L’IMPRESA ITALIANA NEL MONDO

L'impresa italiana nel mondo

25/08/2011 - ore 11.15 In collaborazione con Unioncamere. Partecipano: Andrea Illy, Presidente di Illy Spa; Roberto Snaidero, Presidente di FederlegnoArredo; Massimo Scaccabarozzi, Presidente di Farmindustria; Livio Tronconi, Responsabile delle Relazioni Istituzionali del Gruppo Villa Maria; Umberto Vattani, Ambasciatore; Raffaello Vignali, Vicepresidente X Commissione Attività Produttiva, Commercio e Turismo della Camera dei Deputati. Introduce Enrico Biscaglia, Direttore Generale della Compagnia delle Opere.

In collaborazione con Unioncamere. Partecipano: Andrea Illy, Presidente di Illy Spa; Roberto Snaidero, Presidente di FederlegnoArredo; Massimo Scaccabarozzi, Presidente di Farmindustria; Livio Tronconi, Responsabile delle Relazioni Istituzionali del Gruppo Villa Maria; Umberto Vattani, Ambasciatore; Raffaello Vignali, Vicepresidente X Commissione Attività Produttiva, Commercio e Turismo della Camera dei Deputati. Introduce Enrico Biscaglia, Direttore Generale della Compagnia delle Opere.

 

ENRICO BISCAGLIA:
Buongiorno a tutti. L’impresa italiana nel mondo nel Meeting è un appuntamento divenuto tradizionale. Abbiamo sempre guardato con interesse chi tra gli imprenditori sceglie di varcare i confini, chi apre a nuove prospettive e a nuove opportunità per sé e per altre imprese. L’export italiano anche in questi mesi è cresciuto, ha continuato a crescere, così è cresciuto nel 2010, dopo naturalmente la crisi del 2008 e del 2009. I dati sono incoraggianti e quindi i dati dell’export costituiscono in questo tempo uno dei pochi dati positivi dell’andamento della nostra economia. Nel primo semestre del 2011 l’export italiano è cresciuto del 15,8%, di una percentuale pari a quanto era cresciuto in tutto l’anno 2010, e debbo dire che è interessante vedere poi che il dato medio premia, ovvero crescono in maniera molto superiore Paesi nuovi come Brasile, Turchia, Hong Kong, Cina, Russia, che hanno crescite anche di molto superiori a quella che ho citato. È quindi un dato positivo quello dell’export, che non ci vede iniziare oggi o dopo la crisi un percorso, ma ci vede in un percorso già avviato.
Abbiamo oggi a parlare di questo tema con noi primi attori su questo fronte e fra questi vi presento subito Andrea Illy, Presidente e Amministratore delegato di Illy Spa, Illy Caffé; Roberto Snaidero, che, oltre ad essere titolare dell’omonimo Gruppo, è Presidente della più grande federazione che rappresenta aziende italiane della filiera del legno e dell’arredo; Massimo Scaccabarozzi, che è Amministratore delegato di Gensen Società Farmaceutiche del Gruppo Johnson e Johnson, che è presente sul territorio italiano; e poi abbiamo in rappresentanza di Ettore Sansavini, che è il Presidente del Gruppo Villa Maria, Livio Tronconi, Consigliere delegato del Gruppo Villa Maria, il più grande gruppo privato nella sanità. Un amico di lunga data del Meeting è con noi anche quest’anno, parlo dell’ambasciatore Umberto Vattani, e poi in conclusione abbiamo l’on. Raffaello Vignali, che oggi è presente con noi anche per la responsabilità che ricopre come Vicepresidente della X Commissione Commercio e Turismo della Camera dei Deputati.
Vorrei proporre ai nostri relatori alcune domande semplici. Le imprese italiane, pur con i dati che ho forniti all’inizio, sono poche, nei numeri sono poche ad essere già presenti stabilmente nei mercati esteri. Quindi, come possiamo potenziare e sostenere i percorsi di internazionalizzazione delle imprese italiane? Quali sono gli approcci virtuosi, cosa, nelle realtà di cui siete responsabili, vi ha consentito di avere approcci virtuosi e vincenti nei mercati esteri? E quanto vale il tratto dell’italianità? Di questo tratto vorrei, a conclusione di questa introduzione, richiamare una frase di Enrico Mattei, che potete vedere nella mostra dei 150 anni della sussidiarietà, che diceva in un altro tempo, nel primo dopoguerra: “Io proprio vorrei che gli uomini responsabili della cultura e dell’insegnamento ricordassero che noi italiani dobbiamo toglierci di dosso questo complesso di inferiorità che ci avevano insegnato: gli italiani sono bravi letterati, bravi poeti, bravi cantanti, bravi suonatori di chitarra, brava gente, ma non hanno la capacità della grande organizzazione industriale. Tutto ciò è falso e noi ne siamo un esempio”. Direi di più: oggi ne sono un esempio le più di ventimila imprese italiane che operano nel mondo. Perciò vogliamo in questo nostro dialogo conoscere e riuscire a dare una speranza in più alla crescita di questa presenza. Darei per primo la parola ad Andrea Illy.

ANDREA ILLY:
Grazie Biscaglia e, con l’occasione, la ringrazio anche dell’invito, perché è un onore e un piacere essere presenti qui al Meeting a dibattere di questi temi, appassionanti.
Con il suo permesso, dopo aver fatto due parole di contestualizzazione dell’azienda nel contesto internazionale, invertirei l’ordine delle sue domande, perché in effetti l’italianità è un fattore di assoluto primo ordine rispetto al vantaggio competitivo dell’Italia nel mondo. Quando mio nonno fondò l’azienda, 78 anni fa, nel 1933, lo fece con un’idea molto semplice, diceva: noi faremo il caffé migliore al mondo e lo venderemo in tutto il mondo. Questo era il suo progetto, ci stiamo ancora lavorando, c’è ancora molto da fare, però diciamo che da qui sono nati i tre capisaldi della nostra impresa che sono: la qualità, i mercati lontani e l’innovazione al servizio dei primi due. Quindi qui già, se vogliamo, possiamo identificare un aspetto fondamentale della nostra impresa, ossia che l’internazionalizzazione faceva parte del progetto imprenditoriale o dell’idea imprenditoriale, fin dalla genesi. E questo è importante, è importante per tutti, anche per imprese di settori diversi, e su questo punto l’Italia ha dei vantaggi competitivi importanti. Nel nostro caso abbiamo, diciamo, la fortuna che l’Italia è considerata mondialmente il Paese del caffé; in alcuni Paesi addirittura credono che il caffé venga coltivato in Italia. E c’è un motivo storico, perché il consumo del caffé in Occidente è cominciato circa tre secoli e mezzo fa, a Venezia e simultaneamente a Vienna, quindi noi abbiamo, con la mia famiglia e il territorio dal quale proveniamo, l’onore di rappresentare in parte anche l’Austria. Però l’italianità è quella più importante. Il caffé ha assunto da subito, a partire da Venezia, un’importanza sociale enorme, perché è diventato un po’ la bevanda ufficiale della cultura, grazie alle sue proprietà organolettiche, che sono sicuramente ispirazionali ma anche stimolanti per la mente, e poi perché in Italia si è sviluppato un grandissimo network di luoghi di culto, se vogliamo, del caffé, che sono originariamente i caffè, che erano storici, dove si consumava il caffé seduti e poi sono diventati i bar. Attraverso di ciò il caffé è entrato totalmente nella cultura italiana, nel senso che appartiene totalmente al nostro stile di vita e di fatto tutti andiamo al bar e tutti ci andiamo molto spesso, tant’è che in Italia, anche se non si sa, c’è un bar ogni 400 abitanti in media e quindi il bar e il caffé al bar appartengono allo stile di vita italiano tanto quanto la Ferrari, piuttosto che Armani, piuttosto che il football, piuttosto che quelli che sono i veri e propri stereotipi dell’italianità.
Sulla base di questo, e con tre secoli e mezzo di storia, l’Italia ha sviluppato anche molta tecnologia: in Italia è nato l’espresso, molto grazie anche alla mia famiglia, quindi è stato mio nonno Francesco che ha reinventato la formula dell’espresso, introducendo la formula dell’acqua a 90 gradi e 9 atmosfere, che ancora oggi è utilizzata nel mondo intero. E quindi abbiamo la distribuzione, abbiamo lo stile di vita, abbiamo la tecnologia, altre preparazioni uniche, come quella della moka, che è di nuovo tipica italiana, e infine la cultura. Il caffé ha sempre fatto parte della cultura dell’italianità. Se vogliamo la città più emblematica da questo punto di vista è Napoli, con il grande ambasciatore della cultura del caffé napoletano che è stato Edoardo De Filippo.
Ecco, tutto questo è un giacimento di aspetti intangibili che legittimano e rendono molto rilevante e attrattivo il made in Italy nel caso del caffé nel mondo. Per fortuna non vale solo per il caffé, perché l’Italia ha una densità culturale talmente profonda che riesce a fare l’eccellenza creativa, ed è questo il punto fondamentale, in molteplici settori. Questo significa che l’italianità vuol dire un vantaggio competitivo basato sulla creatività, sulla capacità di proporre stile, proporre soluzioni ingegnose, che nascono non solamente dall’approccio creativo italiano, ma anche dalle profonde radici culturali che danno una legittimità e quindi un riconoscimento a livello internazionale. Questo è fondamentale, perché apre le porte; una volta che le porte sono aperte, il compito di riuscire ad entrare a sviluppare i mercati è il compito dell’impresa.
E qui arriviamo alle tre domande. Senz’altro l’italianità, e ho risposto, il secondo punto è l’approccio vincente. L’approccio vincente è certamente puntare sull’idea dell’italianità, ma più che sul made in Italy, sul made by italians, che hanno una capacità creativa e un senso estetico molto forte. Su questo mi soffermo con due parole. Quando nella mia esperienza sono entrato più di vent’anni fa nella Illy Caffè, il vantaggio competitivo era puramente legato alla qualità del prodotto e di fatti, guarda caso, sono partito da un progetto di qualità totale. E quindi facevamo i sistemi produttivi con la qualità, sono andato a studiare la qualità in Giappone, poi abbiamo esportato il nostro caffé in Giappone, era tutto qualità, qualità, qualità. Oggi, vent’anni dopo, la qualità dei prodotti, ve ne rendete conto voi stessi come consumatori, è diventata una cosa scontata. Il fattore igienico: si dà per scontato che qualsiasi bene durevole o di consumo si compri, abbia una qualità elevata e il fattore critico di successo si è spostato nell’ambito dell’intangibile. Immagine dell’intangibile e quindi dell’estetica, dell’immagine, dell’esperienza di consumo: è un altro ambito nel quale gli italiani sanno e possono fare l’eccellenza. Naturalmente, per riuscire a trasportare questo concetto di intangibile e di esperienzialità sui mercati internazionali, bisogna avere la marca e la marca è direi imprescindibile, quanto meno in alcuni settori, che sono quelli dei beni durevoli e dei beni di consumo in generale, per poter operare a livello internazionale. Una marca che quindi abbia una forte riconoscibilità, una forte attrattività. Per marca si intende il concetto di brand equity, come si dice in inglese, il brand è la marca, l’equity è il contenuto di valore che si estrinseca attraverso un contenuto reputazionale. Il concetto della reputazione viene ancora prima di quello dell’immagine. Gli italiani purtroppo, l’Italia non gode di ottima reputazione fuori dai nostri confini, dobbiamo esserne consapevoli. Gli italiani hanno un po’ la fama di essere un po’ pasticcioni, anche perché non riusciamo a far parlare sempre bene di noi nella stampa. Per fortuna questa immagine dell’Italia è divisa in due: c’è un’immagine istituzionale, che è quella che ho appena descritto, di un’Italia un po’ pasticciona e poi c’è l’immagine dello stile di vita che invece è amatissimo. Ecco, bisogna stare attenti, nella gestione della nostra immagine internazionale come Paese, che quella che è l’immagine istituzionale non finisca anche per svilire quello che è l’amore per, diciamo, l’italian line style, che c’è in tutti i Paesi d’Europa, negli Stati Uniti e in Asia, perché altrimenti potremmo cominciare ad avere anche una minore desiderabilità dei nostri prodotti. Per costruire questa brand equity, purtroppo ci vuole uno sforzo imprenditoriale importante, perché si calcola che costruire una marca non costi meno di 50 milioni di euro ormai per singolo Paese e quindi è impensabile poter moltiplicare questo per tanti quanti sono i Paesi nel mondo, anche perché purtroppo l’approccio dell’export è quasi sempre un approccio di nicchia. E quindi soprattutto nel mondo della marca, negli ultimi anni, il fattore critico di successo si è spostato verso quello della distribuzione, verso quello della distribuzione monomarca, verso quello della distribuzione selettiva, dove i propri prodotti italiani di marca possono essere rappresentati in un modo esperienziale e soprattutto molto coerente con il messaggio che si vuole dare ed infine con la possibilità di integrarsi con le comunità locali, di farsi riconoscere come una marca globale e non solo italiana e di cominciare a costruire delle vere e proprie relazioni con i clienti internazionali. Quindi questi sono i livelli della sfida, queste sono le necessità. Noi abbiamo cominciato dieci anni fa con la distribuzione selettiva in giro per il mondo, aprendo nostri punti vendita monomarca. Questi sono gli aspetti fondamentali degli approcci vincenti, quanto meno per il settore di mia appartenenza: quindi la qualità, la marca e la distribuzione selettiva. Naturalmente l’approccio amministrativo burocratico all’internazionalizzazione non è indifferente, perché su questo la globalizzazione porta con sé un elevatissimo livello di normalizzazione, leggi, ostacoli di qualsiasi natura, anche protezionismi occulti, e sull’altro versante una ipercompetizione per cui sempre più ci si trova a competere con dei competitori che non sono appartenenti al nostro Paese e che spesso introducono dei cambiamenti radicali sul mercato.
L’ultima domanda dunque: come poter potenziare questo sistema? Beh sicuramente io credo che il compito delle istituzioni sia quello di facilitare lo sviluppo dell’economia, quindi la semplificazione è l’aspetto fondamentale, l’aiuto agli sviluppi internazionali. Secondo, dato che l’Italia non cresce, e non cresce non solo per colpa dei governi, non cresce perché non cresce demograficamente e quindi non ci sono molte condizioni perché ci sia una forte crescita della produttività, non può che crescere di export, quindi cercare di favorire l’export. Se ci sono degli interventi non solo di semplificazione, ma a sostegno della crescita, li farei proprio rivolti all’internazionalizzazione. Su questo cito, nel campo dell’alimentare, i nostri colleghi d’oltr’Alpe, i francesi, che hanno un organismo dedicato che si chiama Sopexa, che fa specificamente la promozione internazionale dell’industria alimentare francese nel mondo, con un budget di circa 90 milioni di euro. E direi che per il resto, dal punto di vista dell’imprenditorialità, e concludo, gli italiani dovrebbero cominciare a pensare in grande. Andare fuori dell’Italia a vendere può essere un approccio interessante ma anche un approccio, come dicono gli americani di cherry picking, di andare a prendere i clienti, un po’ di scrematura dei mercati. Questo non significa però aver fatto un’internazionalizzazione. Frequento molto la Cina, dove abbiamo recentemente deciso di sviluppare in proprio la rete distributiva, facendo integrazione della nostra società commerciale, e vedo che la presenza italiana, a parte la onnipresente industria della moda, che è stata sempre molto pionieristica, è sempre molto scarsa. Manca proprio l’investimento e quando parlo in Italia ho la sensazione di incontrare imprenditori o che non hanno ancora realizzato la dimensione gigantesca dei mercati internazionali, o che non la conoscono. Quindi gli italiani dovrebbero cominciare a pensare in grande, perché tanto i nostri competitori internazionali già lo stanno facendo. In bocca al lupo. Grazie.

ENRICO BISCAGLIA:
Grazie ad Illy che con parole semplici ha dato veramente tanti spunti significativi per chi affronta il mercato all’estero ed ora direi che può continuare questo arricchimento con l’intervento di Roberto Snaidero.

ROBERTO SNAIDERO:
Grazie. Signori buongiorno, quando parlava prima Andrea Illy, diceva fare il caffè nella moka, io mi auguro che sempre sia su una cucina Snaidero naturalmente, no? Bene, grazie, scusate questa mia battuta, ma essendo tutti e due della stessa zona e stesso territorio, ci conosciamo, un po’ forse di più con suo fratello, ma ci troviamo molto spesso in queste situazioni. Bene, permettetemi, prima di iniziare, un ricordo personale del mio predecessore cavaliere del lavoro Rosario Messina, che, se siamo qui oggi come Federlegno, è per volontà sua, per volere suo, perché l’anno scorso, ritornato dal Meeting di Rimini con un entusiasmo pazzesco, ha detto: “Dobbiamo essere presenti come federazione, perché la federazione deve vivere nel mondo dei giovani”. Lui è mancato prematuramente il mese di marzo e i colleghi hanno voluto che ritornassi, perché ero già prima presidente di Federlegno, prima di Messina, ritornassi presidente di Federlegno e ho voluto mantener fede a questo suo desiderio e quindi eccoci qua. Voi sapete che noi siamo votati all’internazionalizzazione, alla commercializzazione del nostro prodotto. Ma per fare un quadro, vorrei spiegare chi è la Federlegno. Federlegno Arredo è la federazione di categoria nel settore legno arredo, io sono il presidente della federazione che raggruppa 10 associazioni, che parte dalla prima lavorazione, quindi dal bosco e arriva fino al prodotto finito. Poi abbiamo anche alcune associazioni nel settore della luce, nel settore degli allestimenti di fiere, qui rappresentate dal loro presidente amico Plottini. Ecco, quindi, è una federazione, io uso dire che Federlegno accompagna la vita dell’uomo da quando nasce a quando muore. Quindi abbiamo tutto dentro, la culla e poi il resto, mobili e quant’altro. È una federazione, il settore legno arredo in Italia, che ha un fatturato alla produzione di oltre 38, 39, 30 miliardi di euro, di cui ne esportiamo oltre il 30%. Quindi siamo oltre i 10 miliardi e una miriade delle imprese, nel settore legno arredo ci sono circa 70 mila medie piccole imprese, con 400 mila addetti. Vedete che la media è veramente una media molto bassa e quindi si innescano dei problemi sul mercato interno, ma particolarmente su quella che può essere una problematica a livello internazionale. Noi come federazione organizziamo il salone del mobile a Milano, organizziamo delle fiere a Mosca, il salone world wide a New York lo facevamo fino ad alcuni anni fa. Questo per dare supporto alle nostre medie piccole imprese per crescere, perché la situazione sul mercato interno è quella che è. L’unico lato che noi riteniamo sia possibile per la crescita delle nostre aziende è svilupparsi sul mercato estero. Ma potete capire tranquillamente che una piccola azienda non può assolutamente permettersi di andare ed investire in questi nuovi mercati. Noi oggi, io fra una settimana, parto, vado in Cina, perché vogliamo sbarcare come federazione assieme alle imprese italiane nel mercato cinese, in maniera professionale, in modo da dare un aiuto all’impresa. Fino a poco tempo fa avevamo l’ICE qui rappresentata dal suo presidente; io ho fatto il consigliere presidente della Tavi per 3 anni poi mi hanno mandato a casa, no, e si è visto cosa è successo, vero? Avevamo l’ICE che ci poteva dare una mano, abbiamo le regioni che fanno le loro missioni, abbiamo i consorzi che fanno le loro missioni, con dispersione totale di energie e di risorse che potrebbero essere impiegate in maniera univoca per aiutare le medie piccole imprese. Questo non succede in Italia, hanno chiuso addirittura l’ICE e poi non so, ci dirà qualcosa penso l’ambasciatore Vattani, quello che succederà in futuro, io non lo so, proprio in un momento in cui le aziende hanno bisogno di sostegni per essere accompagnate. La federazione lo sta facendo, ma io non posso sostituirmi alla cosa pubblica. Ecco, queste sono le grandi problematiche che noi incontriamo oggi sul mercato, però è un dovere nostro proseguire su questa strada. Abbiamo dei grossi problemi, dico sempre che le imprese italiane sono come la gazzella, che deve sempre correre perché dietro ci sono i leoni. Abbiamo i leoni, i cinesi, la Cina, parlo senza… che, purtroppo, è una grossa entità sul mercato, abbiamo altri competitor che approfittano in tutti i modi per sobbarcare l’azienda italiana, in tutti i modi, ripeto. Proprio recentemente è successo sul mercato cinese un fatto molto strano per alcune aziende italiane, che ancora non ho capito da che parte sia venuto, forse è proprio perché sanno cos’è l’impresa italiana, cosa vuol dire il prodotto arredamento italiano nel mondo. Noi siamo i primi esportatori, innanzitutto d’Europa, in senso globale e siamo i secondi esportatori globali dopo la Cina, ma siamo i primi esportatori nel mercato medio alto. Ecco, questa è una forza che ci viene da molto lontano, un know how che mio padre, i nostri padri, i nostri nonni hanno coltivato nel tempo. E io penso che lo dobbiamo assolutamente mantenere qui lancio un messaggio come presidente di federazione per i giovani. Io vedo tanti giovani che sono disoccupati, noi abbiamo le imprese che ricercano dei giovani. La settimana scorsa, un giornale locale a Udine aveva pubblicato un sondaggio, un’analisi, delle posizioni più richieste e che non si trovano. E al primo posto c’erano i falegnami, gli idraulici: oh, cercate un falegname per casa vostra, non lo trovate neanche a morire oggi. Ecco, queste sono le cose che ci mancano e vogliamo dare la sensazione, cioè, non la sensazione, la certezza che l’impresa del settore del legno arredo ha di giovani. Il nostro settore non è più come veniva rappresentato una volta, con il falegname senza metà pollice o senza un dito perché c’era la sega a nastro e se l’era tagliato. Oggi, chi entra nelle aziende del settore del mobile, vede le persone con camice bianco, con Pc da una parte e dall’altra un ambiente che è al di sopra, forse meglio di una clinica, perché dopo quello che stiamo leggendo questi giorni sulle cliniche, penso che il settore dove facciamo i mobili sia migliore. Quindi, ripeto, il settore del legno arredo è un settore che deve svilupparsi, e la federazione in questo vuole accompagnare le medie piccole imprese, verso la crescita. Ma deve essere una crescita organica. I mercati, purtroppo, il mercato interno è quello che è, noi stiamo esplorando, lo dicevo prima, il mercato cinese, abbiamo il mercato russo, noi adesso ad ottobre facciamo una grossa fiera con il prodotto italiano a Mosca, abbiamo avuto delle grosse sorprese, anzi, non siamo riusciti a soddisfare le richieste dei nostri imprenditori di voler presentarsi in questa fiera. Ecco, queste sono le cose che noi stiamo facendo in questo momento. È chiaro, il momento è difficile, però non possiamo piangere, anzi, io penso che ci siano possibilità di sviluppo, e i dati ci confortano, perché nei primi 6 mesi dell’anno rispetto all’anno scorso, la crescita delle esportazioni nel nostro settore è aumentata del 12-13%. Quindi, io sono ottimista, mi auguro che le imprese possano seguire la nostra federazione, assieme mi auguro anche all’entità pubblica. Noi stiamo per fare un accordo, in Lombardia, con una società di promozione, perché chiaramente mancando il discorso ICE, vogliamo comunque trovare una soluzione, perché da soli, come si diceva, non possiamo andare. Ecco, noi stiamo facendo un accordo su questo e voglio traslarlo anche su altre regioni dove abbiamo i nostri distretti industriali. Cerchiamo di dare il contributo, la massima collaborazione all’impresa, perché sappiamo che, se non interviene l’associazione, la federazione, le piccole aziende purtroppo rimangono ferme lì. Grazie.

ENRICO BISCAGLIA:
Grazie Snaidero. Ora la parola a Livio Tronconi, che rappresenta come vi ho detto il gruppo Villa Maria, un gruppo che opera nella sanità. Viene, diciamo, sostituisce Ettore Sansavini, che è il fondatore del gruppo Villa Maria, e che attualmente è a Parigi per avviare un progetto, una realizzazione del policlinico con il gruppo Villa Maria. Quindi siamo contenti di avere Tronconi e di sapere che Sansavini, intanto, le imprese nel mondo le sta facendo.

LIVIO TRONCONI:
Grazie, grazie. Ho colto con favore questa opportunità di sostituire Sansavini e la ragione di fondo sta nel fatto che per me è, come dire, il terzo momento che mi vede partecipe al Meeting dal 2006. Nel 2006 dibattemmo proprio qui, il tema di una maggior sussidiarietà, nel 2008 facemmo una più solida comparazione per scegliere al meglio tra azienda pubblica e azienda privata, e oggi, cogliendo l’occasione della presenza dell’onorevole Vignali, voglio farmi portavoce di istanze, perché l’impresa italiana si consolidi come impresa capace di attrarre nel mondo verso il nostro Paese, e per promuovere, in alcuni contesti internazionali, alcuni modelli di gestione dell’impresa alla persona che si fondino essenzialmente sul principio di sussidiarietà. Anticipo le conclusioni. Il bisogno in questo momento nel nostro Paese del welfare è quello di sussidiarietà. Non c’è più tempo per rinviare un’iniziativa solida su questo fronte, che affronti nel welfare questo problema, che sta diventando per certi versi drammatico, un problema di incapacità di rispondere, sotto il profilo finanziario e anche organizzativo, ad una serie di bisogni che sono inevitabilmente crescenti. La nostra esperienza aziendale si fonda fondamentalmente su due capisaldi: eccellenza ed innovatività di offerta nel nostro Paese, promozione di modelli di governance e di organizzazione sanitaria, che facciano propri i principi di quella sussidiarietà che ahimè, talvolta in Italia stentano a trovare un solido radicamento. Per quanto riguarda eccellenze e innovatività, il gruppo Villa Maria si è caratterizzato nel corso di circa 30 anni sul fronte delle cosiddette alte specialità, quindi in un contesto, come dire, di nicchia dell’offerta sanitaria, nell’ambito sicuramente di patologie emergenti, ma soprattutto nell’ambito di quelle patologie che maggiormente risentono dell’innovazione tecnologica e della innovatività di approccio, per quanto riguarda i trattamenti diagnostici e terapeutici, dalle malattie cardiovascolari alle malattie neurologiche e all’oncologia. A fronte di questo, la nostra corrente capacità di investimento e di innovazione recentemente è stata accompagnata da una solida, strutturata collaborazione sul fronte della ricerca e della didattica. Qui sorgono, dal nostro punto di vista, i principali problemi, perché per eccellere, per essere competitivi a livelli di attrattività a livelli internazionali in alcune discipline, diventa fondamentale poter essere posti nella condizione di svolgere ricerca corrente, ricerca finalizzata e didattica di altissimo profilo con, tra virgolette, gli stessi strumenti che sono riconosciuti oggi sostanzialmente ed esclusivamente al settore. Per farvi un esempio concreto, i nostri laboratori di ricerca di componente ingegneristica hanno brevettato cinque dispositivi medici, per quanto riguarda l’interventistica cardio chirurgica. Abbiamo impiegato meno tempo ad ottenere l’approvazione dal FBA americana che non dal nostro Paese, tanto che sono utilizzati correntemente negli Stati Uniti e non in Italia. Per altro verso, la nostra fondazione in collaborazione con il gruppo, ha avviato importanti iniziative di ricerca in ambiti non molto esplorati nel nostro Paese. Anche in questo caso, il nostro coordinamento pone dei limiti e dei filtri tali per cui i nostri ricercatori possono arrivare sino ad un certo punto e poi inevitabilmente devono migrare in altri contesti statuali per completare la ricerca. Ultimo problema per quanto riguarda queste aree di eccellenza, quello della ricerca farmacologica. Il fatto che nel nostro ordinamento, il filtro rappresentato dai comitati etici ritarda a tal punto la nostra capacità di competere a livello di ricerca internazionale, da porci sostanzialmente ai margini di una certa comunità che sviluppa le molecole più innovative. A fronte di questo quadro, ecco il perché della domanda di maggior sussidiarietà e di maggior libertà nel poter affrontare la clinica e la ricerca. Si dice che c’è il rischio di privatizzare, in realtà un Leitmotiv che vuole distrarre l’attenzione dei cittadini rispetto all’esigenza proprietaria. Non si vuol privatizzare la sanità in Italia. La nostra aspirazione è quella di avere un modello che veda nella pubblica amministrazione una solidissima capacità di programmazione, una solidissima capacità di strutturare strategie per lo sviluppo scientifico, una solidissima capacità di esercitare poteri e vigilanza di controllo. Chi fa bene, non ha problemi di vigilanza e controllo da parte della pubblica amministrazione. Viene da sé che tutto il resto è da porsi in una situazione di oggettiva equivalenza tra erogatori pubblici ed erogatori privati. E con questo, non è neanche vero che si vogliano ridimensionare o differenziare le tutele nei confronti dei cittadini, anzi il nostro obiettivo è proprio l’opposto. Io leggevo recentemente la riforma olandese in materia di tutela della salute, ha di fatto introitato due principi di sussidiarietà, quello legato al sistema della tutela pubblico privata, lasciando libero il cittadino di opzionare quale strumento di tutela adottare, in termini urbanistici, assicurativi o di servizio pubblico, così come la libertà del cittadino di poter accedere liberamente presso la struttura di offerta diagnostico-terapeutica, a prescindere dalla sua natura giuridica pubblica o privata. Quindi la grande aspettativa è proprio questa: nel nostro ordinamento una volta per tutte si inizi ad elaborare un testo che faccia della sussidiarietà la colonna portante della riforma del welfare. Il secondo tema, quello in cui non è più l’azienda italiana che inevitabilmente opera in Italia e cerca di attrarre ricercatori ed utenti dall’estero, ma vuole esportare all’estero un certo modello, per noi è rappresentato dalla nostra esperienza di Polonia. In Polonia, nell’arco di 3 anni, siamo partiti con un’esperienza pilota di partenariato pubblico privato, proponendo all’amministrazione pubblica polacca un modello di fortissima integrazione tra modello di governance aziendale all’interno dell’ospedale pubblico e obiettivi dettati dalla rappresentanza politica, quindi dalla pubblica amministrazione. Il risultato è stato così positivo che nel corso di 3 anni i centri sono diventati da 1 a 5 e sono in corso ulteriori iniziative per radicare maggiormente questo tipo di modello. In questo tipo di approccio, ci sentiamo portatori di quel modello di sussidiarietà che speriamo si possa utilizzare anche nel nostro Paese. Grazie.

ENRICO BISCAGLIA:
Ed ora do la parola, per allargare il tema, a Massimo Scaccabarozzi.

MASSIMO SCACCABAROZZI:
Grazie. Io intanto ringrazio per l’invito a questo dibattito, perché lo ritengo molto interessante. Io qui rappresento le industrie del farmaco in qualità di presidente di Farmindustria, e se parlare alla fine è sempre scomodo, perché si sono già dette molte cose, invece io lo ritengo comodissimo, perché intanto mi ero preparato una breve traccia dell’intervento che dovevo fare e l’ho cancellata, poi perché ho preso parecchi spunti dagli interventi che mi hanno preceduto e devo dire che sono tutti condivisibili. La prima cosa che porto a casa da questo incontro è che possiamo parlare di legno o di caffè, possiamo parlare di sanità, ma poi alla fine ci sono tantissime affinità che ho ritrovato anche col nostro settore. Quindi al di là di un intervento magari un po’ stereotipato, volevo proprio riprendere quello che è stato detto prima di me e cercare di mettere lì qualche dato di come il settore farmaceutico ha affrontato questo discorso della presenza italiana nel mondo, perché lo abbiamo affrontato in un modo un po’ particolare, sempre però facendo riferimento… per esempio condivido molto quello che il nostro moderatore ha detto in apertura riguardo all’export e da qui vorrei partire.
La crescita economica accelera solo se si è in presenza, e questo lo condivido pienamente, di un passo più rapido a livello di export, e l’export è sicuramente un indice di competitività che crea valore per il Paese che esporta. Allora io qui voglio parlare di un’industria, che è l’industria, l’impresa del farmaco che, grazie alla sua capacità di esportare, aumenta la capacità di crescita e la capacità di competitività del Paese in cui opera. Oggi le imprese del farmaco sono tra le imprese che hanno il più alto livello di export nel mondo, pensate che oggi noi esportiamo della produzione italiana circa il cinquantasei per cento di quello che produciamo, e ho colto anche quello che diceva Andrea Illy sui settori ad alto contenuto tecnologico e, tornando a quello che diceva il nonno di Illy e che dicevano i vecchi imprenditori anche nel farmaceutico, che sono stati molto illuminanti per quello che vi dirò poi dopo, mi sono appuntato: “qualità, innovazione e mercati lontani”. Ecco, se parliamo di qualità e di innovazione, io penso che i settori ad alto contenuto tecnologico siano i settori che sono in grado più di ogni altro di competere con l’economia emergente; ed essere ad alto contenuto tecnologico lo si può essere in tutti i settori. Se noi parliamo di qualità che genera competitività, voglio darvi qualche dato che mi sono appuntato qua e là su quello che rappresenta oggi il settore farmaceutico italiano nel mondo, in termini di competitività e di export. Se andiamo a vedere tutte le imprese catalogate come imprese high-tech, il settore farmaceutico è il settore che più di ogni altro ha una percentuale elevata di export, perché siamo il primo settore con il quarantasette per cento dell’export e una presenza del trenta per cento nell’ambito delle alte tecnologie di addetti, impieghiamo circa settantamila addetti di cui il novanta per cento è laureato o diplomato, e il quaranta per cento della produzione nell’ambito dell’ high-tech è svolto dalle industrie farmaceutiche, con degli investimenti che sempre nell’ambito della tecnologia sono superiori di gran lunga al quaranta per cento. Le nostre aziende sono aziende che fanno innovazione; nel totale delle aziende, l’ottanta per cento delle aziende è riconosciuto come azienda innovativa e, a fronte di un mercato che in Italia oggi e nell’ambito dell’Europa rappresenta come potenzialità il diciassette per cento, noi abbiamo una produzione che è superiore al venti per cento. Quindi già questo dato la dice lunga. Come siamo arrivati a questo? Siamo arrivati a questo pensando in italiano, pensando in italiano, perché abbiamo incominciato a considerare tutte le imprese del farmaco, che operano nel nostro Paese, indipendentemente dall’origine dei capitali che finanziano queste aziende, come imprese italiane a capitale estero o a capitale italiano. Perché? Perché riteniamo che anche le imprese a capitale estero che operano nel nostro territorio diano impiego a italiani, paghino le tasse in Italia, producano ed esportino. Quindi, esportando, contribuiscono a tenere alto il valore del Paese e l’economia del Paese e danno proprio un volano all’economia. E quindi, grazie a questo, e grazie direi alla visione dei grandi imprenditori italiani, ma anche dei manager italiani di aziende multinazionali, abbiamo cercato di trasformare il modo di vedere il nostro settore da multinazionale e aziende italiane, a aziende italiane a capitale estero e a capitale italiano. E del resto, dico questo perché oggi è anche difficile trovare aziende italiane che non siano aziende multinazionali, quindi sono tutte aziende che operano in Italia e che hanno visto espandere le loro attività all’estero. Le aziende italiane oggi sono le aziende che più di ogni altra hanno un attività all’estero, pensate che il sessanta per cento dei fatturati delle aziende a capitale italiano avvengono oggi nei mercati esteri. Ma dicevo prima che, per garantire lo sviluppo del Paese, è molto importante anche il ruolo che i manager delle aziende a capitale estero che operano in Italia oggi hanno nel nostro Paese, perché per esportare bisogna produrre, per fare ricerca bisogna trarre gli investimenti in ricerca nel nostro Paese, e quindi anche questi manager delle aziende a capitale estero, operanti in Italia, hanno avuto la visione di credere di essere in competizione non tra di loro sul mercato italiano, perché questo è una cosa normale, ognuno di noi compete sul proprio mercato. Coglievo inoltre anche quello che diceva sempre Illy o Snaidero prima, che ormai nei mercati la crescita è zero nel nostro Paese, quindi bisogna avere il coraggio di guardare fuori. E noi abbiamo cercato anche di guardare dentro, cercando di sentirci in competizione con i manager delle filiali delle aziende a capitale estero negli altri Paesi, perché questo ci ha aiutato a convincere il management internazionale ad attrarre investimenti nel nostro Paese. L’apertura di impianti produttivi in Italia, se pur finanziata da capitali esteri, a che cosa contribuisce? Contribuisce ad esportare, là dove queste aziende a capitale estero hanno filiali nel resto del mondo, ad esportare quanto produciamo in Italia, e anche qui voglio darvi qualche dato interessante. Si sente spesso parlare dei costi della sanità, i costi di spesa pubblica nel farmaceutico in Italia sono circa dodici miliardi di euro. Pensate che il contributo diretto più l’indotto che l’industria dell’impresa del farmaco dà, è intorno ai dodici miliardi e mezzo, quindi già qui siamo superiori con un contributo di export che è di quattordici miliardi. Quindi a fronte di un totale di ventisei miliardi e mezzo costiamo, per produrre salute, dodici miliardi. E queste sono cose che non si sanno. Però anche qui, nell’ambito dell’internazionalizzazione, non è importante solo la produzione, per noi è fondamentale, e qui trovo anche molta sintonia con quello che diceva Tronconi poco fa, l’importanza della ricerca. Oggi si sente spesso parlare di sostenibilità della spesa pubblica, sostenibilità della spesa sanitaria, sostenibilità della spesa farmaceutica, bisognerebbe anche incominciare a parlare di sostenibilità della ricerca, perché i costi della ricerca sono costi importanti, pensate che nel nostro settore, per sviluppare un farmaco, occorrono circa un miliardo e trecento milioni di investimenti. Un farmaco su diecimila arriva sul mercato e ci occorrono dieci anni per arrivare sul mercato. Quindi sono investimenti che sono sempre meno sostenibili, soprattutto quando c’è una crisi economica come quella che è in atto, perché poi la crisi economica non è solo crisi finanziaria, diventa anche crisi industriale, perché gli investitori hanno sempre meno fiducia, investono meno e di conseguenza si crea un circolo che virtuoso non è e che fa da volano alla crisi. Beh, proprio per questo anche qua è importante il ruolo che hanno le imprese, anche piccole, italiane nel costruire un network di ricerca, perché pensate nel mondo c’è un mercato della ricerca che è pari a circa cinquanta miliardi di dollari. Questo è un mercato che noi non dobbiamo farci scappare, perché poi la ricerca si fa dove ci sono centri di qualità e l’Italia è un centro di eccellenza, è un centro di eccellenza perché ha dei centri in grado di fare ricerca. La ricerca poi noi la facciamo negli enti pubblici, negli ospedali, nelle università che non hanno nulla da invidiare ad altri centri europei, e soprattutto siamo decenni o centinaia di anni avanti alle economie emergenti. Però, volevo chiudere richiamando un po’ il titolo di questo incontro, che è un titolo secondo me straordinario e bellissimo, perché dice che l’esistenza diventa un immensa certezza. Ecco, io vorrei provare a girarlo e chiamarlo in questo modo: un contesto di certezze è necessario per garantire gli investimenti, per garantire l’esistenza. E anche qui mi trovo molto d’accordo con quello che diceva Tronconi sulla presenza e sulle difficoltà che abbiamo noi per fare ricerca. Quando sento che FDA è più veloce, non mi stupisco affatto, perché per noi è la norma; ecco, basterebbe veramente poco per aiutare, anche nell’ambito della ricerca, a dare un volano e questo poco si chiama certezza, perché la certezza ci garantisce l’esistenza. Chiudo dicendo che l’Italia è un grande mercato, perché vi dicevo è il diciassette per cento del mercato europeo, ma prima che un grande mercato nell’ambito del nostro settore, siamo anche un grande Paese di imprenditori e un grande Paese di produzione e di ricerca, perché il venti per cento della produzione europea è fatta in Italia e viene con orgoglio esportata in tutto il mondo, dagli Stati Uniti ai Paesi emergenti, Giappone e Cina e tutti quanti. Grazie.

ENRICO BISCAGLIA:
Grazie, ed ora la parola all’ambasciatore Vattani che, nei diversi incarichi, ha avuto la possibilità di conoscere tutti questi temi in diverse posizioni e con diversi osservatori, quindi lo ascoltiamo con molto interesse.

UMBERTO VATTANI:
Grazie mille Enrico. Prima che iniziassimo questa tavola rotonda Enrico Biscaglia mi ha detto: calcolate circa dieci minuti a testa. Io, quando ero alla Farnesina, ne avevo circa cinque quando dovevo parlare con il Ministro, tre o quattro con il sottosegretario; sono sposato da vari anni e a casa ne ho anche meno e comunque non ho mai l’ultima parola. Quindi ringrazio molto Enrico. E poi ho sentito poco fa Andrea Illy riferire che Edoardo De Filippo è stato forse il migliore ambasciatore per il caffé italiano nel mondo, noi diplomatici siamo sempre un po’ gelosi di questo titolo, ma debbo dire che sentirmi accomunato ad Edoardo De Filippo mi ha fatto molto piacere, grazie davvero.
Qualcuno mi ha detto che gli articoli sulla disoccupazione giovanile apparsi negli ultimi tre mesi hanno superato i mille e cinquecento, il che vuol dire che è veramente una delle preoccupazioni più gravi. Come si risolve la disoccupazione? In un solo modo, con le imprese e facendo crescere le imprese. È perciò giusto che al Meeting questo tema dell’impresa rimanga sempre così centrale. Come cresce l’impresa? Con la domanda, se c’è più domanda di caffé si produce più caffè, se c’è più domanda di mobili o di prodotti farmaceutici, si producono più prodotti farmaceutici. Ma la domanda in Italia è sufficiente? Beh, io credo che se guardiamo al numero di medicine che prendiamo al giorno, o di pantaloni jeans che indossiamo o di scarpe da tennis, francamente non c’è molto spazio per aumentare ciascuno di questi beni. E invece ce n’é molto all’estero, perché Paesi privati di tutto per tanti decenni, come l’India, la Cina, il Brasile, la Russia, hanno in realtà una popolazione giovane, che man mano che vede crescere il proprio reddito aumenta le proprie richieste. E allora bisogna andare all’estero, ma quale estero? Beh, quando ero giovane io, si parlava di estero per parlare di Parigi, Berlino, Londra, ma lì la situazione è molto simile a quella in Italia; bisogna andare in questi nuovi Paesi per l’appunto, dove per tanti anni non ci sono stati beni di consumo. E come ci si va? Beh, certo i voli sono diversi, dieci ore, otto ore, dodici ore di volo, le lingue che si parlano in quei Paesi sono diverse da quelle che abbiamo imparato a scuola, si parla cinese, arabo, russo, giapponese e le abitudini e i mercati sono anch’essi molto diversi ed è per ciò il primo imperativo che si pone ai nostri giovani, bisognerebbe forse dedicarsi di più a quelle lingue, allo studio di quei mercati, a quel tipo di contrattualistica che vige in quei Paesi. E se l’estero è così cambiato in maniera tumultuosa negli ultimi anni, l’Italia non è cambiata anch’essa? È bastato ascoltare alcuni dei relatori per rendersi conto che l’Italia non è solo l’Italia che produce l’alimentare, l’arredo, mobilio, la meccanica, l’abbigliamento e la moda, ma ormai anche la nautica, l’aerospazio, la farmaceutica, le bio e nano tecnologie, l’occhialeria. L’Italia non è come la Scozia che produce solo birra e whisky; se voi guardate alla produzione italiana e la rappresentate con la famosa torta statistica, assomiglia a una ruota di bicicletta. L’Italia produce pressoché tutto e spesso in maniera eccellente, a livelli di qualità molto elevati e allora bisogna forse, per i nostri giovani, anche ristudiare la carta economica dell’Italia, perché se quella politica è sempre la stessa, Rimini è sempre a sud di Forlì e a nord di Pesaro, ma i distretti industriali si sono sviluppati in maniera straordinaria negli ultimi due decenni, per esempio per la biotecnologia la Sardegna è diventata forte, perfino in Umbria c’è un polo aeronautico. E quindi il secondo imperativo è conoscere l’estero, ma conoscere anche la carta economica dell’Italia di oggi. E poi bisogna conoscere altre cose. L’Italia non è come la Germania, non ha tante grandi imprese, ha una miriade di piccole medie imprese che lavorano in distretti, ma che sono di dimensioni comunque piccole; e poi non ha, ed è stato messo in evidenza, come la Francia, una grande catena di distribuzione, non ha Carrefour, non ha Walmart, non ha Ikea, il che vuol dire che per esportare i nostri prodotti occorre in qualche modo un ente che aiuti le piccole medie imprese ad andare all’estero; ma dove all’estero? Bisogna prima di tutto sapere dove esistono le opportunità più interessanti e per far questo occorre qualcuno che analizzi i mercati. Ebbene, diceva poco tempo fa Roberto Snaidero, c’è un ente che per ottantacinque anni ha svolto questa azione di informazione e di assistenza ed è l’ICE e ne parlo volentieri, perché non è stato inventato da un burocrate, è stato creato da un grande imprenditore italiano che prende il nome di Leopoldo Pirelli, esattamente ottantacinque anni fa, nel luglio del 1926; ebbene, io ritengo un grave errore aver buttato alle ortiche un marchio che ha ottantacinque anni, perché vuol dire che è costato molto al Paese in termini finanziari e di impegno personale. E come diceva Andrea Illy un minuto fa, un marchio è quello che fa la differenza, perché altrimenti una tazzina di caffé è uguale a un’altra tazzina di caffè, ma se c’è scritto Illy è una cosa diversa, tu bevi quella tazzina di caffé e ti senti rinascere; così come una bottiglia di vino, possono sempre essere duemila millilitri, ma il vino italiano ha duemila anni di storia e questo è dovuto a un marchio che si è creato nel tempo. Quindi buttare a monte un marchio di ottantacinque anni è una cosa dissennata. Che cosa occorre per un Paese che ha tanti piccoli imprenditori di grandissime capacità e tante produzioni diverse? Occorre un ente, come ce l’hanno tutti i Paesi, che aiuti questi imprenditori a partecipare alle grandi fiere internazionali. Il Meeting a modo suo è un grande luogo di incontro, le fiere internazionali lo sono nello stesso modo; e quindi occorre che un ente si aggiudichi gli spazi più opportuni, li allestisca e faccia delle campagne di promozione e di incontri, esattamente come fa anche la Compagnia delle Opere, perché noi con la Compagnia delle Opere abbiamo organizzato e organizziamo regolarmente a Milano i famosi Matching, che non sono altro che incontri tra imprenditori italiani e imprenditori stranieri. Un’altra cosa che fanno questo enti promozionali, come l’ICE, sono gli accordi. Noi abbiamo fatto un accordo con Miami, la nautica, perché siamo il più grande Paese per la nautica insieme agli Stati Uniti, e allora facendo un accordo con gli Stati Uniti ci assicuriamo una posizione di privilegio in Florida, così come consentiamo loro di disporre di una posizione di privilegio a Genova, che è l’altra grande rassegna fieristica. Ma per i giovani, e mi riferisco a loro, quelli che oggi appartengono alla laptop generation, cioè a quella generazione che usa i computer con enorme facilità, con grande abilità, noi abbiamo fatto ricorso a loro per le nostre campagne promozionali, perché sono molto più bravi di noi a far muovere le immagini e a creare spot attraenti per il made in Italy, al punto che con loro, giocando con le parole “made in Italy”, che vuol dire sinonimo di classe, di eleganza, di stile, noi abbiamo rovesciato l’espressione e abbiamo detto “Italy made in art”, cioè l’Italia come opera d’arte, e lo abbiamo fatto insieme molto spesso a Assearredo e Federlegno, proprio approfittando della grande expo a Shanghai, utilizzando non soltanto artisti italiani ma anche artisti cinesi, che hanno rappresentato il design italiano, facendolo apparire una nuova forma di arte. Ecco, io ho voluto dirvi questo, perché…è soprattutto per i giovani che si aprono delle prospettive per portare all’estero e per esportare all’estero e far meglio conoscere i prodotti italiani. Noi con i corsi di formazione, che hanno quarantacinque anni, all’ICE, abbiamo formato oltre duemilaottocento ragazzi e ragazze, che sono diventati, quasi sempre, export manager in queste piccole medie industrie italiane; e sono oltre diecimila gli stagisti che hanno lavorato nei nostri uffici all’estero. Se posso dare loro un consiglio, di fronte alle difficoltà di trovare un lavoro, o per lo meno di iniziare anche uno stage, è quello di non mollare, perché l’esperienza che io ho fatto, personalmente, è stata spesso quella di trovarmi di fronte a una grossa difficoltà che avrebbe potuto scoraggiarmi e invece il consiglio che vorrei dare loro è proprio quello di non mollare mai, né la prima, né la seconda, né la terza volta, perché probabilmente sarà la quarta quella che vi porterà fortuna. Buona chance a tutti!

ENRICO BISCAGLIA:
Grazie, grazie Umberto. Ed ora la parola all’onorevole Vignali.

RAFFAELLO VIGNALI:
Buon giorno a tutti. Ci sono tante… son tanti gli spunti, però permettete anche a me di ricordare, come ha fatto prima Roberto Snaidero, Rosario Messina, perché il nome non è noto magari a tanti che sono qui. È noto quella della sua azienda, la Flou, che è uno dei grandi marchi del nostro made in Italy. Ma alla sua azienda io credo che dedicasse non più della metà del suo tempo, perché l’altra metà del suo tempo, almeno, la dedicava esattamente a promuovere nel mondo, con una passione, un entusiasmo straordinario, tutto il comparto di cui lui faceva parte, il legno e l’arredamento. E era uno stimolo fra l’altro continuo per tutti e credo che sia un esempio di quella dimensione a cui ci ha richiamato il primo giorno del Meeting il Presidente della Repubblica, che è la responsabilità. E quindi insomma credo doveroso un applauso.
Allora, l’impresa italiana nel mondo. L’internazionalizzazione è una necessità. Fra l’altro, se guardiamo i dati economici italiani, i 2/3 del nostro PIL sono i consumi, e i consumi, purtroppo, interni sono abbastanza piatti. 1/3 è export: noi la crescita, anche nell’ultimo anno, che abbiamo fatto, l’abbiamo fatta sull’export, così come la Germania, la sua crescita, molto più consistente della nostra, l’ha fatta sull’export. Quindi se noi vogliamo pensare non solo alla stabilità, come è giusto che facciamo, ma anche alla crescita, non possiamo, come politica, non affrontare seriamente il tema dell’internazionalizzazione delle nostre imprese. Non ripeto cose già dette sul nostro sistema delle imprese: l’hanno detto molto bene, l’hanno descritto molto bene sia Umberto Vattani che gli altri che sono intervenuti e ognuno dal proprio punto di vista: non solo la produzione ma anche i servizi. C’è una domanda di sanità straordinaria nel mondo, e il nostro sistema sanitario è uno dei migliori del mondo, anche dal punto di vista organizzativo, oltre che della cura. E c’è uno spazio enorme per chi vuole affrontare questi nuovi mondi. Nello stesso tempo è finita, io credo, un po’ quella moda che era presente 10 anni fa, in cui sembrava che internazionalizzarsi volesse dire delocalizzare in modo selvaggio, cioè chiudere qui per aprire altrove, con l’unico obiettivo di abbassare il costo della manodopera, come se quello fosse il fattore decisivo del nostro sistema di impresa. Chi l’ha fatto è morto, molti sono tornati indietro. Ha vinto chi? Ha vinto chi, come le aziende che sono a questo tavolo hanno… c’era qualcuno che l’aveva capito da un pezzo: la Farmaceutica l’ha sempre capito, anche le altre aziende che sono qui l’hanno sempre saputo. Ma tutti hanno capito che bisognava puntare su altri fattori, sulla qualità, sul nostro saper fare le cose come non sa fare nessun altro, sulla nostra capacità unica al mondo di unire il bello e l’utile, che è la nostra forza. Fra l’altro, dal 2001 al 2010, le imprese italiane che si sono internazionalizzate sono più che raddoppiate, quindi non è che in questi anni siamo stati fermi. C’è stato un rallentamento con i primi due anni della crisi, ma c’è già di nuovo una grande ripresa. Non mi fermo su altre considerazioni. A volte si dice il problema dei dazi, queste cose… io raccontavo sempre anche in altri… quando facevo altri… in altri ruoli, prima di questo, quando c’era il dibattito sui dazi, vi ricordate nel 2004?, citavo l’esempio di un mio amico che si chiama Mario Preve, che è amico anche di tanti altri qui, che un giorno… che si occupa di riso. Un giorno lo chiamò l’ambasciatore Vattani che gli disse: guarda, dobbiamo fare uno stand alla fiera cinese, abbiamo ancora un posto, perché non vieni tu? Dice: io cosa vado a fare in Cina? Però va beh, se non altro vado a vedere i miei competitor. C’erano anche altre aziende dell’agroalimentare, non so, quelle che facevano i salumi… i cinesi, mi raccontava, non erano proprio entusiasti dei salumi, perché per loro sono cose un po’ strane, mentre il riso sapevano cos’era. Questo, questa persona, la sua azienda… posso fare il nome, intanto qui la pubblicità si può fare, Riso Gallo, ha iniziato a fare il risotto con i prodotti degli altri. I cinesi sono impazziti, c’era la coda… oggi, ma da subito, Riso Gallo vende il riso ai cinesi. Ecco, noi facciamo esattamente queste cose, abbiamo aziende che fanno i kiwi in Romagna e li vendono ai Neozelandesi; vicino a casa mia, a Calolziocorte, c’è un giovane imprenditore che fa dei termosifoni straordinari e li vende agli arabi… sto aspettando di trovare quello che vende il frigorifero agli eschimesi, ma, secondo me, se c’è uno in Italia che fa i frigoriferi, glielo vende. Quindi il nostro è un tessuto straordinario. Allora, cosa, a fronte di questo, possiamo fare? Cosa può fare la politica? Io condivido pienamente quello che diceva Tronconi: la miglior politica, e l’unica politica, è la sussidiarietà. Sussidiarietà significa partire da quello che c’è, riconoscere il positivo che c’è e valorizzarlo, sostenerlo. Che vuol dire anche più libertà, compresa la certezza delle norme, dei tempi, sono presupposti fondamentali. Intanto abbiamo un sistema di imprese che fanno rete fra loro, ne abbiamo sentiti anche dei casi adesso. In varie forme. Io penso… qualche anno fa, sempre ai primi degli anni 2000, no?, con l’avvento proprio della globalizzazione, da quando la Cina è entrata nel WTO, alcuni guru dalle colonne dei giornali pontificavano che il nostro sistema manifatturiero era finito. E mi ricordo che citavano sempre un caso, che tra l’altro mi sta a cuore perché è vicino a casa e poi sono amici, che sono quelli di Premana. Premana c’è un piccolo distretto e fa le forbici e i coltelli. È un Paese di 2300 abitanti, 190 aziende, fanno tutti forbici e coltelli a mille metri, a un’ora e un quarto da Lecco. E i guru lo portavano come esempio del primo distretto che sarebbe morto. In questi anni hanno fatto sempre più 10%. Perché? Perché hanno avuto il coraggio e l’intelligenza di mettersi insieme, di fare rete, di fare un marchio comune, perché è chiaro che qualche azienda di queste aveva un marchio, ma le altre no. La Montana, che è lì, ha un marchio, ma le altre no. E hanno fatto un marchio comune e un’unica rete vendita all’estero: oggi vendono in tutto il mondo. Così come – invece su questo c’è più da lavorare – bisogna ricostituire, qualcuno lo diceva prima, la rete tra la grande e la piccola impresa. Se uno va a Belo Horizonte, vede che intorno alla FIAT c’è una serie di aziende che la FIAT si portò dietro quando andò là e che nel frattempo sono cresciute, perché la grande azienda è un grande driver di internazionalizzazione per i piccoli. Questo purtroppo s’è un po’ perso. A me capita di vedere grandi aziende che vanno ma vanno da sole. E non portano dietro… dietro il famoso indotto. E questo è fondamentale anche proprio per aiutare le imprese più piccole a crescere, a internazionalizzarsi. Mi raccontava un amico imprenditore che si occupa di collanti, Giorgio Squinzi, quello della Mapei, che il suo sviluppo internazionale è stato molto dovuto al distretto ceramico di Sassuolo. Perché è chiaro che se uno porta dietro le piastrelle, quello che fa i collanti… fra l’altro in questa fase in cui le piastrelle vanno meno bene, le cose si sono invertite: è lui che sta aiutando quelli della ceramica. Quindi tener più conto di questi… quelli che vanno in giro per il mondo a fare edilizia, se tenessero presente che noi abbiamo un sistema del legno-arredo sarebbe meglio. E poi dentro agli arredi della cucina è meglio avere il caffé Illy, le posate di Premana, no?, insomma, sarebbe un bel… un ulteriore modo di fare rete. Poi ci sono le reti del web, ma ci sono anche le reti associative, che spesso si dimenticano. FederlegnoArredo è una straordinaria rete per l’internazionalizzazione. Compagnia delle Opere è una straordinaria rete di internazionalizzazione. Poi ci sono le reti del credito, queste non… ce le scordiamo spesso. Anch’io, dopo ci torno sopra, sono uno di quelli che ha detto che chiudere l’ICE, è stata una cosa sbagliata, e lo ridico, anche se lo ha fatto il Governo che io evidentemente sostengo. Però, pensate alla Polonia. Abbiamo una banca italiana che è internazionalizzata, che si chiama UniCredit, che ha l’80% degli sportelli in Polonia. Con tutto il rispetto per l’ICE, può fare più UniCredit che chiunque altro, che l’ambasciatore. Ma credo che su questo anche Umberto Vattani, che poi fra l’altro ha lavorato molto con le banche, sia assolutamente d’accordo. Mi raccontavano che fino a due anni fa, ad esempio, (cito un esempio ma perché così ci si capisce, per capire anche come la politica può favorire senza nemmeno aver costi, perché tante volte non è detto che sia un problema di risorse economiche, è un problema, come per gli imprenditori, è più un problema di materia grigia, di far girare le rotelline del cervello che non mettere soldi), fino a 2 anni fa, il 60% degli agrumi che si vendevano in Polonia erano spagnoli. Non si vendeva un agrume italiano. Assieme alle associazioni di imprese della Sicilia, UniCredit ha portato le imprese degli agrumi siciliane a incontrare i buyer polacchi in Polonia, I buyer polacchi che erano clienti di UniCredit, i “pekao” come si chiamano lì. A due anni, a distanza di due anni, il 60% degli agrumi che si vendono in Polonia sono siciliani. Questo si può replicare su tantissimi altri fronti. E, ripeto, non è una questione di risorse, però è una cosa da perseguire. Quindi innanzitutto valorizzare le reti, si è cercato di farlo in questi anni, adesso vado un po’ più veloce, chiedo scusa che è tardi, ho visto lo sguardo obliquo di Enrico Biscaglia. Tutte le norme sulle reti, fino al sostegno fiscale per le reti… molte delle reti di impresa che sono nate fra l’altro riguardano proprio l’internazionalizzazione. E bisognerà andare avanti su questa strada, proprio perché la rete di impresa è quella che dà quella massa critica che da sola la piccola impresa non ha, e che invece le dà quel fisico, pur mantenendo l’individualità, giusta individualità personale – perché i nostri imprenditori sono imprenditori, non vogliono fare i dirigenti, vogliono far gli imprenditori, ed è bene che sia così, perché questo è positivo e non è un male – ma la rete gli dà quella massa fisica che gli permette di affrontare un mondo che è diventato grandissimo. Secondo: bisogna mettere a punto gli strumenti. Per questo io sono contrario, sono stato contrario alla chiusura dell’ICE. Intanto perché ogni grande Paese un’ICE ce l’ha, e, se ce l’hanno, forse un motivo c’è, e poi perché il problema non sono gli strumenti in sé ma sono gli obiettivi. Io credo che, se ci si mette intorno a un tavolo (adesso il Ministro Romani ha convocato per la prossima settimana il tavolo con le associazioni proprio per lavorare sull’internazionalizzazione), dipende da quali sono gli obiettivi che ci diamo. Poi su questo discutiamo degli strumenti. Ad esempio: se vogliamo aumentare la quota di internazionalizzazione delle piccole imprese, anche delle medie imprese, bisognerà chiedere a Sace che si occupi anche di quelle e non solo delle grandi. Oggi si occupa solo delle grandi. La Sace è lo strumento, è uno strumento assicurativo indispensabile. Simest già di più sta lavorando con le piccole e medie imprese. Ma anche qui si può andare molto avanti. Anche l’ICE aveva tanti aspetti positivi. Bisogna sempre stare attenti a non buttare l’acqua sporca con il bambino. Soprattutto a buttare via il bambino, l’acqua sporca va bene, ma quello… sono da riorientare meglio gli strumenti? Riorientiamoli. Ma se li chiudiamo non è che li riorientiamo. Ci mutiliamo, perché gli strumenti servono per fare. Ad esempio, la Sace potrebbe dare meno utili al Tesoro e reinvestirli un po’di più per le imprese, perché, se è una società pubblica, non è che noi la misuriamo sugli utili che fa. Non vogliamo che perda, se fa utili va bene, ma vorremmo che li reinvestisse, visto che l’internazionalizzazione è una delle frontiere strategiche. Lo stesso vale anche, e su questo sono d’accordissimo, per il fatto che bisogna trovare più sinergia tra i soggetti che fanno internazionalizzazione, da quelli centrali, le regioni, le province… ormai ci sono anche i comuni che fanno… ci sono anche delle best-practices. Ad esempio, io credo che quello che si fa in Lombardia col sistema dei voucher, quindi il finanziamento all’impresa che, poi se si mettono insieme gli si dà anche di più, sia un buon metodo, perché io mi fido più dell’imprenditore che di un ente. L’imprenditore, se il servizio che gli dà l’ICE in quel Paese, Promos in quel Paese o quell’altra realtà in quel Paese, lo ritiene valido, lo spende lì, se no, no. Se no, no. Chiudo, e vado veloce. Quindi abbiamo bisogno di far rete anche tra le istituzioni. Ultimo aspetto, che però credo che sia importante, è la questione del made in Italy, la famosa vicenda made in Italy, anche perché è un tema caldo. Noi stiamo cercando, in Europa, di portare a casa il provvedimento sul made in Italy. È difficilissimo: in Italia l’abbiamo approvato ma sappiamo che molti stati sono contrari, utilizzando impropriamente il problema della concorrenza, che non c’entra in realtà, per i propri interessi, come capita spesso che l’Europa faccia. Abbiamo l’ostilità di alcuni Paesi commerciali e abbiamo due fronti, uno è il made in Italy e l’altro è il cosiddetto regolamento made in – perché anche l’Europa per noi è un grande mercato, che dovremmo prima o poi considerare domestico, ma è internazionale ancora oggi – che riguarda la tracciabilità di tutte le merci non europee che vengono importate in Europa. È giusto che un consumatore sappia se una cucina è fatta in Cina o è fatta in Brianza, perché c’è una bella differenza. Se il caffé lo fa Illy o se il caffé lo fa un altro, che magari non lo fa propriamente come lo fa Illy, per cui magari può anche essere che sia dannoso alla salute. Perché abbiamo tanti di questi casi nell’alimentare, nel farmaceutico, nell’abbigliamento, ma anche negli arredi, perché se si usano vernici tossiche che da noi sono vietate, poi è un danno alla salute che diventa anche un costo per il Paese. Ma intanto io ho proposto al mio amico, e chiudo, Massimo Calearo, che ha un nuovo ruolo come consigliere del presidente Berlusconi, e l’ho proposto anche a Romani (adesso presenterò più dettagliatamente la proposta) l’idea di fare, intanto che continuiamo a combattere in Europa per portarlo a casa, un marchio governativo che indichi l’origine italiana, registrato dal Governo italiano, quindi un marchio di qualità. Questo non lede la concorrenza, ma dà a quelle imprese che producono le cose qui e in un certo modo, una tutela sana dei loro prodotti. Perché i nostri imprenditori, e chiudo, hanno fatto la fatica in questi anni di innovare, di cercare la qualità. Adesso non l’ha detto, ma Andrea Illy fa da anni ricerca sul DNA del caffè. Lo dicevo prima all’amico Scaccabarozzi: guarda che siete più simili di quel che credete, perché qui fate tutt’e due ricerche sul DNA. Ma se le nostre imprese, chiudo, hanno fatto questo sforzo di investire sulla qualità, io credo che la politica, lo stato, l’Italia, se vuole continuare a essere, come mi auguro, un Paese manifatturiero, ripeto, unico al mondo, ha il dovere di proteggere, non per protezionismo ma per una giusta valorizzazione, chi fa le cose qui e in un certo modo, perché, comunque sia, dalla produzione, da questo modo di fare, noi abbiamo ancora 30 anni, 40 anni, 50 anni, 100 anni di grande sviluppo. Bisogna che ci crediamo fino in fondo.

ENRICO BISCAGLIA:
Ringrazio tutti i relatori che ci hanno aiutato a capire su che cosa nasce l’impresa italiana nel mondo, su quella cultura del vivere che è buona per noi e piace a tutti. Il nostro augurio, il mio augurio con cui concludo, è che l’Italia mantenga queste origini che ciascuno di loro ci ha ricordato, le proprie radici. E quindi, Vattani permettendo, ci faccia tutti ambasciatori di questa cultura nel mondo. Grazie.

(Trascrizione non rivista dai relatori)