nel mondo di oggi. Un ultimo punto velocemente, perché la dimensione, come dire, il pensiero di Corecco consente di affrontare lo stesso discorso, ma per la Chiesa come istituzione. La sfida della chiesa Cattolica voluta da Cristo con un carattere, come dice il Concilio Vaticano II, un carattere di società complessa, con un aspetto visibile e un altro invisibile, è dimostrare in se stessa come si realizza ciò che è offerto alla società nella quale vive. Il diritto è strumentale su molti punti, ma quando presenta gli elementi essenziali dell’istruzione ecclesiastica, il diritto è cultura, perché è la realizzazione di questa Chiesa voluta da Cristo. Benedetto XVI dice: “Il diritto è giustizia” – l’ha detto alla Rota il 21 gennaio 2012 – perché porta in sé il giusto istituzionale. Su questo punto sia Corecco che il Papa hanno un pensiero della giustizia che non è uno scopo del diritto – dobbiamo raggiungere la giustizia – ma un essere profondo del diritto. Quando il Papa accenna all’antigiuridismo, che abbiamo conosciuto e che conosciamo ancora oggi nella Chiesa, vuol dire che proseguire su questa via equivale a rifiutare la condizione storica della Chiesa, la quale deve realizzare istituzionalmente e come istituzione e aggiungiamo nella istituzione, ciò che Dio vuole per l’umanità.
ROMEO ASTORRI:
Do ora la parola ad Andrea Bettetini che è Ordinario di diritto canonico all’Università di Catania; è la persona tra di noi seduti a questo tavolo che ha avuto meno personale frequentazione con Eugenio Corecco e quindi lo ringrazio per aver accettato la sfida di confrontarsi con il pensiero del Papa e con il pensiero di Corecco. Grazie.
ANDREA BETTETINI:
Ringrazio l’organizzazione e anche te per aver pensato ad invitarmi, e ringrazio soprattutto per la possibilità di riscoprire il pensiero e, anche attraverso le relazioni precedenti, soprattutto la persona di Eugenio Corecco. Per questo mio intervento, che cercherò di tenere nei limiti che ci sono stati indicati, vorrei prendere le mosse da un’affermazione di Corecco nella sua relazione tenuta a Pamplona nel ’76 sull’Atto contra legem. Diceva che il fatto giuridico, quando coglie con precisione il mistero della Chiesa, è in se stesso espressione di verità teologica. Quindi questo significa non soltanto che il diritto è una forza veritativa, in quanto può esprimere la verità più profonda, ma altresì che il diritto è principio ermeneutico per intendere la Chiesa, o, a essere più precisi, il diritto canonico potrà condurre alla verità a condizione che sappia cogliere il mistero della Chiesa, ossia che sappia comprendere, e naturalmente faccia comprendere, che la Chiesa, come ricordava la Lumen Gentium è in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e di unità di tutto il genere umano. Il diritto, quindi, nel pensiero di Corecco, non è una realtà estrinseca, esteriore, all’essere e al farsi della Chiesa, ma è elemento intrinsecamente strutturale alla stessa. Il diritto è proprio lo strumento per costruire la Chiesa nella verità e verso la verità come sacramento. Una costruzione mai astratta, ma sempre molto concreta, che guarda anche all’uomo nella sua specificità, all’uomo, come ricordava Corecco in un’altra sua relazione, che non si muove in uno stato di giustizia originale, ma nello stato di natura dopo il peccato, e che, con l’altrettanto concreta incarnazione di Cristo, è stato redento e reso capace della grazia. Per questo il diritto non appare una mera forma, tanto più in un ordinamento come quello della Chiesa, dove l’esigenza di santificazione del singolo e la costruzione della communio ecclesiae et ecclesiarum è e diviene costantemente la norma fondamentale di riferimento e dove è giusto per l’uomo quanto rispecchia nella sua specifica e tangibile realtà la ratio divina. Ecco, mi sembra che nell’accoglimento di questa prospettiva, Benedetto XVI nel discorso alla Rota di quest’anno, affermasse che, sono le parole del Papa, “per cogliere il significato proprio della legge occorre sempre guardare alla realtà che viene disciplinata e ciò non solo quando la legge sia prevalentemente dichiarativa del diritto divino, ma anche quando introduca costitutivamente delle regole umane; queste vanno infatti interpretate anche alla luce della realtà regolata, la quale contiene sempre un nucleo di diritto naturale e divino positivo, con il quale deve essere in armonia ogni norma per essere razionale e veramente giuridica”. La realtà quindi appare in sé normativa, nel senso che l’obiettiva realtà dell’essere, la verità, assume la natura di misura del volere e dell’agire, quindi misura della volontà e dell’azione. Una valutazione che la canonistica ha sempre inteso riportare non solo nell’ambito della razionalità, come abbiamo appena visto poc’anzi, ma anche in quello a lei più caratteristico e caratterizzante dell’equità, necessaria premessa della giustizia e quindi affermazione del diritto. L’epikeia, lo ricordava ancora Corecco, appare allora come superior regula, in quanto per giudicare casi speciali presuppone e trascende il diritto positivo, richiamandosi direttamente ai principi di più alto livello, ma sempre nell’ambito della ragione pratica e della ratio boni.
Allora mi pare che non ci si può accontentare di quella verità che, da un punto di vista semiotico, si definisce verità linguistica o verità dei sistemi significanti, una verità cioè verificabile solo all’interno dello stesso discorso senza alcun rinvio a situazioni esterne al discorso stesso. Una verità che, se da un lato permette di esaltare una delle funzioni proprie di ogni espressione e linguaggio, cioè la loro normativa formale, la loro capacità di creare un mondo indipendente da quello che dovrebbero rappresentare, dall’altro accantona anche questa visione dell’altra anima che ogni discorso rivela sempre al suo interno, che è poi l’anima fondamentale, il suo rapporto con la realtà, con gli eventi di cui parla. E mi sembra che contro ogni verità meramente formale e linguistica, Benedetto XVI a Ratisbona affermava che Dio agisce con logos; logos significa insieme ragione e parola, una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi, ma, appunto, come ragione.
Se quindi per Corecco la parola e il sacramento hanno carattere formalmente vincolante, ciò è dovuto al fatto che la ragione dell’uomo è la ragione di Dio; che Dio si manifesta all’uomo in modo ragionevole e che tutto ciò che non è ragionevole è quindi contrario al disegno di Dio. Pertanto la parola, e non diversamente il sacramento, possiedono un’intimazione giuridica vincolante, perché allontanandosi da essi non solo si rifiuta Dio, la sua giustizia, ma si rifiuta in definitiva l’uomo, si va contro la natura stessa dell’uomo, creato a immagine di un Dio che parla in modo razionale all’uomo, proprio perché, con parole ancora del Papa a Ratisbona, “non agire con il logos è contrario alla natura di Dio”. Naturalmente non dobbiamo confondere il disegno di Dio e la sua assolutezza, che va affermata su un piano più prettamente metafisico, con la sua conoscenza e la sua attuazione necessariamente relative e parziali, e per le quali ci muoviamo su un diverso piano etico giuridico e gnoseologico. Ma al contempo questi due piani, quello metafisico e quello gnoseologico, sono intimamente connessi senza sovrapporsi, come ricorda costantemente Corecco. Infatti il diritto inteso come esperienza giuridica appare come dimensione necessaria dell’essere umano che, per natura, è un essere in relazione. Il diritto è relazione, relazione con gli altri uomini, con lo spazio, con il tempo e, in un’ottica di fede, con Dio e con la Chiesa. E se complesso e delicato è, ce lo ricordava il professor Gerosa, determinare il suum, oggetto della giustizia, nella sua più riposta essenza il diritto è un valore problematico e mai definitivo, che si attua nella storia, dove l’uomo agisce con la sua libertà all’interno di un progetto che è noto nella sua pienezza solamente a Dio; anzi è proprio, direi, temporalizzandosi, che il diritto si esprime come valore, come continua scoperta dell’eterno nel temporale.
Si impone allora, sintetizzando, un’ultima breve riflessione su una questione di diritto costituzionale della Chiesa che stava molto a cuore al nostro: quella del rapporto fra carisma e istituzione, quindi della fedeltà della Chiesa, e nella Chiesa, allo Spirito. Corecco aveva la consapevolezza che ogni autentico carisma reca in sé una struttura che io potrei definire giuridica, nella misura in cui ogni carisma ha in sé delle regole di comportamento che obbligano chi ne è donatario, prima ancora che queste stesse regole siano positivamente poste dal legislatore ecclesiale. Inizia così una dinamica ben nota a chi conosce la storia della Chiesa, tra il dover essere giuridico del carisma e l’essere giuridico dato al diritto positivo vigente. Una dinamica che si traduce anche in elemento di stimolo all’evoluzione dell’ordinamento giuridico, se il carisma nel suo originale manifestarsi non trovasse nell’ordinamento stesso le condizioni per un’adeguata accoglienza. La fedeltà allo Spirito diviene allora elemento di comunione, intesa come, sono parole di Corecco stesso, “realtà da realizzare e come modalità secondo cui il diritto canonico deve strutturarsi per realizzarla”. La legge canonica, ricordava pochi mesi fa il Papa alla Rota, deve essere così collegata ad un ordine giusto nella Chiesa, in cui vige una legge superiore; in quest’ottica la legge positiva umana perde il primato che le si vorrebbe attribuire, giacché il diritto non si identifica più semplicemente con essa. In ciò tuttavia la legge umana viene valorizzata in quanto espressione di giustizia, anzitutto per quanto essa dichiara come diritto divino, ma anche per quello che essa introduce come legittima determinazione di diritto umano. “Accade allora qualcosa di simile a quanto ho detto (è il Papa che parla) a proposito del processo interiore di S. Agostino nell’ermeneutica biblica: il trascendimento della lettera ha reso credibile la lettera stessa”.
Si conferma allora anche, direi, nell’ermeneutica delle leggi, che l’autentico orizzonte è quello della verità giuridica da amare, da cercare e logicamente da servire. Come quindi ricordava costantemente Corecco, in questa prospettiva, la parola e il diritto sono strumento di cui la sapienza divina si serve per indicare agli uomini ciò che è giusto e ciò che è vero nella Chiesa e il cammino, spesso imperscrutabile, per raggiungere la piena communio ecclesiae et ecclesiarum.
Penso che, con l’espressione molto bella di S. Agostino, “se sapremmo non scambiare i segni con le cose che questi rappresentano, potremmo elevare gli occhi della mente sopra le creature col cuore per attingere alla luce eterna”. E mi sembra che senz’altro Corecco abbia aiutato ad elevare lo sguardo dai semplici segni, per portarci alla realtà oltre questi segni e, a sua volta, anche riuscire a calare questa realtà, oltre i segni, anche nella realtà più quotidiana e concreta del diritto. Grazie.
ROMEO ASTORRI:
Io ringrazio il prof. Bettetini e do la parola al prof. Milano, Preside della facoltà di Giurisprudenza di Roma Tor Vergata; collaboratore e amico di Corecco, è stato segretario della Consociatio ai tempi della sua presidenza ed è autore di una monografia sulla sinodalità, che è uno dei temi più cari a Corecco. Prego prof. Milano.
GIAN PIERO MILANO:
Grazie, il fatto di parlare per ultimo, se comporta qualche piccolo disagio, soprattutto per chi ascolta e ha avuto la pazienza di ascoltare finora, ma sappiamo per quali motivazioni siamo qui riuniti, dà qualche vantaggio di essere più breve. Lo dico a beneficio di tutti e soprattutto non si riuscirebbe a dire con altrettanta autorevolezza quanto è stato detto da coloro che mi hanno preceduto. Quindi procederò con generosi sfoltimenti della mia relazione e vi dico soltanto che anch’io prendo spunto dal discorso di Benedetto XVI alla Romana Rota del 21 gennaio 2012, soprattutto nella parte in cui si occupa dell’attività ermeneutica in sede di applicazione giudiziale, da parte quindi dei giudici, ma anche più ampiamente di quanti amministrino il bene della Chiesa e che debbono operare per realizzare – queste sono le espressioni del Papa che mi danno spunto per creare dei collegamenti, molti collegamenti con Corecco – “il fondamentale obiettivo di assicurare l’unità della Chiesa attraverso la comunione nella disciplina”. Un dato sul quale molto si sarebbe soffermato Corecco nel tempo. E vorrei appunto cogliere e sviluppare brevemente il momento essenziale in cui si presentò sulla scena accademica internazionale Eugenio Corecco, vale a dire il Congresso di diritto canonico di Pamplona del 1976, dedicato al tema generale su La norma en el derecho canonico. Va detto, per meglio inquadrare il contesto, che in quel lasso di tempo erano in pieno corso i lavori per la revisione del Codice di Diritto Canonico ed era inoltre in avanzata fase di elaborazione il progetto di Lex ecclesiae fondamentalis, ampiamente criticato da Eugenio Corecco e non solo da lui, teso ad introdurre all’interno dell’ordinamento canonico una carta costituzionale con il suo apparato logico concettuale e la sua sintassi dogmatica. In quel contesto, che potremmo dire intriso di giuridismo, ma lo dico senza alcuna nota di sfavore evidentemente, nel quale la canonistica italiana, e qui vedo degli autorevolissimi colleghi, si confrontava, solidarizzando sulle scelte definitive, con la scuola di Navarra in una indagine a tutto campo dell’ordinamento giuridico ecclesiale, non solo nei suoi presupposti ed evoluzione storica e nei suoi diversi ambiti applicativi, ma anche nelle sue relazioni, sul piano ordinamentale, con la dogmatica civilistica laica. In quel contesto, dicevo, ricco di idee, ma avaro di aperture in direzioni culturali che non fossero in continuità con la tradizione degli studi giuridico-canonistici, il giovane brillante docente dell’università di Friburgo, Eugenio Corecco, presentava la sua relazione sul Valore giuridico dell’atto contra legem, un titolo che sembrava ideato proprio per rimarcare la differenza dell’approccio di Corecco rispetto alle tematiche che allora dibattevano la canonistica prevalente. Partendo da tutt’altra impostazione, infatti, Corecco dava per acquisito che la canonistica avesse finalmente preso piena coscienza di essere una disciplina teologica chiamata ad applicare con vigore il metodo teologico, il che le imponeva di uscire dalle strettoie in cui di dibatteva – ma il discorso è di persistente attualità – la scienza giuridica che, negli ordinamenti statuali moderni, privilegia il principio della certezza del diritto sulla verità oggettiva, per cui in caso di conflitto è la giustizia ad essere sacrificata per garantire la stabilità e la sicurezza dei rapporti giuridici e dunque l’autorità dell’ordinamento. Su queste basi Corecco richiama l’attenzione sul fatto che nel diritto canonico il problema della certezza giuridica deve essere sacrificato per lasciare spazio alla giustizia ed alla verità oggettiva. Il diritto canonico deve essere inserito all’interno di un orizzonte più ampio, vale a dire quello della certezza teologica, in quanto realtà ecclesiale. Il diritto canonico è una delle realtà essenziali in cui si manifesta, per fatti concludenti, la tradizione della Chiesa e di conseguenza la verità contenuta nella parola e nel sacramento che dalla tradizione sono perpetuati. Queste considerazioni di Corecco di allora si saldano perfettamente con la lettura proposta da papa Benedetto sul significato e sui contenuti dell’interpretazione della legge canonica, che non può essere mero esercizio logico anche se brillante e raffinato, né può ridursi all’applicazione delle norme alla singola situazione, sia pur affrontata con spirito pastorale, ma deve guardare alla realtà regolata interpretandola alla luce della tradizione della Chiesa e soprattutto in spirito di comunione. In questo senso, come afferma papa Benedetto, anche nell’interpretazione della norma da applicare al caso concreto, deve operare quel principio del sentire cum ecclesia, che è elemento essenziale dell’opera dell’interprete. Qui si dischiude il discorso centrale del pensiero di Corecco, che vede come fondamento della certezza del diritto, anzi come esigenza intrinseca alla norma canonica, di garantire l’unità all’interno della communio ecclesiae et ecclesiarum; più ancora, la stessa norma canonica è ultimamente vincolante solo nella misura in cui coglie una esigenza della communio, alla quale l’interprete deve sentirsi vincolato. È stato giustamente rilevato che nel pensiero di Eugenio Corecco il fine ultimo dell’ordinamento canonico è il bonum, non la realizzazione del bonum ecclesiae, né tantomeno la societas giuridicae perfecta, ma quello di realizzare la communio che costituisce la modalità specifica con cui, all’interno della comunità ecclesiale, diventano giuridicamente vincolanti sia i rapporti intersoggettivi sia quelli esistenti a un livello più strutturale tra le chiese particolari e quella universale. Infatti, a livello costituzionale, il rapporto tra Chiesa universale e particolare si realizza come communio ecclesiarum e questo sembra cogliere la sostanza specifica della convivenza ecclesiale e sembra capace di esprimere la fisonomia inconfondibile degli istituti canonici che regolano la vita ecclesiale. La communio è ad un tempo la realtà da realizzare e la modalità secondo cui il diritto canonico deve strutturarsi per realizzarla, essa è inoltre il risultato della convergenza delle categorie di popolo di Dio, corpo mistico, parola e sacramento, che Rouco Varela ritiene elementi con cui stabilire il nesso tra teologia e diritto canonico, fondanti l’esistenza del diritto canonico stesso. Ne consegue che la communio, in quanto causa materiale formale e finale del diritto della Chiesa, è per se stessa giuridicamente vincolante. Quanto alla nozione di communio, il locus teologicus di essa, e della ecclesiologia in particolare, è al numero 23 della Lumen Gentium dove, parlando delle chiese particolari, si rinviene la geniale formula teologica che le indica come realtà teologiche ed istituzionali in quibus et ex quibus una et unica ecclesia catholica existit. Il significato strutturale della categoria communio è stato poi espresso con un’altra formula da Hans Urs von Balthasar nel titolo del suo libro Das Ganze im Fragment: tutta la Chiesa è presente nel frammento dell’Eucaristia, d’altra parte la Chiesa stessa nella sua totalità si costituisce a sua volta a partire dalla celebrazione di tutte le Eucaristie, il principio della communio, pur assumendo molti significati spirituali, è prima di tutto – questo è un aspetto essenziale del pensiero di Corecco – un principio strutturale. Esso infatti non esiste solo in riferimento alle relazioni reciproche di immanenza e inseparabilità tra le due dimensioni formali della Chiesa particolare e universale, ma anche a molti altri livelli formali e materiali delle realtà ecclesiali. Esiste infatti una dinamica di comunione tra parola e sacramento che sono inscindibili, tra Papa e collegio episcopale, tra vescovo e presbiterio, sacerdozio comune dei fedeli e quello ministeriale, doveri e diritti dei fedeli, fedele e Chiesa stessa e viceversa, perché la persona battezzata è immanente al corpo mistico di Cristo e il corpo mistico di Cristo, che è la Chiesa, è immanente al fedele. Dunque oltre ad essere principio formale dell’ecclesiologia, la communio è anche principio formale della vita ecclesiale, a partire da quella del cristiano, Homo novus, il quale possiede un modello nuovo di vita che tende al coinvolgimento totale di sé con gli altri. Egli non appartiene più a se stesso, ma a Cristo e tende a mettere in comunione tutti i beni spirituali e materiali, nessuno escluso, e vive di comunione. Un aspetto preminente di questo nuovo approccio è quello del giudizio comune o giudizio di comunione. Se la vita cristiana è comunione, è impossibile che tale non sia anche il giudizio che la regge e la accompagna. Il giudizio comune deve essere inteso come tensione costante a leggere la realtà quotidiana compartecipata e condivisa secondo il principio della fede, generata dall’unico Spirito, che ha fatto dei primi cristiani un cuore solo e un’anima sola. Partendo da questi presupposti ideologici e dunque cercando di verificare il cammino percorso da Corecco, può sorgere spontanea la domanda di quale sia stato il suo giudizio in relazione al problema dei fondamenti ecclesiologici del nuovo Codice di diritto canonico, cui egli aveva partecipato in periodiche ristrette riunioni con il Papa e pochi altri canonisti. In esso Codice, Corecco vede ibridarsi le due diverse divaricate visioni del fine del diritto canonico: governare una societas, o attuare una communio, e fa una serie di critiche sulle quali io mi permetto di non soffermarmi, perché il discorso si farebbe tecnico, anche se non privo di spunti interessantissimi. Quello a cui mi preme arrivare, avviandomi alla conclusione, è il sottolineare che, secondo Corecco, proprio quel Codice che, ultimo documento conciliare, come lo aveva definito Giovanni Paolo II, era chiamato a realizzare gli enunciati del Concilio, aveva in realtà lasciato in ombra una parte essenziale dei suoi insegnamenti, vale a dire proprio quella incentrata sull’ecclesiologia di comunione. Anche in altri settori dell’ecclesiologia, anche in altri settori della dottrina, peraltro, non erano mancate riflessioni, se non critiche, quanto meno dubitative, proprio sull’intensità della recezione delle dinamiche comunionali ai vari livelli della vita e delle istituzioni ecclesiali, dinamiche che sono state al centro dell’attenzione dei due ultimi pontificati. Dei molti interventi, soprattutto dell’attuale pontefice, volti a sollecitare una più spiccata sensibilità ed attenzione alla struttura teologica e misterica della Chiesa, ci è stato proposto in questa sede un profilo specifico, ma estremamente significativo: l’ermeneutica del dato normativo nell’attività giudiziale, nella quale è vistosamente interpellato l’esercizio della sacra potestas, che è la più evidente espressione del radicamento della legge canonica nell’ordine giuridico della Chiesa, fondato su una legge superiore, che dev’essere interpretata alla luce dell’Incarnazione, che opera negli elementi della Parola, del Sacramento e della Tradizione della Chiesa. La consapevolezza di questo radicamento della lex agendi nella fede, che abbiamo visto presente in modo sempre acuto ed originale e talora con accenti anticipatori nell’attività scientifica di Eugenio Corecco, fu una caratteristica costante anche del suo impegno umano e ministeriale, e molti aspetti di quell’impegno sono stati autorevolmente trattati in questa sede. Come conclusione, vorrei soltanto richiamare un dato che non è certo casuale, anzi assume un forte valore emblematico e sintetizza mirabilmente quella che fu la lex agendi di Mons. Corecco, come sacerdote, ricercatore, docente e uomo di fede. Nel motto del suo stemma vescovile scelse di riprodurre la frase della glossa bolognese che richiama l’istituto dell’equità canonica, attribuendogli la più alta derivazione tra le categorie giuridiche e teologiche, l’origine, anzi la identificazione, nella divinità stessa: “In omnibus equitas, quae est Deus”.
ROMEO ASTORRI:
Io ringrazio i relatori. Mi pare che l’affresco che è uscito da queste voci dia ragione di quell’avventura sacerdotale, personale e scientifica che è stata evocata dal Card. Rouco Varela, raccontando della sua amicizia, della sua storia con Corecco. Le persone che hanno parlato, da vari punti di vista hanno mostrato un esito di questa amicizia, problematico, ma affascinante.
Grazie ancora a tutti voi della pazienza e grazie ai relatori.