INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.

Invito alla lettura

26/08/2011 - ore 11.15 Il bicentenario dell'indipendenza dei paesi latinoamericani: ieri e oggi Presentazione del libro di Guzmán Carriquiry (Ed. Rubbettino). Partecipano: l'Autore, Segretario della Pontificia Commissione per l'America Latina; Anibal Fornari, Ricercatore Indipendente del Consiglio Nazionale Ricerche Scientifiche e Tecniche dell'Argentina. A seguire: Di padre in figlio. Conversazioni sul rischio di educare Presentazione del libro di Franco Nembrini (Ed. Ares). Partecipano: l'Autore, Direttore della Scuola La Traccia; Stefano Alberto, Docente di Teologia all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

Il bicentenario dell’indipendenza dei paesi latinoamericani: ieri e oggi
Presentazione del libro di Guzmán Carriquiry (Ed. Rubbettino). Partecipano: l’Autore, Segretario della Pontificia Commissione per l’America Latina; Anibal Fornari, Ricercatore Indipendente del Consiglio Nazionale Ricerche Scientifiche e Tecniche dell’Argentina.
A seguire:
Di padre in figlio. Conversazioni sul rischio di educare
Presentazione del libro di Franco Nembrini (Ed. Ares). Partecipano: l’Autore, Direttore della Scuola La Traccia; Stefano Alberto, Docente di Teologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

 

CAMILLO FORNASIERI:
Benvenuti, buongiorno. Cominciamo questo appuntamento quotidiano di “Invito alla lettura” con la prima proposta che ci porta in un Paese lontano, ma a noi caro, l’America latina, con un libro proposto dalla Casa Editrice Rubbettino, Il bicentenario dell’indipendenza dei paesi latinoamericani: ieri e oggi. L’autore è Guzmán Carriquiry, che è qui alla mia destra e che salutiamo con grande calore e affetto perché, per chi non lo ha ancora individuato, conosciuto, da tanto tempo è con Comunione e Liberazione e con il Meeting, e nel suo impegno, nel suo lavoro è stato il primo laico ad essere stato nominato responsabile di un ufficio, di un dicastero del Vaticano da Paolo VI ed è stato segretario del Pontificio Consiglio per i laici. Attualmente, Benedetto XVI gli ha chiesto di svolgere la sua instancabile attività proprio riguardo a questo Paese, l’America Latina, ed è segretario della Commissione Pontificia per l’America Latina. Questo bicentenario è un fatto che ha riguardato tutti i popoli, tutte le tradizioni che riguardano il sud del Continente e anche l’America Centrale. È un fatto importante per noi, perché in quel Paese si è giocata la più grande sfida di incontro tra culture, la più grande sfida di evangelizzazione, di riconoscimento, di comprensione della diversità, e dunque è stato ed è il più grande luogo dove può essere vista in opera la capacità di amore all’uomo e nello stesso tempo anche la fatica nell’educazione che rappresenta, appunto, il vivere insieme, la convivenza. Si parla di bicentenario in questo bellissimo libretto, libretto perché è piccolo, ma intenso, bellissimo per chi insegna, per saper qualcosa di quella storia, perché ignoriamo testimoni, passaggi, situazioni, critiche, governi, politica, intreccio tra culture popolari, ansia di libertà e di indipendenza. Insomma è un Paese che inizia a nascere nel periodo in cui si staccano i Paesi europei dalla loro colonie, come è accaduto negli Stati Uniti e via via in tanti altri Paesi. E in qualche modo fa da pendant anche con la nostra storia italiana, che con la mostra sui 150 anni abbiamo celebrato sia in senso storico, ma anche in senso di unità del presente. Dunque è con questo sguardo storico, con questo sguardo sulla responsabilità attuale di quei Paesi, di quella esperienza che ascoltiamo questa proposta del libro. Ce ne parla anzitutto Anibal Fornari, che è alla mia sinistra, caro amico anche lui, filosofo, ricercatore indipendente del Consiglio Nazionale delle Ricerche in Argentina. Lo salutiamo. Chiedo a te il primo intervento e poi a Guzmán Carriquiry.

ANIBAL FORNARI:
Va bene. Mi hanno detto che ho 10 minuti, dunque devo essere molto sintetico. Anzitutto vorrei dire che è per me un onore presentare questo libro sul bicentenario dell’indipendenza dei Paesi ispano-americani, il Brasile è un caso a parte, ma comunque anche interessante, perché non ha avuto delle guerre civili per fare la sua indipendenza, si può dire che lo stesso imperatore ha fatto l’indipendenza, in modo tale che non ha sofferto internamente delle contraddizioni che hanno sofferto i Paesi ispano-americani. Quello è importante anche per capire la composizione del corpo politico e geografico del Brasile, in un momento nel quale i Paesi ispano- americani facevano delle lotte intestine. Innanzitutto è un onore per me presentare questo libro dell’amico Guzmán Carriquiry, perché è un libro che sintetizza, a proposito di questo evento, una lunga strada fatta da molti docenti, studiosi, intellettuali latinoamericani. Penso, oltre a lui stesso, a François-Xavier Guerra, che ha scritto questo importantissimo libro, Modernità e indipendenze, a John Lynch, dell’Inghilterra, che pure ha fatto degli studi importantissimi che sono ripresi dentro in questa sintesi personale fatta da Guzmán. E vorrei ricordare anche, perché è stato qui al Meeting, una persona che è stata come il pioniere nel suo amore a Cristo e alla sua Chiesa, con una passione per l’uomo e la sua identità latinoamericana, fatta dall’evangelizzazione, il nostro comune amico e guida Alberto Methol Ferrè, scomparso l’anno scorso a Montevideo.
Vorrei dire anzitutto che c’è una formazione della nazione latinoamericana, ispano-americana specificamente in questo caso, che si fonda in quel grande incontro costituito dalla testimonianza di evangelizzazione, dal drammatico incontro di culture diverse, che ha fatto un unico grande corpo culturale, con un’unica educazione religiosa e coscienza di appartenenza, con un’unica lingua; incontro culturale che è tutt’altra cosa che una drammatica astratta comunicazione di beni culturali, ma è la storia di una memoria, di una poetica, del rapporto tra la gente, del rapporto immediato tra la gente. Guzmán Carriquiry pone questo incontro come criterio per pensare questo fatto del bicentenario, che non si può pensare in un modo isolato, come hanno fatto le repubbliche attualmente esistenti, ma è una celebrazione che ci congrega, perché abbiamo una stessa matrice culturale, linguistica, di comunicazione, di formazione istituzionale e anche di crisi comune nella seconda metà del XVIII secolo, una crisi comune che inizia con l’invasione napoleonica della Liberia eccetera. In questi Paesi, già dal primo secolo ci sono stati collegi per gli indigeni, Università, già nel 1500 si erano create le Università in Ispano-America, dunque c’era una volontà di costruire lì una identità, un popolo comune, una casa comune e di radicazione. In questo senso la nostra storia è diversa dal Brasile, dove fino al XX secolo non si sono create Università, e l’élite andava a studiare in Portogallo, a Coimbra o in Inghilterra.
E’ una storia che è molto importante capire, e c’è un fatto anche interessante che voglio ricordare. Quando si è celebrato il quinto centenario, cioè la memoria della nascita di tutte le Ispano Americhe, di quando è arrivato Cristoforo Colombo, c’è stata una grande disputa culturale, anche una grande volontà dei nuovi poteri di negare quel fatto, anche di posticipare al 1491, cioè prima che arrivasse Cristoforo Colombo, l’identità dell‘America Latina, senza capire che con Colombo era propriamente nata l’America Latina che realmente esiste. In modo tale che la celebrazione del bicentenario non ha fatto tanto problema a livello politico ideologico, come è invece avvenuto per il quinto centenario, perché lì si gioca tutto. Invece nel bicentenario si gioca lo stato, la formazione dello stato, delle repubbliche attualmente esistenti. Ma come mostra lo stesso libro di Guzmán Carriquiry, la formazione dello stato, il processo dell‘indipendenza non si può capire senza il riferimento ai tre secoli precedenti. La grande crisi è arrivata dopo una stagione di grande formazione educativa, culturale e istituzionale fatta dagli Asburgo. I Paesi latino americani non erano colonie, erano vicereami, non sono mai state pensate come colonie, come quelle del Nord America, ma come vicereami. Allora quando sono arrivati gli Asburgo, la casa francese, è arrivato l’illuminismo, è arrivato il centralismo, è arrivato il burocratismo centralistico, è arrivata l’imposizione fiscale più dura e forte del potere centrale, è accaduto soprattutto un fatto che per me è determinante per la storia dell’America Latina, che è la grande decapitazione educativa avvenuta con l’espulsione dei Gesuiti e il concomitante arrivo dell’industrializzazione e della rivoluzione industriale. In tutta l’America Latina i gesuiti non erano solo spagnoli, erano italiani, erano polacchi, erano inglesi, erano irlandesi, erano francesi, erano di tutta l’Europa e non arrivavano come uomini qualsiasi, perché erano uomini formati nelle arti oltre che con una passione di evangelizzazione, di andare incontro ai pagani diventati nuovi cristiani, al punto che erano proposti anche come esempio per i cristiani già “fatti”. Vi ricordo solo un nome, Thomas Falkner, che insegnava all’Università di Cordova in Argentina, fatta dai Gesuiti, ma c’erano tante altre Università dei Gesuiti in tutta l’America Latina, tra il XVI e il XVIII secolo. Solo una cosa voglio dire. Questo Thomas Falkner ha fatto la trasformazione di tutto il piano di studio dell’Università di Cordova, che era soprattutto in teologia e in filosofia, per introdurre l’ingegneria con la fisico-matematica galileo-newtoniana, perché lui era discepolo diretto e diletto di Isaac Newton. Lui è venuto in America come medico e in Argentina si è fatto gesuita. E ci sono tanti esempi come quello. Le ragioni apportate per la modifica dei piani di studio, è che, per fare le trasformazioni tecnologiche di ingegneria nelle missioni, ci vuole quest’altra fisica, non basta l’aristotelica.
Dunque quello che sorprende, per finire, è come Paesi così lontani e così grandi, dal Messico, chiamato Nuova Spagna, fino al vicereami di Rio de la Plata, – l’America era costituita da quattro grandi vicereami, del Messico, di Nuova Spagna, di Nuova Granada, quello che comprende adesso l’Ecuador, la Colombia, il Venezuela e Panama, il vicereame del Perù, che comprende il Perù attuale, parte del Brasile, della Bolivia e del Cile, e il vicereame di Rio de la Plata che comprende quello che adesso è tutta l’Argentina, l’Uruguay, parte del Rio Grande del Sud brasiliano, il Paraguay, parte della Bolivia e anche parte del Cile – come Paesi così lontani, nello stesso momento, di fronte alla stessa sfida, l’invasione napoleonica, reagiscono tutti nello stesso modo, in un modo somigliante. E la risposta è che c’era un popolo, c’era un’identità, c’era una volontà di libertà, c’era una volontà di autogoverno che non si può spiegare senza i secoli precedenti. La più grande crisi della Chiesa è iniziata proprio dopo l’espulsione dei Gesuiti. La Chiesa ha perso il senso della missione e allora il problema del potere è diventato il grande problema e dietro quello sono venute le guerre civili, perché tutto era potere e invece dell’educazione degli uomini lo scopo era diventato il raggiungimento della efficienza storica.

CAMILLO FORNASIERI:
Bellissimo intervento di Anibal Fornari, partiamo da questo punto a cui lui è arrivato, perché poi c’è questa grande sfida: Simon Bolivar aveva in mente di unire tutto il Paese, aveva una spinta ideale più forte di quella cristiana, aveva in mente di includere il Brasile. Questa formazione ispanica e cristiana è un ideale astratto o è oggi una concretezza che ritrova le sue radici?

GUZMÁN CARRIQUIRY:
Grazie, ringrazio di cuore Camillo Fornasieri, il caro amico Anibal Fornari per questa intelligente introduzione. Mi commuove in modo speciale il ricordo e l’omaggio che ha fatto di Alberto Methol Ferré, perché è stato, durante tutto il mio itinerario personale, il mio maestro e il mio amico. Io lo considero il laico cattolico numero uno della seconda metà del XX secolo in America Latina. Quarant’anni fa scoprì Comunione e Liberazione, grazie ai pellegrinaggi missionari di don Francesco Ricci; apprezzò moltissimo e incontrò personalmente in diverse occasioni don Giussani e vide già da allora Comunione e Liberazione come un segno di grandissima speranza per tutta la Chiesa e per l’America Latina in particolare. Il mio libro sul Bicentenario dell’Indipendenza dei Paesi Latinoamericani era già in stampa a Madrid quando ho ricevuto la notizia della mia nomina come nuovo Segretario della Pontificia Commissione per l’America Latina. La sua pubblicazione, prima in spagnolo, poi in italiano e prossimamente in portoghese e in inglese, è stata in ogni caso molto opportuna come ulteriore documento di presentazione dinanzi alla mia nuova responsabilità. Dopo 40 anni di lavoro nel PCPL, poter ora dedicarmi totalmente all’America Latina, nel servizio del pontificato di Benedetto XVI, è come un destino naturale e provvidenziale. Ho trascorso quasi i due terzi della mia vita a Roma, ma sono da tutti riconosciuto come latinoamericano. E non soltanto per il peso delle radici e degli affetti originari ma per l’intelligenza percettiva di un legame di appartenenza, di un circolo singolare di fraternità, di una prossimità di carità e di solidarietà, più forte di ciò che divide, come le distanze geografiche, le frontiere politiche, le barriere etniche, la diversità delle culture sub-regionali, per coinvolgerci nella passione per la vita e il destino dei nostri popoli. Il Vangelo incarnato nei nostri popoli – mi piace sempre ripetere con i Vescovi nella III Conferenza generale dell’Episcopato Latinoamericano a Puebla – ha generato un’originalità storico-culturale che chiamiamo America Latina. E oggi, l’America Latina comincia ad affacciarsi come protagonista nella scena mondiale ed è terra dove vive più del 40% – e arriviamo al 50% se aggiungiamo gli ispani degli Stati Uniti – dei cattolici del mondo intero. Come si può essere disinteressati o distratti rispetto all’America Latina?!
Se si riesce a sfuggire dal fiume di retorica pomposa, di proclami, di enfasi, di oratoria patriottica che scorre durante le celebrazioni del bicentenario dell’indipendenza dei Paesi latinoamericani, questa commemorazione ci pone innanzi alla possibilità di ricapitolare il nostro passato, affrontare il nostro presente e proiettarci verso il nostro futuro prossimo. C’è un rischio insidioso che s’insinua, e che a volte si afferma aggressivamente, in queste commemorazioni, che è quello di considerare l’indipendenza come l’evento fondante e determinante della nostra storia presente. In tal modo si lasciano i tre secoli precedenti sotto il generico e astratto rifiuto dell’oppressione coloniale, della tirannide dell’assolutismo monarchico, dell’oscurantismo della tradizione religiosa. Operano in tal senso i paradigmi dell’interpretazione liberale della storia latinoamericana, consolidata verso la fine del XIX e poi ripresi anche dalla vulgata marxista, tributari entrambi della “leggenda nera” propagata come lotta ideologica delle potenze emergenti – Inghilterra, Paesi Bassi, Francia – contro il già decadente Impero spagnolo, in processo di disgregazione, sconfitto e perciò carico di tutte le malvagità e brutalità possibili e immaginabili. Questa lettura ideologica grossolana ma anche dominante nei nostri manuali scolastici, nei media e in tanti studi storiografici, pone gli Stati dei Paesi indipendenti e non i popoli generati dall’incontro grandioso e drammatico nel Nuovo Mondo come soggetti della storia, protagonisti del bene, del progresso, della liberazione, della felicità agognata, inserendo tutto in un discorso politico, in quella idolatria del potere che giunge sino ad oggi nelle tentazioni autocratiche, gli Stati assistenziali, le lotte ossessive e autoreferenziali delle nostre corporazioni politiche.
In realtà, l’indipendenza fu molto più il frutto maturo del declino e della disintegrazione degli Imperi spagnolo e portoghese – incapaci di assumere le sfide e di incorporarsi nei dinamismi della rivoluzione scientifica, della rivoluzione borghese e dell’emergente rivoluzione industriale – attanagliate nella lotta per il potere mondiale tra l’Inghilterra e la Francia, molto più che dei sollevamenti popolari delle masse native e creole contro la tirannide monarchica. Anzi, la prima lunga fase delle guerre di emancipazione divenne vera e propria guerra civile e vide, almeno nel Sudamerica, la maggioranza dei settori popolari americani incorporati negli eserciti spagnoli per combattere una ribellione capeggiata da minoranze oligarchiche che suscitavano soltanto sospetto e rifiuto. Solo quando José de San Martín dal Sud e Bolívar dal Nord seppero coinvolgere gran parte di questi settori nei loro eserciti, l’indipendenza acquisì il carattere di una gesta di popoli, di una vera impresa patriottica, e allora diventò vittoriosa.
Io cito nel libro una frase del Libertador Simón Bolívar, verso la fine della sua gesta indipendentista, che esige di lasciare indietro ogni memoria romantica e persino mitologica che copra l’indipendenza con un alone di esemplarità e che impedisca di tracciare uno spartiacque profondo tra il periodo coloniale e quelle indipendentista, i cui limiti tassativi in gran parte sfumano. Affermava Bolívar nel maggio del 1830, a indipendenza conclusa: “Mi fa arrossire dirlo: l’indipendenza è l’unico bene che abbiamo acquisito a spese di tutto il resto, di tutti gli altri beni”. E noi possiamo proseguire il filo logico di questa affermazione: l’indipendenza è l’unico bene che abbiamo acquisito a spese della devastazione e della rovina economica, a spese della violenza endemica, a spese della fragilità e instabilità delle istituzioni politiche nelle nuove polis oligarchiche, a spese del brutale peggioramento delle condizioni di vita degli indigeni e di vasti settori popolari, a spese della “balcanizzazione” dei Paesi disuniti del Sudamerica e del Centroamerica proprio mentre sorgevano gli Stati Uniti di America. Neanche l’indipendenza fu un bene acquisito perché i nuovi Paesi sono rimasti sotto la dipendenza commerciale e finanziaria dell’Impero inglese in condizioni neocoloniali. Qualcuno afferma che i decenni che seguirono l’indipendenza dei Paesi latinoamericano furono come il passo nel deserto, non nel senso di una purificazione e di un percorso verso la terra promessa, ma come tempo perso, di totale aridità, vuoto. E furono tempi oscuri, anche molto duri, per la Chiesa cattolica, nel massimo della fragilità del suo centro romano, isolato e scollegato dalle Chiese nazionali in tempo di regalismo, e smantellata in terre americane, non perché le guerre di indipendenza avessero alcunché di tonalità anti-religiosa – si viveva ancora nella cristianità americana e c’erano stati dei battezzati, dei preti, dei vescovi, dall’una e dall’altra parte, ma perché le alternative di una guerra di lunga durata ci lasciò per decenni senza vescovi e con pochissimi sacerdoti e religiosi, senza diocesi organizzate, con scarsissime parrocchie, senza conventi, senza seminari, senza scuole, senza catechesi e spessissimo senza sacramenti per la stragrande maggioranza della popolazione. Fu già un miracolo di quella potente inculturazione della fede durante l’epopea della prima evangelizzazione che la traditio della cristianità americana non si interrompesse, grazie alla trasmissione della fede di padre in figlio, sostenuta anche dal profondo radicarsi della pietà popolare, dalle semplici preghiere in famiglia sino alle grandi feste religiose. E’ molto importante, dunque, ed è ciò che tento di fare sinteticamente nel mio libro, esaminare il lascito di problemi e di sfide che ci ha tramandato il tempo dell’indipendenza 200 anni fa e i compiti irrisolti che quel lascito proietta nella nostra attualità.
A me interessa soprattutto l’oggi dell’America Latina. Mi interessa esaminare come stiamo oggi affrontando quei problemi e quelle sfide nelle condizioni del tempo presente. Perché avverto in un’Europa ripiegata su di sé, soffocata dalla crisi, in mezzo ad un pantano culturale, senza politica né strategia globale, un grande disinteresse per l’America Latina, appena coperto da una visione superficiale di ciò che accade dall’altra parte dell’oceano, Avverto però che anche in America Latina si manifesta un po’ ovunque la difficoltà a darsi dei criteri di giudizio e chiavi di lettura adeguate alla realtà latinoamericana dinnanzi a tante cose nuove, spiazzanti, che mostrano nuovi scenari e nuove situazioni, anche per la Chiesa. Le cose si muovono velocemente; c’è un’altra America Latina, in movimento rapido e convulso, fuori dagli stereotipi cristallizzati che ancora circolano nella vecchia Europa rattrappita e autoreferenziale e tra quelli latinoamericani ancora legati al peso residuo delle ideologie. Grazie a Dio, abbiamo il documento di Aparecida, nel quale l’Episcopato latinoamericano propone con acuto discernimento uno sguardo illustrativo sulla realtà latinoamericana alla luce della missione della Chiesa al servizio dei nostri popoli.
Ma ci rendiamo conto che, nonostante tutti i suoi problemi, l’America Latina sta vivendo già 8 anni consecutivi di un’ impressionante crescita economica, che per la sua intensità, durata e consistenza non ha precedenti in tutta la storia economica della Regione? Negli anni ’80 il problema del debito dei nostri Paesi sembrava insormontabile; oggi le riserve delle nostre banche centrali si ingrossano di anno in anno e i conti sono in ordine. Abbiamo persino superato la crisi globale sofferta dagli Stati Uniti e dall’Europa senza maggiori soprassalti. L’enorme ricchezza agro-alimentare, minerale ed energetica delle nostre terre tende a garantirci ancora altri anni di maggiore prosperità. Per un’ Europa senza crescita, la media superiore al 5% annuo dell’America Latina è un miraggio. E in questa media ci sono crescite di livello cinese (come nel Perù, nell’Uruguay, nell’Argentina) bilanciate dai bassi rendimenti del regime “chavista” e del Messico. Ci rendiamo conto che il Brasile sarà a breve la quinta potenza economica del mondo? Ci rendiamo conto che, nonostante tutti i freni alzati, le difficoltà affrontate e il lungo cammino da fare, l’America Latina ha fatto passi da gigante nel processo della sua integrazione economica e politica, e ora non è più utopia da intellettuali proiettarsi verso un grande Stato continentale, una “nazione di repubbliche” come diceva Bolívar? Ci rendiamo conto che più di 50 milioni di brasiliani, di cileni, uruguaiani, ecuatoriani, peruviani ed altri latinoamericani sono stati liberati dal giogo della povertà assoluta, incorporandosi nel mercato e nella vita pubblica, e che se ancora legati a lavori umili e sacrificati i loro figli possono sperare in un futuro migliore? Ci rendiamo conto che così come i primi decenni del XX secolo videro l’irruzione dei settori medi e delle classi lavoratrici nella formazione di grandi movimenti popolari e nazionali, oggi si assiste a una nuova fase di mobilità sociale, dove le popolazioni che vivono dell’economia informale, gli emarginati delle megalopoli, le comunità e i movimenti indigeni, sino a ieri esclusi dalla vita pubblica, ora diventano protagonisti emergenti col loro carico di umiliazioni, esasperazioni e aspettative, cercando valvole di sfogo e di rappresentanza politica? Ci rendiamo conto che oggi siamo in ottime condizioni per riaffermare la nostra concreta indipendenza, più determinati dalle nostre risorse, dai nostri interessi e dai nostri ideali che dalle grandi potenze, in rapporti più equi di interdipendenza e di cooperazione? Non invano assistiamo a un declino dell’Impero statunitense, oggi gravemente colpito dalla crisi, incerto nella sua strategia internazionale, tra distratto e sorpreso di fronte allo svolgersi della realtà latinoamericana, interessato nei nostri confronti soprattutto riguardo ai problemi del narcotraffico e dell’immigrazione. E non nascondiamo i gravi problemi che non trovano ancora adeguate risposte, come il persistere di disuguaglianze scandalose, le carenze notorie di una riforma dello Stato e della politica in mezzo all’ assenza di una struttura di partiti politici e di capillari e radicate prassi di corruzione, la scarsa valorizzazione e incoraggiamento delle forme sussidiarie di partecipazione e di operosità dei popoli tenuti più come clientela e massa di manovra che come soggetto del proprio destino, la disastrata educazione pubblica come cenerentola irresponsabilmente trascurata nei dibattiti pubblici.
Infine, se non si ha attenzione verso quello che succede nel cattolicesimo in America Latina, questo comporta una perdita per la Chiesa universale. Perché in America Latina vive, sì, più del 40% dei battezzati nella Chiesa cattolica – e non tener conto della consistenza dei numeri è proprio degli sciocchi o degli ingenui – e perché lì la Chiesa, con il grande avvenimento e documento di Aparecida, ha offerto e sta offrendo un’immagine ecclesiale preziosa per tutti. Puntare sui soggetti!:
custodire il bene prezioso di un popolo di battezzati, con una prossimità umile, misericordiosa e solidale con la loro vita, le loro sofferenze, gioie e speranze, dove ancora c’è la letizia di vivere la memoria cristiana, abbracciando la devozione popolare – punto di contatto con tante persone anche lontane dalle organizzazioni e dalle pratiche pastorali -, esprimendo e facendo fiorire l’affetto che tanti portano nel cuore per Gesù e la Vergine dentro le situazioni reali della vita, ciò che rende possibile la missione apostolica in semplicità evangelica per far crescere i discepoli e testimoni del Signore in un contesto dove avanza progressivamente la secolarizzazione, soprattutto nelle metropoli. Non sono certo le sette il pericolo maggiore. Attenzione a non concentrasi su di esse ossessivamente sino a far diventare la Chiesa cattolica una grande contro-setta!
Primo, perché con varie realtà delle comunità evangeliche e neopentecostali si stanno ricreando rapporti di fratellanza ecumenica, lasciando i lo scambio di feroci stereotipi e accuse. E secondo, perché queste comunità e altre realtà settarie crescono in ambienti dove la Chiesa cattolica non è sufficientemente presente o pecca di auto-secolarizzazione. Non sono neanche le tentazioni e derive autocratiche di alcuni regimi a costituire il problema maggiore per la Chiesa: custodire la libertas ecclesiae è cosa fondamentale ma senza pretendere di diventare né “cappellana” né antagonista politica di qualsiasi regime. Persino il regime cubano sembra affidarsi alla Chiesa in mezzo al crollo, per garantire una transizione che non sia sconvolgente e violenta. Più insidioso come nemico è l’inevitabile diffondersi della cultura dominante a livello globale del relativismo libertino, erodendo la tempra umana, disintegrando il tessuto familiare e sociale e operando come oppio dei popoli, sebbene la Chiesa non debba lasciarsi assorbire nella controreplica dentro il campo di battaglia da esso fissato. Tuttavia, la maggiore minaccia – come affermava l’allora cardinal J. Ratzinger a Guadalajara, nel maggio del 1966, e che i Vescovi latinoamericani hanno avuto il coraggio di riprendere nel documento di Aparecida – si profila quando si assiste a un “grigio pragmatismo della vita quotidiana di una Chiesa in cui apparentemente tuffo procede normalmente, ma dove in realtà la fede si va consumando e degenerando in meschinità”. Non si vive più di rendita del patrimonio della fede dei nostri popoli, che è anche il suo maggiore capitale umano, sociale, culturale. Nel Paese leader dell’America Latina – il Brasile – le statistiche indicano che la presenza dei cattolici è diminuita almeno del 20% dal 1960 al 2000, sebbene da allora sembri emergere una certa tendenza di ritorno alla Chiesa cattolica. E nonostante ciò, ogni sondaggio ci informa che la Chiesa cattolica continua ad essere, in quasi tutti i Paesi latinoamericani, l’istituzione che gode di maggiore affidamento e credibilità da parte dei nostri popoli. Essa continua ancora ad essere la casa di popoli poveri e fedeli. E l’humus cristiano rimane ancora potente e fecondo nelle buone terre latinoamericane. Perciò, l’Episcopato latinoamericano ben può affermare in Aparecida che la tradizione cattolica è a fondamento dell’identità, dell’unità e dell’originalità dell’America Latina. Ci vuole, però, quella nuova evangelizzazione – nuova nel suo ardore, nei suoi metodi, nelle sue espressioni -, quella “missione continentale” promossa da Aparecida, che non vuol dire certamente moltiplicare progetti e iniziative, ma comunicare da persona a persona, da comunità a comunità, da esperienza a esperienza, il grande dono della fede in Gesù Cristo, il vero tesoro della vita dei nostri popoli. Grazie.

CAMILLO FORNASIERI:
Grazie sentito a Guzmán Carriquiry, che ci ha fatto questo grande affresco così preciso che testimonia sia in lui che in Anibal Fornari una certezza di persone che riempie la vita, piena di responsabilità e condivisione con i popoli. Mi è sembrato che il primo elemento sia quello del giudizio, perché non si vive di vaghi riferimenti che diventano preda di ogni potere, di qualsiasi tipo, ma qualcosa che si chiarisca dal passato, che renda vero il presente e che getti speranza e un ansia costruttiva sul futuro.
Grazie per questo libro. Possiamo annunciare che per il Meeting dell’anno venturo è in preparazione una mostra che racconterà, nell’occasione di questo bicentenario plurimo e variegato, tutta questa storia che oggi abbiamo sentito già in grande sintesi.
Grazie ancora a tutti voi e ai nostri ospiti.
La seconda proposta riguarda il libro di un caro amico, Franco Nembrini, qui alla mia destra, l’abbiamo già salutato ma rinnoviamo con calore l’affetto che ci lega a lui. Il titolo del libro, dell’edizioni Ares, è Di padre in figlio. Conversazioni sul rischio di educare ed ha la prefazione importante del cardinale Camillo Ruini. Il libro, concretamente, raccoglie alcuni interventi del prof. Nembrini nell’arco dei diversificati suoi impegni nel campo dell’insegnamento, dell’educazione e della scuola. Franco, subito appena laureato, da origine, insieme ad altri, alla scuola “La Traccia” di Calcinate, di cui lui adesso è Rettore e poi per il nostro Movimento fa parte della Consulta del Ministero della Scuola, dell’Istruzione, della Commissione Educativa per la scuola della Chiesa Cattolica, è inoltre Presidente della FOE (Federazione delle Opere Educative), che il nostro Movimento ha attuato praticamente sotto la sua spinta del desiderio educativo che anima i nostri insegnanti. C’è con noi Stefano Alberto (don Pino), che ci introduce subito in questo libro che è importante, perché, come dice Ruini, sono rimasti tutti stupiti dalla centratura che Franco fa sulla libertà, che certamente tutti abbiamo imparato in don Giussani, ma che deve declinarsi in rischio educativo per tutti gli studenti. Addentriamoci in questo cammino.

STEFANO ALBERTO:
Alcuni accenni, il primo può sembrare di prammatica, un po’ retorico: non lo è. Un grazie a Franco perché conoscendolo so che pubblicare questo libro è un sacrificio per lui, non sempre si può dire così di chi scrive un libro, anzi c’è gente che scrive libri per non fare sacrifici nella vita, ma per lui non è stato sicuramente la cosa più immediata. Sono molto contento se ho contribuito anche a vincere le ultime resistenze alla pubblicazione, è un libro ruvido, la sensazione tattile è come quando passi la mano sulla crosta di quelle grandi pagnotte cotte ancora nel forno, senti il peso della materia, il peso della vita, le irregolarità delle circostanze vissute con libertà. È un libro molto prezioso perché non ha la pretesa di essere un trattato, di essere un discorso sistematico, troverete ripetizioni, episodi raccontati tante volte, perché tante sono stati, e mi auguro siano e saranno, le circostanze per comunicare la propria esperienza. Non voglio raccontare tante delle cose che mi hanno commosso e provocato, ho chiesto di raccontarle a lui ma una mi si è proprio piantata nel cuore, quando per spiegare che l’educazione è innanzitutto testimonianza, Franco più volte racconta del papà che alla sera entrava nella stanza e senza dire nulla si metteva in ginocchio a recitare il Padrenostro. Quel gesto senza parole, se non quelle di Cristo, ha tirato su i dieci figli. A me sono venuti in mente altri due episodi in questo senso: quel 30 maggio del ’98, quando don Giussani che, posso rivelarvelo, stava soffrendo di un terribile attacco di sciatica in quel pomeriggio, quindi immaginate il dolore, si è messo come un cavaliere antico in ginocchio davanti al Papa, con lo schiocco di quelle ginocchia che si è sentito tutto intorno. Lui non ha mai voluto dirci che cosa ha detto al Papa, ma in quel gesto c’è sintetizzata tutta la sua vita. Come ha detto il mio grande amico, il giovane teologo anglicano Andrew Davison: cos’è il carisma di CL, cos’è il carisma di Giussani? Zelo, ardore, passione per Cristo, per la fisicità di Cristo, la presenza viva di Cristo incarnata nel Papa e la gioia. E l’altro gesto recentissimo, clamoroso, un altro grande vecchio che si inginocchia: un milione di ragazzi a Madrid sotto l’uragano, lui non può dire niente, non ci sono parole, lui è seduto e aspetta che la pioggia finisca e quando finisce Benedetto XVI si alza senza dire niente, si inginocchia davanti a Cristo e un milione di persone che fino a un momento prima, ripresi un po’ maliziosamente dalle varie televisioni, facevano i loro balletti, sventolavano i loro foulard, tutti per dieci minuti in silenzio davanti a Cristo, ma davanti a quell’uomo. Ecco, educare, generare è una vita, è una passione che si comunica. Comunicare vuol dire che un gesto porta dentro il suo significato, non c’è bisogno, come fanno i preti in una misura orrenda ormai, di spiegare: adesso facciamo l’offertorio, adesso facciamo il catechismo. Un gesto, questo bisogno di spiegazioni è proprio l’opposto della forza che Giussani ci comunica in quella definizione sintetica ripresa da Jungmann: l’educazione è “l’introduzione alla realtà totale”, fino al significato ultimo di quella realtà: introduzione non è spiegazione della realtà, io gioco tutta la mia vita, io gioco tutto quello che sono, tutto quello che ho ricevuto, tutto quello che credo in una maniera elementare. Pensate il gesto in ginocchio davanti ai miei figli per dire: ragazzi c’è un padre più grande di me, la mia paternità nasce da lui, essere adulto è introdurvi dentro tutte le circostanze della vita a questa paternità. L’altra questione, non voglio dilungarmi troppo, è questa cosa affascinante che ha accennato Camillo: educare è l’esperienza vissuta della misericordia, quella cosa di cui nessuno è capace, solo Dio fino in fondo. Il Mistero della misericordia, ci ha sempre detto il don Gius, è l’ultima parola della storia, quando la storia si riassumerà nel giorno definitivo, nel giorno di Cristo, ma è l’ultima parola di fronte a ogni tentativo della libertà umana. Bellissimo ieri quell’accenno di Hadjadj, che io ho ripreso. Dice: il buon ladrone, ha provato ad andare all’inferno tutta la vita in vari modi, deve averne veramente fatte di cotte e di crude, ed è finito in croce perché era un cattivone ma quel posto lì, certamente non comodissimo, è stata la grande circostanza in cui si è lasciato riacciuffare da Dio. Ecco, mi piace questa, perché solo un padre, non un filosofo, un padre può dire una cosa così: Dio non ci rimette mai sulla strada diritta, questa è la tentazione di tanti insegnanti, tanti insegnanti soprattutto di CL, questo è uno dei disastri da cui le ruvide pagine di vita di Franco possono metterci in guardia. Dio non ci rimette mai sulla strada diritta, perché si serve delle nostre svolte, dei nostri vagabondaggi, delle nostre deviazioni per inventare una strada nuova: la strada unica di ciascuno, propria di ciascuno. Ecco, la misericordia in fondo è questa partecipare, tentare di partecipare a questa creatività suprema di Dio, che sa tirare fuori strade nuove, la strada di ciascuno, dall’errore, dal male, dall’incoerenza, dalla ambiguità, questa passione creativa. A me viene da sorridere che tutti vedono questo popolo… oggi D’Avanzo, che non è certo una penna facile, per un istante si ferma, rispetta, cosa inaudita per un quotidiano come Repubblica, rispetta l’imponenza di quello che si vede. Ma io pensavo, che cosa ci sta dietro? E’ proprio questa passione; ieri Hadjadj diceva che quando tu scopri che la vita è dono, inizia il dramma, cioè non si può riconoscere che la vita è dono senza avvertire l’urgenza di dare la vita, di comunicarla. Ecco: educare introdurre alla realtà totale. Faccio due sottolineature e concludo. La prima, non diamo per scontata questa passione educativa, questa avventura per cui la mia vita comunica chi mi genera, da chi sono generato, di chi sono. Ieri l’incontro dei politici, e voi l’avete avvertito chiaramente, ha fatto vedere con chiarezza che questo vale in ogni aspetto della vita, da quelli più umili e nascosti a quelli più grandi. La grandezza di un uomo, faccia il suo lavoro oscuro, il suo servizio più umile o abbia le responsabilità più grandi, sta solo in questo: se è chiaro chi lo genera; se tu non hai un padre, adesso, si vede subito, anche se sei circondato da migliaia di fans e chili di gadget. Direbbe san Paolo: sei come un bronzo che risuona e un cembalo che tintinna; e su questo noi, noi dico questo strano popolo, siamo terribilmente esigenti. In questi giorni, vedendo i dati, ve li anticipo, mi è venuto uno struggimento pazzesco, spero di non commuovermi perché ormai sembra che stia diventando un vecchietto che piange sempre: sono aumentate le presenze agli incontri, tutti diminuiti, del 10%, gli scontrini; vuol dire che sta diventando una realtà quotidiana il sacrificio di imparare, di educare: mangiamo di meno per continuare a imparare, capite? A me piace metterla giù così dura, farò dispiacere al Ministro dell’Istruzione che ci tratta come se il problema fosse un problema di consenso, è che non si accorge che con la norma dei suoi burocrati, per sistemare, per questo strapotere della pigrizia sindacalistica che impazza nella vita pubblica da cinquant’anni, la difesa dell’esistente, è un genocidio di dieci anni di insegnanti. Noi su queste cose diamo fuori di matto, perché resta nella nostra vita quello che ci ha sempre detto don Gius: “fateci andare in giro nudi (non siamo andati in giro nudi, qualcuno sì in questo Meeting per il gran caldo, spero, non per altro) ma lasciateci la libertà di educare”. Noi su questo non cederemo mai, perché è questo il continuo nuovo inizio, la possibilità di iniziare sempre. La seconda questione, lasciatemelo dire, è che io penso che, in questo senso, questo libro così ruvido, diretto, così pieno di una passione e di un sacrificio di chi educa, possa dare un calcio nel sedere, non solo a qualche nostro politico, ma a ciascuno di noi, perché ciascuno di noi è educatore. Io vi dico una cosa: una delle cose che mi sconvolgono di più è quando arrivano i ragazzi in università e mi dicono “il babbo – perché molti non dicono il papà, perché molti sono sotto il Po – il babbo mi dice sempre che è il mio migliore amico”, io rispondo duro: “a me risulta che il miglior amico dell’uomo è il cane”. Cioè la misericordia non è la ricerca del consenso, in decine di esempi il dramma di quando devi dire “no”, il dramma di quando devi dire “è sbagliato, hai fatto una fesseria” o all’opposto quando devi lasciare la libertà di sbagliare, quando non devi avere tu la pretesa di chiudere il cerchio, quando rischiare tutto sulla libertà pura vuol dire, come nel quadro di Rembrandt del Figliol Prodigo, sentire qui, sentire nel cuore e nella pancia il dramma, la fatica, il sacrificio della libertà dell’altro. Ma c’è una cosa molto semplice, che in questo libro mi piace tantissimo – una cosa semplice per ciascuno di noi, perché comunque educare è veramente un rischio ma è semplice – sintetizzata in quella bellissima frase del don Gius: “Nessuno genera se non è generato”. Ecco, nel libro di Franco si capisce che la generazione non è qualche cosa che si è fermato a suo papà o a sua mamma, che si è fermato al don Gius, è qualche cosa che riaccade adesso, in un punto che lui giustamente lascia concreto e implicito, molto giussaniano in questo, in un punto che ha un nome e un cognome, una faccia, un accento spagnolo. Ecco, questa è la questione per me di massima provocazione: da chi ti lasci generare tu adesso.

FRANCO NEMBRINI:
Da dove si comincia a presentare un libro che non ho scritto, adesso spiego il perché, e dopo le parole che ha detto don Pino? Allora cominciamo a dire che quello della foto non sono io trent’anni fa o come qualcuno mi ha detto 30 chili fa. E’ una foto d’archivio, non sono questo meraviglioso padre della copertina. Non l’ho scritto io questo libro, io faccio due osservazioni molto elementari adesso, perché mi sembra che le preoccupazioni sollevate da tutto questo …Mi vergognavo un po’ stamattina a venir qui, ho sentito qualcosa, poco, di questo Meeting e di questa sfida sulla certezza, la vita che diventa un’immensa certezza, e quel poco che ho sentito è di una profondità di una …l’incontro di ieri. Ma avevo anche sentito in televisione la presentazione di Chesterton, da parte di Ubaldo Casotto, insomma sono state dette cose in questo Meeting rispetto alle quali questo libretto mi fa vergognare. E però due osservazioni, giusto per farvi venire, se mai vi verrà la voglia di leggerlo, due osservazioni vale la pena farle, perché almeno questo vorrei riuscire a dire: che tutto il tema della certezza è esattamente il tema dell’educazione. L’educazione è il verificarsi delle condizioni, l’educazione è un avvenimento misterioso, attraverso il quale è testimoniata, e per ciò condivisa e perciò vivibile, la vita come immensa certezza. Contro, unico punto di baluardo, di resistenza, a un relativismo, a una incertezza su di sé e sulla realtà che mi sembra essere la grande fatica dei nostri figli e di queste nuove generazioni. Dico sempre che non ho mai visto soffrire tanto una generazione di giovani, non li ho mai visti soffrire così per diventare grandi. Una generazione che soffre tremendamente. Ma di che cosa? Soffre di una debolezza di proposta, di una debolezza di ipotesi, di una debolezza di testimonianza, di una mancanza di padri, se volete, come è stato detto prima. E per ciò soffre di un deficit di realtà. Un ragazzo di 16 anni, qualche mese fa, mi ha detto: “la tua è una generazione fortunata, perché a voi è stata portata via soltanto la fede, a noi, invece, hanno portato via la realtà, cioè la condizione stessa della fede, ci avete lasciato soli con i nostri pensieri”. E’ la definizione più terribile che si possa dire, e più sincera e più vera, della condizione con cui vengono su i nostri figli oggi. Un deficit di realtà, un’incertezza sulla realtà, un’incertezza sul dato, sul dato, sulle cose, un’incertezza perfino sulla materia. Educare vuol dire invece dare testimonianza di questa certezza. Io ve lo dico, ve lo ricordo in cinque minuti, in un modo che mi sembra simpatico e semplice, dicendovi la storia del titolo di libro. Perché è stata una storia interessante e controversa, perché il titolo che io avevo immaginato, lo devo dire, perché lo dico nel libro in tantissime occasioni, e quindi lo devo proprio giustificare. In molte occasioni dico che se un giorno scriverò un libro sull’educazione, lo vorrei intitolare: “ho visto educare”. Ho visto educare, poi il titolo è stato cassato dagli amici e da chi se ne intende, perché ritenuto troppo criptico, troppo difficile, non immediato. A me pareva bellissimo però …E mi pareva bellissimo perché diceva già nel titolo il contenuto: l’educazione è il contrario della preoccupazione di insegnare qualcosa a qualcuno. L’educazione è un qualcosa infinitamente più semplice e più grande e più bella e più libera. L’educazione è che uno partecipa alla manifestazione della verità, sbatte il muso con una eccedenza di umanità. Con una bellezza che, insomma usate i termini che volete, incontra, se preferite, incontra qualcosa o qualcuno e dentro quell’incontro sente il proprio io risorgere. L’io nasce e rinasce in un incontro, questa possibilità che l’io rinasca continuamente in un incontro si chiama educazione. E perciò vuol dire che l’educazione può essere solo un fatto presente. Butto lì, sono cose raccontate e spiegate in mille modi nel libro perché, come vi dicevo, non l’ho scritto io, l’abbiamo scritto insieme. Sono sbobinature, sono resoconti di incontri fatti con voi, in assemblee di genitori, nelle scuole, nei collegi docenti e di volta in volta vi accorgerete, leggendolo, che la volta dopo, racconto e cerco di capire con i miei interlocutori quello che mi è accaduto la volta prima, quello che ho visto in una scuola, quello che ho visto in una casa. In questo senso veramente sento di non aver scritto io, perché il libro rende conto e descrive, attraverso tanti esempi, un tentativo, un dramma, che non è mai definitivamente chiuso, per nessuno, né per chi fa l’insegnante, né per chi fa il genitore, perché educare, come è stato detto, è l’avventura della vita, è il mestiere dell’uomo, non è il mestiere dell’insegnante o del genitore. Farsi compagnia verso il proprio destino, fare dell’esistenza un’immensa certezza è il compito dell’uomo, è persino il compito di Dio, è quel che Dio è venuto a fare sulla terra. E’ la ragione per cui è nato Gesù, far compagnia agli uomini e introdurli nella realtà, fino al suo significato. Questo è quello che è venuto a far Dio, a rendere possibile questo. Ecco, io l’ho visto in tanti maestri e in tanti testimoni che la vita mi ha fatto incontrare, hai quali, in qualche modo, il libro è anche dedicato. L’ho dedicato naturalmente al mio papà e alla mia mamma. L’ho dedicato alla mia insegnante di italiano, di cui ho parlato tante volte, che mi fece innamorare di Dante e del mestiere di insegnante. E l’ho dedicato al don Gius, che a quei due grandi testimoni ha dato tutta la stabilità e la certezza, appunto, della fede. La vita mi ha fatto vedere tanti testimoni, tanti testimoni di un possibile rapporto con la realtà lieto, buono, positivo. E allora ho cercato di raccontarlo, ma la cosa interessante è quest’ultima che diceva don Pino: da chi ti lasci educare adesso, da chi ti lasci generare adesso, perché l’educazione è una cosa così mirabile, è una cosa così misteriosa, forse si dovrebbe dire è una cosa che fa Dio, attraverso di noi, ma la fa Dio. L’educazione avviene sempre, e avviene in forme e in modi imprevedibili, bisogna solo essere attenti, bisogna solo essere così semplici da saperla guardare. E allora chiudo raccontandovi semplicemente tre fatti, tre episodi che mi hanno molto colpito proprio in questi giorni, perché se uno guarda la vita così, con questa passione per se stesso e con questa passione per gli altri, la vede accadere l’educazione. In questo senso dico che quel titolo mi piaceva molto “ho visto educare”. Ho visto accadere l’educazione e ve la racconto, da questo punto di vista è un libro molto umile, è proprio il racconto di alcuni fatti visti, più che la spiegazione di che cosa sia l’educazione. Due cose che mi hanno colpito molto. Proprio ieri sera sono andato a trovare degli amici, la faccio breve… Proprio ieri sera sono andato a trovare degli amici, di cui conosco bene la figlia, e sono andato a trovarli perché ero curioso di vedere cosa stesse succedendo in quella famiglia, dove, il racconto che la figlia mi fa di quello che sta avvenendo ai suoi genitori, è pieno di meraviglia, tanto da indurla ad andare a vedere il luogo che rigenera i suoi genitori a 50 anni, 55 60 non lo so, spero che non si offendano se sono qui, tanto da incuriosire la figlia di 20 anni, di 22, a conoscere il luogo che rigenera i suoi genitori. L’educazione è tutta qui. L’educazione – è forse la cosa più decisiva, più ripetuta, ma è la cosa che amo di più ricordare a me stesso e ai miei amici – l’educazione non è la preoccupazione che hai, di cambiare l’altro, perché questo è il mestiere di Dio, e lo fa Dio. L’educazione è la preoccupazione che hai di cambiare te stesso, di dare testimonianza del tuo cambiamento, perché è l’unica cosa di cui i figli hanno bisogno, non sono regole, ricette, norme di comportamento. Hanno bisogno di un testimone, di uno che si lascia educare oggi, e che per questo arriva a casa e saluta la moglie – l’episodio di Giovanni e Andrea citato da don Gius – e abbraccia i figli e i figli si chiedono: “ma babbo, cosa ti sta succedendo?”. E mi diceva questa figlia ieri “e allora ho dovuto andare a vedere, ho dovuto andare a vedere che cosa cambiava il cuore di mio padre”. Questa è l’educazione. Aggiungo solo una cosa che ripeto tante volte nel libro, i nostri figli, cioè quella ragazza non è eccezionale, è eccezionale che lo faccia con una purità così a 25 anni. Ma i nostri figli, i nostri alunni, fanno questo di mestiere, guardano, guardano sempre. Dalla culla, forse dal grembo materno, 24 ore al giorno, qualsiasi cosa sembra che stiamo facendo, i nostri figli ci guardano. Guardano gli adulti. E cosa chiedono agli adulti? Non da mangiare, ve lo dico in un famoso episodio che me lo ha insegnato, e non lo racconto così vi incuriosisco e andate a leggere il libro, e non chiedono da mangiare, da bere e da dormire, se lo procurano quello, più o meno lecitamente se lo procurano, guardano e si chiedono “di che speranze il core vai sostentando?”. Di che certezza vivi? Papà, che cosa tiene su la vita, oggi? Non per quali ragioni mi hai dato la vita 20 anni fa, oggi che cosa tiene su la tua vita e la mia? A rovescio, ma mi preme dirlo, è così vero che l’educazione è una cosa che fa Dio, una cosa misteriosa, che Dio la può far funzionare persino a rovescio. E’ una delle cose che mi ha colpito di più in questi mesi: sono stato ricoverato in un ospedale, e ho conosciuto un professore, un luminare, un grande professore, ci siamo incontrati e mi ha raccontato la sua storia. Ci siamo raccontati la nostra storia. Era rimasto colpito dal fatto che io parlassi male dei giovani d’oggi, ma era un malinteso. Era un malinteso perché io intendevo dire il dramma e il dolore dei giovani d’oggi e in questo senso gli dicevo, “è una generazione che soffre, è una generazione che fa fatica, è una generazione che patisce una solitudine, una solitudine terrificante e nello stesso tempo uno spazio di libertà ridottissimo”. Sto cominciando a capire adesso che quello che abbiamo un po’ arbitrariamente chiamato autoritarismo dei nostri vecchi, nelle nostre cascine, nell’albero degli zoccoli insomma per intenderci, lasciava ampi margini di libertà e di responsabilità personale, più di quanti illusoriamente crediamo di lasciarne oggi ai nostri figli. Soffocano i nostri figli. Ecco, io raccontavo queste cose a questo professore e inaspettatamente mi racconta di sé, mi racconta dell’incontro con tre ragazzine, con tre studentesse dell’università. E mi chiede, mi fa questa domanda così coraggiosa, mi chiede: “adesso lei mi deve spiegare come sia possibile questa cosa, che tre studentesse di 20 anni possano colpire il cuore e l’intelligenza di un uomo di 60, e cambiarlo”. Introdurre nella vita di un uomo di 60 anni un fattore di novità, un fattore di bene, un fattore tanto a lungo atteso, e improvvisamente reso presente, reso esperienza, reso possibile da un incontro con tre studentesse, che hanno 40 anni di meno, che ne sanno infinitamente di meno. E mi chiese, facendomi piangere, e piangendo lui, mi chiese: “chi è, chi è che consente a tre ragazzine di cambiare il cuore di un uomo in tarda età, quando sembrerebbe essere troppo tardi? Chi è che cambia il cuore dell’uomo? Chi è che fa di quelle tre ragazze una storia eccedente quello che in realtà sono? Cosa mi sta succedendo insomma?” E io gli ho detto: “ti sta succedendo l’educazione, cioè ti sta succedendo il cristianesimo”. E gli ho raccontato di un altro vecchio, visitato da tre tizi, alle querce di Mamre, che pure aveva detto “no, no per me è troppo tardi, non ce la faremo mai”. Ti sta succedendo l’educazione, perché ti sta succedendo il cristianesimo. Questa è un’altra cosa che mi entusiasma sempre dell’educazione, che l’educazione avviene così. Può essere che tu adulto educhi i tuoi figli, per la testimonianza che gli dai, e può essere che i tuoi figli educhino te, per la testimonianza che ti danno, perché è il Vero, è il Vero che si impone agli occhi dell’uomo e lo trascina a sé, cioè lo educa, lo accompagna. E così può accadere quello che ci auguriamo tutti noi genitori, che sia vero… Ho pensato per tanti anni, leggendo Dante, che la definizione “figlia del tuo figlio”, potesse essere proprio solo della Madonna. Invece perfino, perfino in questo la Madonna è primizia di una cosa che possiamo vivere tutti. Si può diventare figli dei propri figli, si può diventare alunni dei propri alunni, perché la vita, grazie a Dio, funziona così, sorprende in modi, in tempi, in luoghi inaspettati. Questo è il modo in cui Dio educa il suo popolo, cioè ciascuno di noi. In questo senso ho finito. Cerco di spiegare la cosa che mi sembra più decisiva, non abbiate paura, educare è semplice, educare è semplice se non si ha la pretesa, se non si hanno pretese. Cioè educare è semplice se è un amore, e l’amore funziona così, che Dio ci ha amati per primo mentre eravamo ancora peccatori. Per me è questo il grande segreto che ho imparato dal mio papà, da mia mamma, da mia moglie nel modo con cui guardava i figli, da don Gius nel modo con cui ha guardato me, da don Pino nel modo in cui a sua volta ha guardato i miei figli e ha rimesso insieme i cocci che io gli avevo affidato. In tutto questo io ho sempre capito che l’educazione è una misericordia, cioè un amore all’altro prima che cambi, prima che cambi, prima di sentir su di sé la preoccupazione e l’angoscia e la pretesa del genitore di trascinarlo verso qualcosa. L’educazione ha, tra il legittimo desiderio della felicità per i propri figli e la loro condizione di povertà, di debolezza, di fragilità, ha in mezzo tutta l’ampiezza della libertà. Amare veramente la libertà dei figli è il segreto dell’educazione, è la cosa più difficile dell’educazione. Evitare le scorciatoie, evitare quell’equivoco terribile del genitore che dice: “io sono tuo amico, sono con te, ti capisco, vengo anch’io con te”. Commento sempre la parabola del Figliol Prodigo, mirabile, la parabola dell’educazione, sfottendo un po’ i genitori che dicono ai figli: “facciamo così, se proprio vuoi andar via di casa, vengo anch’io con te”. E vendono tutto, lasciano la casa, per andare col figlio, così lo tengo d’occhio, così mi assicuro che non faccia niente di male, che il mondo non se lo porti via. E così facendo il mondo si è già portato via il figlio e il padre, senza alcuna possibilità di ritorno e di perdono. Invece l’educazione è questo padre che ama la libertà del figlio fino a lasciarlo andare, e che capisce che il suo compito è rimanere, garantire sempre la possibilità del ritorno, cioè di una casa. Quella che Giussani nel Rischio educativo chiama, con una immagine mirabile, funzione di coerenza ideale dell’adulto, una casa sulla roccia, una casa che rimane, una casa a cui si possa sempre tornare. E così l’educazione è semplice, è come quella del mio papà. E’ come quella che abbiamo sentito in alcuni interventi di questi giorni. E’ come quella dello sguardo con cui don Giussani mi ha guardato quel 21 gennaio del 2003, l’ultima volta che l’ho visto. E’ un perdono. Se un perdono è possibile, se un perdono è semplice, se un perdono non teme gli errori, non teme la fragilità, come ci insegna sempre padre Aldo, il perdono non è cosa che segue o consegue alla colpa, siccome ho sbagliato poi devo essere perdonato, il perdono viene prima della colpa. E’ uno sguardo che si ha a scuola come in famiglia. Scusate voglio chiudere con questa cosa che mi ha impressionato, non so se faccio bene a leggerla, tante cose non so se faccio bene, poi le faccio. Ho letto questo articolo sul Corriere della sera di qualche giorno fa, la dichiarazione di un padre che ha portato la figlia a un concorso di bellezza. Dice così, intervistato dal giornalista: “sono orgoglioso di lei, non c’è nulla di male a partecipare a un concorso di bellezza”. E io che ho dedicato intere serate a spiegare ai genitori, guardate che, quando uno dice non c’è niente di male, ha già perso, la domanda dell’educatore non è cosa c’è di male, ma cosa c’è di bene nella proposta che gli posso fare oggi, chi si chiede cosa c’è di male, come educatore, è già sconfitto. “Non c’è niente di male a partecipare a un concorso di bellezza, per mia figlia si è trattato di un gioco”. I figli, poverini, mio figlio ha il diritto, fa tanta fatica, ha il diritto di riposarsi, ha il diritto di giocare, ha il diritto di divertirsi, lei sa bene che i suoi genitori vogliono che metta al primo posto lo studio. Vi prego, leggete queste pagine anche solo perché tentano di smitizzare la scuola, di far capire alle mamme …L’altro titolo sapete cos’era? Non ve l’ho detto, Lasciateli stare.
Però l’editore l’ha ritenuto troppo graffiante, troppo. Il titolo era lasciateli stare, dedicato alle mamme italiane, come sottotitolo. E ci sono pagine interessanti sull’equivoco per cui le mamme e i papà, ma soprattutto le mamme, confondono la performance scolastica col valore ontologico dei propri figli. O per lo meno cercano queste pagine di spiegare alle mamme che i figli si sentono giudicati e amati dai propri genitori in proporzione all’esito scolastico, che è una delle cose più devastanti che ci siano. Anche questo papà sembra dire: “da parte mia, prima di dare il consenso ho raccolto qualche informazione, l’organizzazione era seria, e la serata non aveva nulla di sporco, pensate non l’ho mai persa di vista e dopo la premiazione l’ho riaccompagnata a casa”. Si trattava del concorso lato B per la votazione del più bel culo della Regione in questione. Quel genitore lì, dice delle cose, lì la cosa è clamorosamente evidente, ma mi è venuta questa riflessione e ve la voglio partecipare chiudendo. Si può trattare i nostri figli, veramente si può trattarli così, pensando di volergli bene, di essergli compagni e amici. Non c’è niente di male in quello che stanno facendo e io sono lì con loro e li guardo e non c’è niente di sporco, e l’organizzazione era seria. E si è divertita e ha giovato un po’, l’ho anche riaccompagnata a casa per essere sicuro che non facesse niente di male. Pensate, si può fare questo ragionamento portando la figlia a un concorso di bellezza, dove la bellezza è identificata con le misure del sedere.
Si può trattar così la pagella scolastica, si può trattar così il mestiere che farà, si può trattar così la salute dei figli. Si può trattare il figlio identificandone il bene con un particolare che non è mai il suo destino. Un amore vero al suo destino, questa è la questione. Se non siamo rigenerati continuamente noi da un’attesa grande, da un desiderio grande, da una certezza grande, finirà così. Non sarà il sedere certo, perché siamo abbastanza accorti per non cadere così in basso, ma l’educazione si fermerà, si interromperà, e sarà una frustrazione e una ultima violenza. Vi ripeto, che sia nella scala di valori il bel lavoro, il successo, il non ammalarsi, la pagella, tutto quello che volete voi, tutto questo tradisce l’educazione. Perché l’educazione è quella che abbiamo imparato e visto. Un amore al destino così grande, così acuto, così drammatico, da portare intero il peso della croce della libertà cioè dei possibili no e di tutta la debolezza di cui siamo carichi noi e sono carichi i nostri figli. Ma abbiamo un posto, questo, quello che è stata la mia famiglia, che non ha né schifo né paura di quello che siamo. Educa un posto così. Speriamo di riuscire, speriamo che questo libro ci aiuti a ricordarci che ogni famiglia e ogni scuola dovrebbe essere un posto così.

CAMILLO FORNASIERI:
Grazie caro Franco

FRANCO NEMBRINI:
Terzo. Il terzo titolo. Alla fine il titolo è Di padre in Figlio, carino. Voglio dire, non l’ho detto ma lo dico, il titolo che abbiamo scelto insieme con l’editore, Di padre in figlio, non è da buttar via, è carino. E’ un pochino semplice, tende a ridurre la cosa, a non far capire che si parla molto anche di scuola e questo lo volevo precisare. Grazie

CAMILLO FORNASIERI:
E con questa notazione che lui fa, possiamo anche dire che si rassegni anche ad essere scrittore, perché firma i volumi adesso, alla fine dell’incontro. E ci sarà in libreria dalle 16 e mezza, dalle 16 e 30 alle 17 e 30 per fare qualche dedica a tutti. Ti ringrazio tantissimo, grazie anche a don Pino. Tratteniamo le parole che abbiamo ascoltato. Ciao.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

26 Agosto 2011

Ora

11:15

Edizione

2011

Luogo

eni Caffè Letterario D5
Categoria
Testi & Contesti