Chi siamo
IL LIMITE E L’INFINITO. IL MONDO ANTICO DI FRONTE AL MISTERO.
Il limite e l'infinito. Il mondo antico di fronte al Mistero
Letture da Orazio, Esiodo, Aristotele, Lucrezio, Seneca ed altri.
Reading a cura di Zetesis. Consulenza musicale di Silvia Balsamo. Partecipano: Federico Martinoli, Studente; Moreno Morani, Docente di Glottologia all’Università degli Studi di Genova; Giulia Regoliosi, Preside del Liceo Classico Alexis Carrel di Milano; Francesca Sacchi, Studentessa.
IL LIMITE E L’INFINITO. IL MONDO ANTICO DI FRONTE AL MISTERO.
Ore: 11.15 eni Caffè Letterario D5
MORENO MORANI:
Possiamo cominciare. Faccio una breve introduzione in cui accenno alle motivazioni di questo reading, di questa lettura, il cui titolo è “Il limite e l’infinito”. L’idea dell’infinito rappresenta per l’uomo di tutti i tempi e di tutte le epoche una sfida all’intelligenza e quando ho scritto questa nota non sapevo ancora che ci sarebbe stato un intervento di Benedetto XVI su questo tema, per cui semplicemente invito a leggere il messaggio che il Papa ha mandato al Meeting. “Parlare dell’uomo e del suo anelito all’infinito” dice “significa innanzitutto riconoscere il suo rapporto costitutivo con il Creatore, l’uomo è una creatura di Dio”. C’è un passaggio che vorrei sottolineare in particolare, dice “Oggi questa parola, creatura, sembra quasi passata di moda, si preferisce pensare all’uomo come ad un essere compiuto in se stesso e artefice assoluto del proprio destino”. Ecco, questa idea dell’uomo come artefice assoluto del proprio destino è un’idea che gli antichi ci hanno trasmesso, l’espressione stessa la riconosciamo in una frase famosa, faber est suae quisque fortunae, ognuno è l’artefice del proprio destino. Allora questo è il punto di partenza che ci ha guidato nella preparazione di questo incontro.
L’idea dell’infinito come sfida all’intelligenza è regolarmente la sconfitta dell’uomo, della ragione di fronte a questa sfida. È difficile anche solo immaginare una realtà che non abbia in nessun modo confini e limiti. Realtà di questo genere sfuggono alla nostra esperienza, perché i nostri sensi e il nostro pensiero sono quelli di una creatura limitata. L’idea dell’infinito comporta un salto. Rivolgere il nostro pensiero all’infinito significa cogliere in maniera radicale la limitatezza che caratterizza la nostra natura di uomini, di misero granellino di polvere rispetto alla grandezza dell’universo e al prolungarsi del tempo, “ombre di sogno”, per usare l’espressione dei poeti antichi. Il pensiero dell’infinito risveglia domande che disorientano. Per usare le parole di un poeta italiano dell’Ottocento, Leopardi, sono domande “ove per poco il cor non spaura”, anche se l’inevitabile naufragio della ragione umana di fronte a queste domande ha un carattere alla fine consolatorio (“il naufragar m’è dolce in questo mare”), perché l’uomo riconosce che il tentativo di rispondere a queste domande lo caratterizza comunque come uomo.
Poste queste premesse, parlare di infinito comporta un processo di astrazione, tanto per il filosofo quanto per il matematico che opera su realtà infinite come i numeri e le entità delle geometrie. L’idea di infinito perde la sua astrazione solamente nel momento in cui l’infinito decide di entrare nella storia e di farsi conoscere all’uomo: per il cristiano l’infinito non è più un’entità astratta, ma un Tu al quale potersi rivolgere, pur nella percezione della sproporzione incolmabile esistente fra Creatore e creatura limitata. Ma come si pongono di fronte a questi interrogativi gli uomini della cultura greco-latina che non conobbero il Cristianesimo? L’incontro di oggi intende riproporre, in un ideale percorso di lettura, alcune delle risposte che hanno tentato di dare i protagonisti di quella cultura. Ci introduciamo alla lettura di questi testi sottolineando innanzitutto il fatto che, al di là della distanza che ci separa da queste voci, l’uomo e i suoi tentativi di risposta sono sempre gli stessi.
Una nota astronoma italiana, M. Hack, nel corso di un’intervista recentemente rilasciata a un settimanale, alla domanda su come si immagina l’altra parte, cioè l’esistenza dopo la morte, rispondeva “Non c’è un’altra parte. Ci saranno le mie molecole, che serviranno magari a qualcos’altro, a fare un tavolo, un gatto, che ne so”, e alla domanda “Dove si appoggia questo benedetto infinito?” rispondeva “Non si appoggia, altrimenti non sarebbe infinito”. Sono esattamente le risposte che, quasi con le stesse parole, dava il poeta latino Lucrezio, vissuto nel I secolo a.C.
Al di là del divario tecnico e della mole enormemente diversa di cognizioni che la nostra generazione può vantare, il cuore e lo sguardo dell’uomo sono, in sostanza, immutati. Ma una risposta di questo genere è abbastanza isolata nel mondo antico, che solo raramente si concede atteggiamenti di questo genere ed è di solito più propenso a perseguire gli aspetti problematici della domanda piuttosto che non ad abbandonarsi a prese di posizione di tipo nichilista.
Il percorso che presentiamo oggi nasce dalla riflessione che un gruppo di amici che da anni lavora e si interroga su queste tematiche, producendo anche strumenti (cartacei ed elettronici) per fare conoscere, condividere e discutere i propri tentativi di interpretazione. Questo lavoro ormai più che trentennale ha avuto già espressioni importanti nel quadro del Meeting (tra cui due mostre): nel solco di questa esperienza si pone idealmente l’incontro di oggi, che si avvale anche dell’apporto di due giovani voci, perché il mondo classico interessa comunque a giovani che trovano possibilità di riflessione nella lettura dei classici, nell’apporto di una giovane che ci ha aiutato nel mettere insieme la parte musicale, e queste giovani voci saranno le protagoniste della nostra lettura.
GIULIA REGOLIOSI:
Il libro della Genesi e il Vangelo di Giovanni si aprono con le stesse parole: “All’inizio”. Vi è un inizio, ma vi è anche l’esistenza di Qualcosa o Qualcuno che precede questo inizio e lo determina. Per la Genesi è la Divinità (elōhîm), che compare come terza parola del testo, perché la seconda è il verbo che indica la modalità di quell’inizio: “Creò”; l’inizio dipende dall’ iniziativa di una Divinità che crea l’universo. Il Vangelo di Giovanni presenta insieme e accanto a questa Divinità, in un misterioso rapporto di prossimità e di identificazione, il Logos, facendo della creazione un gesto non solo d’amore, ma anche di suprema razionalità. Questo è il racconto della Bibbia, ed è il tessuto di una rivelazione che Dio stesso ha donato al popolo ebraico e poi completato attraverso il messaggio cristiano. Ma per una cultura, come quella precristiana, che non ha avuto il dono della Rivelazione, che percezione può avere l’uomo che si trova proiettato a vivere in un mondo i cui limiti nello spazio e nel tempo sfuggono a qualunque tentativo di osservazione? L’uomo è una creatura limitata: la sua vita si svolge in un arco di tempo breve e ha come termine ineludibile la morte; ma alla brevità della vita umana si contrappone la durata della natura e dei suoi fenomeni, come ricorda Orazio:
FRANCESCA SACCHI:
“Il freddo si attenua con lo zefiro, l’estate calpesta la primavera, destinata essa stessa a morire, non appena l’autunno ricco di frutti avrà sparso le sue messi, e subito ritorna l’inverno privo di attrattive. Ma il rinnovarsi delle lune ripara i danni del cielo: noi, una volta discesi dove sono il pio Enea e il ricco Tullo e Anco, siamo polvere e ombra”.
GIULIA REGOLIOSI:
Il mondo è destinato a durare rinnovandosi continuamente: invece le generazioni umane sono come le foglie e appena una esce dalla scena ne subentra un’altra, senza la salda continuità dell’albero. Questa contrapposizione tra brevità della vita umana e durata della natura, che sopravvive inalterata all’avvicendarsi delle generazioni, porta con sé di necessità l’esistenza di esseri che sopravvivono alle generazioni umane insieme col mondo: gli dèi immortali e perennemente giovani, a fronte degli effimeri mortali che deperiscono e invecchiano. L’esistenza degli dèi immortali colma quell’esigenza e quel desiderio di infinito che l’uomo ha in sé. Gli dèi sono per sempre, dice già Omero, ma non sono da sempre. I miti e i racconti sulla loro origine si intrecciano, e spesso si contraddicono, in modo complicato. Se il cristiano percepisce all’inizio l’esistenza di un Dio amorevole e intelligente, l’uomo privo di rivelazione percepisce piuttosto un’esistenza caotica di principi spesso ostili e oscuri, e un’epoca di eventi spaventosi, prima di giungere a una situazione di equilibrio e di pacificazione. Ma in mezzo a questi principi paurosi vi è anche una forza che favorisce il perpetuarsi della vita e dell’esistenza, Amore, cioè eros. Il poeta greco Esiodo così riassume questa fase remota:
FEDERICO MARTINOLI:
“Per primo fu Caos, e poi Terra dall’ampio grembo, sede sicura per sempre di tutti gli immortali che abitano la cima nevosa di Olimpo, e Tartaro nebbioso degli abissi della Terra dalle ampie vie, poi Eros, il più bello degli immortali, che affatica la membra, e di tutti gli dèi e di tutti gli uomini doma nel petto il cuore e il saggio sentire”.
GIULIA REGOLIOSI:
Queste parole di Esiodo, benché supportate dall’autorevolezza delle Muse, che di persona sono apparse al poeta a l’hanno istruito, difficilmente possono soddisfare. Il testo stesso di Esiodo si presta a una lettura ambigua: il Caos primitivo “fu” oppure “divenne”? il verbo usato dal poeta greco (géneto) può avere entrambi i valori. E se il Caos e la Terra nacquero, che cosa c’era prima di loro? Deve esserci un elemento primitivo da cui tutto è promanato e su cui tutto si è innestato, e alla ricerca di questo principio (arché) si sono dedicati i primi filosofi, che venivano dalle regioni della Ionia.
Talete per primo cerca di dare una sistemazione a questo prorompere di domanda e dopo di lui altri, i cui tentativi ci sono testimoniati dagli autori successivi a partire da Aristotele:
FRANCESCA SACCHI:
“Ciò da cui tutti gli esseri sono e da cui si originano e in cui alla fine si corrompono, poiché la sostanza permane pur mutandosi negli accidenti, dicono che sia l’elemento primordiale e il principio di tutte le cose. Per questo pensano che niente si generi o perisca, dato che tale natura rimane per sempre. Ci dev’essere infatti una qualche natura, una o più di una, da cui si generi il resto pur restando essa immutata. Talete, l’iniziatore della filosofia, dice che questo principio è l’acqua”.
FEDERICO MARTINOLI:
“Anassimene diceva invece che il principio è l’aria infinita, da cui derivano le cose che nascono, che sono e che saranno, gli dèi e le cose divine, e quante altre cose provengano da loro. Da questa tutto deriva e tutto in essa di nuovo si dissolve. Come la nostra anima -diceva – che è aria, ci tiene in suo potere, anche il soffio e l’aria abbracciano tutto l’universo”.
FRANCESCA SACCHI:
“Anassimandro dice che il principio degli esseri è l’apeiron, cioè l’infinito. L’infinito è eterno, non ha vecchiaia, immortale e indistruttibile. Da esso provengono i cieli e l’universo in loro compreso. Invece nel tempo nascita esistenza e estinzioni sono delimitate”.
FEDERICO MARTINOLI:
“Ancora dice Eraclito: quest’ordine dell’universo, uguale per tutte le cose, non l’ha fatto né un dio né un uomo, ma era, è e sarà sempre fuoco semprevivo, che si accende e si secondo misura”.
GIULIA REGOLIOSI:
Secondo il modo di vedere del filosofo Anassagora, contemporaneo di Pericle, di cui fu amico e che influenzò profondamente, l’etere infinito avvolge una quantità immensa di elementi indefinitamente piccoli, da cui sarebbero generate tutte le cose. Ma al di sopra vi è la ragione universale.
FRANCESCA SACCHI:
“Tutte le cose erano insieme, infinite per numero e piccolezza: infatti la piccolezza era infinita. E di tutte le cose che erano insieme nessuna era invisibile per la piccolezza: tutte infatti le avvolgeva l’aria e l’etere, entrambi infiniti.
Le altre cose hanno parte del tutto, la ragione invece è infinita e autonoma e non è mescolata con nulla, ma è sola di per sé. La ragione comanda su tutte la cose che hanno vita, le grandi e le piccole”.
GIULIA REGOLIOSI:
L’acquisizione dell’idea di infinito non è facile: essa comporta una stacco netto, un passaggio dal concreto all’astratto non immediatamente naturale. Omero aveva usato l’aggettivo “infinito” per designare quantità smisuratamente grandi, ma non illimitate: infinito è il mare perché non se ne vedono i confini, infinita è una folla della quale non si riuscirebbe a contare le persone, infinita è la Terra, che pure ha certamente confini, perché, nella concezione omerica, è circondata da ogni parte dall’ Oceano.
La riflessione dei pensatori e l’interesse per le scienze matematiche e la geometria permette di raggiungere l’idea dell’infinito. Tanto la matematica quanto la geometria pongono l’uomo di fronte a serie che non possono essere chiuse. Il secondo postulato di Euclide, vissuto nel III secolo a.C., così recita: “Una retta finita (cioè un segmento) si può prolungare continuamente in linea retta”.
I segmenti cioè possono essere idealmente prolungati fino all’infinito, così il piano su cui stanno le figure geometriche può essere prolungato senza interruzione in ogni direzione. È la concezione di infinitezza che viene chiamata “ecceterazione”, cioè un’infinita serie di aggiunte. Ma quando si ha a che fare con entità infinite, molti dei principi che parrebbero evidenti alla luce del buon senso e dell’esperienza risultano precari. Ancora Euclide ci insegna che il tutto è maggiore della parte, si tratta di uno degli assiomi, le verità evidenti che vengono poste all’inizio dell’ ottavo libro degli Elementi. Certo l’intera torta è maggiore della porzione di torta, e se da una torta prelevo una fetta, che equivale ad un decimo della torta, mi restano i nove decimi. Ma se da una retta infinita prelevo un segmento di una determinata dimensione, la retta rimane comunque infinita: e se da un’altra retta prelevo un segmento lungo il doppio o il triplo o il decuplo del primo segmento, entrambe le rette rimangono infinite, e dunque uguali. Vi è come un punto di non ritorno, un limite contro il quale l’esperienza pratica e comune si infrange e quasi soccombe. Questa apparente incoerenza tra l’esperienza quotidiana e la riflessione, aveva consentito al filosofo Zenone d’ Elea (del secolo quinto a. C.) di proporre i suoi paradossi, cioè affermazioni che si oppongono all’apparenza. Li riporta Aristotele nella Fisica:
FEDERICO MARTINOLI:
“Il primo riguarda l’inesistenza del moto, perché ciò che si muove prima che al termine deve giungere alla metà. Il secondo è chiamato il paradosso di Achille: il più lento non sarà mai raggiunto nella corsa dal più veloce: infatti necessariamente l’inseguitore deve giungere al punto da cui si è mosso l’inseguito, cosicché necessariamente il più lento è sempre un po’ più avanti. Il terzo riguarda la freccia lanciata, che sta immobile. Il quarto riguarda masse uguali che si muovono nello stadio da direzioni opposte con uguale velocità, le une dalla fine le altre dal mezzo: ritiene che la metà del tempo risulti uguale al doppio”.
GIULIA REGOLIOSI:
Aristotele nel presentarli li contesta; successivamente si è provato ad aggirarli utilizzando l’analogia, come mostra Archimede, ma solo nel XIX secolo si è giunti ad affermare che la somma di infiniti termini può avere valore finito e quindi a contestare teoricamente le affermazioni di Zenone, peraltro in epoca moderna riprese e ripensate su altre basi. Non staremo ore a porre la questione: osserviamo solo il fascino della premessa sull’infinita divisibilità del tempo e dello spazio: una premessa vertiginosa.
Ma l’universo in cui viviamo è un qualcosa di immensamente grande o è qualcosa di infinito? Il poeta latino Lucrezio, che entusiasticamente aderiva alla concezione filosofica di Democrito ed Epicuro, illustra, in termini poetici di grande fascino, l’infinità dell’universo: analogamente con quanto avviene coi numeri e con le rette, non esiste un confine invalicabile oltre il quale uno non possa spingersi.
FEDERICO MARTINOLI:
“Tutto ciò che c’è non è delimitato da nessuna parte;
infatti dovrebbe avere un confine.
D’altro canto appare chiaro che non potrebbe esserci un confine di nulla,
se non c’è qualcosa al di fuori che lo delimiti,
sicché si capisce dove questa natura sensibile non riesce a spingersi.
Ora, poiché dobbiamo affermare che al di fuori del tutto non c’è nulla,
non esiste confine, manca il termine e la misura.
E non importa in quale zona tu sia;
in qualunque luogo ciascuno risieda
lascia da ogni parte altrettanto spazio infinito”.
FRANCESCA SACCHI:
“Inoltre qualora si considerasse finito tutto lo spazio esistente
se uno corresse fino alla parte estrema
e gettasse in volo una freccia
pensi che questa scagliata con robusta forza
andrebbe dov’è lanciata e volerebbe lontano
o ritieni che qualcosa possa impedirglielo e bloccarla?
Infatti è inevitabile che tu ammetta e accetti una delle due cose.
Entrambe ti precludono uno scampo e ti costringono a concedere
che l’universo è spalancato senza fine.
Infatti sia che qualcosa la blocchi e le impedisca
che giunga dove è stata gettata e si collochi al suo termine,
sia che giunga all’esterno, non è partita dalla fine.
Proseguirò così e, dovunque tu ponga i confini,
ti chiederò: che cosa accadrà alla freccia?”.
GIULIA REGOLIOSI:
L’infinità dello spazio porta con sé la domanda sull’infinità del tempo. Qui le risposte sono ancora più complesse e sfuggenti. Il problema si pone da due punti di vista: l’eternità del tempo e l’eternità del mondo in cui viviamo. Per l’uomo antico, l’esistenza, comunemente riconosciuta, di dèi immortali, non risolve il problema: gli dèi, come abbiamo già visto, sono per sempre, ma non sono da sempre, vale a dire che sono immortali ma non eterni, anche se i racconti sulla modalità della loro nascita sono confusi e contradditori. L’immortalità degli dèi non garantisce l’immortalità del mondo: sia i racconti dei poeti sia le elaborazioni filosofiche sono incerte su questo punto: se un pensatore come Platone è a favore dell’immortalità del mondo, altri pensatori, come gli Stoici, evocano in modo drammatico un momento finale in cui tutto ritornerà al fuoco primitivo, da cui tutto si genera e si rigenera. È il momento dell’ ekpyrosis, la conflagrazione che divorerà il mondo unitamente al diluvio. Seneca, rifacendosi ad antiche e venerande scritture di autori orientali, ne dà una descrizione drammatica: le ragioni che porteranno alla definitiva distruzione di tutte le cose sono insite nelle cose stesse, così come nel bambino piccolo sono iscritte le regole naturali che porteranno, col passare degli anni, alla crescita e alla vecchiaia. Dunque il mondo ha già scritti dentro di sé i germi della propria corruttibilità.
FEDERICO MARTINOLI:
“Beroso, che ha interpretato Belo, dice che questi avvenimenti si verificano per il corso delle stelle. Giunge perfino a determinare il tempo della conflagrazione e del diluvio. Alcuni pensano che anche la Terra si scuota e che, spaccato il suolo, ne sgorghino nuove sorgenti di fiumi, che riversino acqua con più abbondanza di una piena.
Ora, che l’universo sia un essere vivente, o che sia un corpo retto da un principio vitale, come gli alberi e le piante, dal suo inizio fino alla sua morte ha insito in sé qualunque cosa debba compiere o subire”.
FRANCESCA SACCHI:
“Come nel seme di ogni uomo che sta per nascere è compresa la ragione e il bambino non ancora nato ha la legge naturale che lo porterà a sviluppare la barba e a imbiancare i capelli (infatti in piccolo e in occulto stanno i lineamenti di tutto il corpo e del successivo attuarsi), così l’origine dell’universo contenne in sé tanto il sole e la luna e i moti delle stelle e la nascita degli esseri quanto le mutazioni delle cose terrene. Fra queste c’era l’inondazione, che deriva dalla legge universale, non diversamente che l’inverno e l’estate. Perciò non avverrà per la pioggia, ma anche per la pioggia; non per lo straripare del mare, ma anche per lo straripare del mare; non per il terremoto, ma anche per il terremoto. Tutte le cose aiuteranno la natura, perché le leggi della natura si compiano”.
GIULIA REGOLIOSI:
Ma se il mondo ha un inizio che ha in sé i germi della fine, quale è stato questo inizio, e per opera di chi? La risposta è difficile e varia: vi è chi la disattende, concependo gli elementi che compongono tutta la realtà come eterni, ed è la posizione cui aderisce Lucrezio; altri pensano ad un artefice, identificabile come una divinità, o la Natura stessa personificata. Dà voce a questa concezione all’inizio delle Metamorfosi il poeta latino Ovidio, che considera tale artefice non come creatore, ma come ordinatore e pacificatore:
FEDERICO MARTINOLI:
“Prima del mare e della terra e del cielo che tutto copre, nell’intero universo il volto della natura era uno solo, che venne detto caos: una rozza massa disordinata, e nulla all’infuori di un peso inerte ed elementi discordi ammucchiati insieme di cose malamente unite. Un Dio o una Natura migliore sanò questa discordia. Infatti divise la terra dal cielo, e il mare dalla terra, e il cielo limpido dalla densa atmosfera. Quando li sviluppò e li liberò dal mucchio cieco, li pose in luoghi separati e li collegò in concorde armonia: la potenza infuocata e senza peso del cielo ricurvo balzò in su e si collocò nel luogo più alto; la più vicina ad esso per collocazione e leggerezza è l’atmosfera; la terra più densa di questi trascinò elementi maggiori e fu schiacciata dal proprio peso; l’acqua scorrendo all’intorno, prese l’ultimo posto e abbracciò il mondo solido”.
FRANCESCA SACCHI:
“Chiunque sia stato il Dio, quando ebbe così separato e disposto la massa e la ebbe raccolta in parti, per prima cosa diede alla terra la forma di una grande sfera, perché fosse dovunque uguale. Aveva poi appena diviso tutte le zone della terra entro confini certi, quando le stelle, che a lungo erano rimaste schiacciate da una cieca caligine, cominciarono a brillare in tutto il cielo; e perché nessun luogo restasse privo di propri esseri viventi, gli astri e le forme divine occuparono il suolo del cielo, le onde si resero abitabili per i pesci lucenti, la terra ricevette la bestie, la mobile aria gli uccelli”.
GIULIA REGOLIOSI:
Ma quando questo è avvenuto, e perché proprio in quel momento del tempo? È la domanda che si fa Cicerone in un passaggio della sua opera filosofica Sulla natura degli dèi.
FEDERICO MARTINOLI:
“Chiedo perché gli artefici dell’universo siano spuntati all’improvviso, dopo aver dormito innumerevoli secoli. Infatti, se non c’era l’universo, non per questo non c’erano i secoli. Ora chiamo secoli non quelli che non possono verificarsi senza la rotazione dell’universo; ma da tempo infinito c’era una specie di eternità, che non era misurata da nessuna delimitazione di periodi, ma che si può intuire come fosse in estensione, perché non è concepibile che vi si stato un tempo in cui il tempo non esisteva”.
GIULIA REGOLIOSI:
L’eternità è il dilatarsi senza confine della vita. Il latino aeternus è da aiwiternus, e questo è formato dalla parola aevom, che indica lo spazio della vita umana. Stessa origine ha il tedesco ewig “eterno”. Il greco aiōn passa dal valore di “tempo della vita umana” a quello generico di “tempo”, ha la stessa radice di aieì “sempre”, ed è usato nelle formule della preghiera cristiana per esprimere l’eternità: i secoli dei secoli che evochiamo nelle preghiere cristiani sono la proiezione verso l’eterno della vita. Da una parte vi è nel mondo antico la ricorrente tentazione di riferirsi all’uomo e all’umanità come criterio di misura del tutto (“L’uomo è misura di tutte le cose”), dall’altra vi è l’aspirazione connaturata all’uomo a prolungare la propria esistenza, il rifiuto ad ammettere che la morte possa annientarla e annichilirla completamente. Rispetto all’eternità del tempo, la vita dell’ uomo è meno di un punto. Il fluire del tempo è inesorabile e viene percepito sempre più veloce, man mano che la vita procede verso il suo fine. Lo esprime con efficacia un passo di Seneca:
FRANCESCA SACCHI:
“Ciò che viviamo è un punto, e ancora meno di un punto; ma anche questa piccolezza la natura l’ha ridicolizzata con un’apparenza di durata maggiore. Di una sua parte ha fatto l’infanzia, di un’altra la fanciullezza, di un’altra la giovinezza, di un’altra un passaggio dalla giovinezza alla vecchiaia, di un’altra la stessa vecchiaia. Quanti livelli ha posto in una realtà così piccola! Poco fa ti ho salutato: e tuttavia questo “poco fa” è una buona parte della nostra vita, la cui brevità dobbiamo pensare che prima o poi verrà meno.
Il tempo non soleva sembrarmi così veloce: ora mi appare un’incredibile corsa, sia perché mi accorgo che si avvicina il traguardo, sia perché ho cominciato a osservare e calcolare il mio venir meno”.
GIULIA REGOLIOSI:
Si potrebbero citare dei paralleli cristiani a questo modo di vedere le cose: Declinant anni nostri et diem ad finem dice una preghiera ambrosiana del tempo d’avvento, ma per il cristiano questa percezione dell’avvicinarsi della fine è un motivo di fervore e di ascesi. La liturgia immediatamente dopo aggiunge: corrigamus nos ad laudem Christi. Secondo le parole di Luigi Giussani per il cristiano “l’istante è dunque la coscienza della fine, cioè la coscienza del fine: perché la fine è il fine. Il frutto del tempo infatti che cosa è? Il compiersi dell’uomo, il realizzarsi dell’uomo che cosa è? Il frutto della vita è Cristo perché tutto quello che stai facendo non ha che uno scopo: realizzare Cristo. Vale a dire, il Dio dentro la realtà, il Dio attraverso la realtà. Dio, ciò di cui tutta la realtà consiste e nella quale si rivela”. Anche per il pagano la consapevolezza del declinare della vita può portare alla valorizzazione dell’istante. Questo è il senso del Carpe diem oraziano, una valorizzazione di ciò che la divinità ci assegna, consapevoli che tutto potrebbe finire nel giro di pochi istanti.
FRANCESCA SACCHI:
“Tu non indagare – non è concesso saperlo –
quale fine gli dèi abbiano dato a me, quale a te, o Leucone,
e non provare gli oroscopi babilonesi.
Come è meglio, qualunque cosa sarà, accettarla!
Sia che Giove ti abbia assegnato più inverni,
o come ultimo questo, che ora affatica il mare Tirreno contro le opposte scogliere,
sii saggia, versa il vino e poiché il tempo è breve
recidi la lunga speranza. Mentre parliamo, il tempo malevolo
è già fuggito: cogli il giorno, fidandoti il meno possibile nel domani”.
GIULIA REGOLIOSI:
L’uomo antico percepisce il proprio essere nulla di fronte alla dimensione dello spazio e del tempo, percepisce di essere al centro di un sistema sul quale ha ben poche possibilità di influire (e questo è un duro contrasto per il suo orgoglio e la sua volontà di essere protagonista), ma nel contempo riconosce nella parte più nobile di sé, la ragione, un elemento che lo rende simile alle divinità. Queste sono molto più forti dell’uomo e l’uomo non può neppure presumere di misurarsi con loro e con le regole che hanno creato. Lo spazio dell’uomo è modesto: come dicono i greci ognuno ha la sua moîra, parola che ha finito per significare ‘destino’, ma in origine significava ‘parte, porzione’, la porzione che tocca a ciascuno di noi in quell’insieme ben regolato che è il mondo, il kosmos, ordine e bellezza. L’unico peccato che l’uomo precristiano riconosce è il rifiuto del limite, che determina la rottura del kosmos per la propria parte e prende in greco il nome di hybris. Così si esprime il poeta legislatore ateniese Solone:
FEDERICO MARTINOLI:
“Ciò che gli uomini stimano per hybris, non perviene loro secondo il kosmos,
ma ubbidendo ad ingiuste azioni li raggiunge contro voglia,
e presto si mescola la punizione:
l’inizio è piccolo come quello di un fuoco,
è meschina al principio, ma finisce terribile:
infatti non durano a lungo per i mortali le opere di hybris.
Ma Zeus di tutto vede la fine, e all’improvviso…
come il vento disperde di colpo le nubi
a primavera, e dopo aver smosso l’abisso del mare infecondo, ondoso,
e aver distrutto le belle opere sulla fertile terra,
giunge all’alta sede degli dèi, il cielo,
e di nuovo lascia vedere il sereno:
risplende sulla pingue terra la forza del sole,
bella, e non si vedono più le nuvole…
così avviene la punizione di Zeus”.
GIULIA REGOLIOSI:
Certo il limite maggiore per l’uomo, come già si diceva, è la morte. Solo in pochi momenti, in pochi pensatori e poeti, la morte ha avuto come correttivo la possibilità della sopravvivenza di una parte di sé in un luogo migliore, dove non si sia solo “polvere ed ombra”, ma vi sia spazio per ricompensa e gioia. Tale luogo può essere la Via Lattea, o le Isole dei Beati, o negli inferi i Campi Elisi. Ma la concezione più ricorrente vede la morte come malinconica fine, o come spostamento verso una tenebra indistinta. Il desiderio di immortalità, che è innato nell’uomo, è quindi affidato ad altro: alla continuazione della famiglia nei figli e nei figli dei figli, alla conservazione della memoria nella storiografia, al ricordo che rimane di sé per azioni gloriose o per la propria opera poetica. Così si esprime il poeta Simonide:
FEDERICO MARTINOLI:
“Dei morti alle Termopili
gloriosa è la sorte, bello il destino,
un altare la tomba, invece di lamenti il ricordo, il compianto è un elogio:
un tale monumento non lo distruggerà la ruggine
né il tempo che tutto doma.
Questo sacro recinto di uomini valorosi
accolse ad abitare in sé la gloria della Grecia:
lo testimonia Leonida, re di Sparta,
di cui resta un grande decoro di valore
e una fama perenne”.
GIULIA REGOLIOSI:
Così invece un epigrammista ellenistico, morto in esilio:
FRANCESCA SACCHI:
“Giaccio molto lontano dalla terra d’Italia e da Taranto,
la mia patria: questo è per me più amaro della morte.
Tale è la vita non-vita degli esuli.
Ma le Muse mi amarono, e in cambio dei dolori possiedo la dolcezza del miele.
Il mio nome non è scomparso, e i doni stessi delle Muse
mi annunciano per ogni volger del sole”.
GIULIA REGOLIOSI:
Ma se l’uomo è limitato e finito, gli dèi che gli hanno dato ragione e prudenza, gli hanno anche permesso di condividere con loro l’universo. L’uomo è dunque coinquilino degli dèi, il mondo è la casa comune degli dèi e degli uomini, (communis deorum atque hominum domus aut urbs): lo ricorda Cicerone in un altro passaggio dell’opera Sulla natura degli dèi, nel quale usa espressioni che hanno una qualche consonanza con le parole della Bibbia, con quell’attacco “Principio ipse mundus deorum hominumque causa factus est” che riecheggia in modo singolare il bereshìt (all’inizio) della Genesi e l’idea della creazione con cui prosegue il racconto biblico. Cicerone usa il passivo factus est perché non giunge a dare un nome al dio personale rivelato nella Bibbia:
FRANCESCA SACCHI:
“In principio lo stesso universo fu fatto per gli dèi e per gli uomini, e tutto quello che contiene è stato preparato e inventato per l’utilità degli uomini. Infatti l’universo è per così dire la casa comune degli dèi e degli uomini o la città di entrambi: essi soli infatti usando la ragione vivono secondo il diritto e la legge.
Come dunque bisogna ritenere che Atene e Sparta siano state fondate per gli Ateniesi e per gli Spartani, e tutto ciò che si trova in queste città giustamente si dice che appartenga a quei popoli, così bisogna ritenere che appartenga agli dèi e agli uomini qualunque cosa ci sia in ogni parte dell’universo. Il movimento del sole, della luna e delle altre stelle, benché riguardino anche la coesione dell’universo, tuttavia offrono pure uno spettacolo agli uomini: non vi è una vista più insaziabile, più bella e più utile per l’attività della ragione; infatti misurando il loro corso abbiamo conosciuto gli sviluppi, le varietà e i mutamenti dei tempi. E se solo gli uomini li conoscono, bisogna concludere che sono stati fatti per gli uomini”.
GIULIA REGOLIOSI:
E così anche Ovidio conclude il suo passo sull’origine dell’universo con un esaltante elogio dell’uomo, l’ultima parola dell’opera del misterioso artefice:
FEDERICO MARTINOLI:
“Mancava ancora un vivente più sacro di questi e più capace di profondi pensieri e in grado di dominare su tutti gli altri: nacque l’uomo, sia che l’abbia fatto con seme divino quell’artefice, perché fosse l’inizio di un mondo migliore, sia che la nuova terra, da poco separata dal profondo etere, conservasse elementi della parentela celeste: il figlio di Giapeto, mescolandola con acque pluviali, la foggiò a somiglianza dei dèi ordinatori, e mentre tutti gli altri esseri abbassano il capo a terra, diede all’uomo un viso rivolto in alto e ordinò che guardasse il cielo e levasse gli occhi alle stelle”.
GIULIA REGOLIOSI:
Grazie.