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IL MONDO DEI NUMERI: CONOSCERE PER GOVERNARE
Il mondo dei numeri: conoscere per governare
24/08/2011 - ore 15.00 In collaborazione con Unioncamere. Partecipano: Andrea Cammelli, Professore di Statistica Sociale all'Università degli Studi di Bologna e Direttore di AlmaLaurea; Enrico Giovannini, Presidente di ISTAT. Introduce Carlo Lauro, Professore Ordinario di Statistica all'Università Federico II di Napoli e Responsabile Area Ricerche Fondazione per la Sussidiarietà.
In collaborazione con Unioncamere. Partecipano: Andrea Cammelli, Professore di Statistica Sociale all’Università degli Studi di Bologna e Direttore di AlmaLaurea; Enrico Giovannini, Presidente di ISTAT. Introduce Carlo Lauro, Professore Ordinario di Statistica all’Università Federico II di Napoli e Responsabile Area Ricerche Fondazione per la Sussidiarietà.
CARLO LAURO:
Benvenuti a questa sessione del Meeting che riguarda “Il mondo dei numeri. Conoscere per governare”. Il presente incontro dedicato all’uso dei dati, ossia dei numeri per valutare e decidere, si ispira ad una famosa frase attribuita a Luigi Einaudi, Presidente della Repubblica Italiana negli anni 1948-1955.
“Conoscere per decidere” diventa oggi un imperativo più che mai attuale: i governi, le imprese, i cittadini hanno bisogno di una adeguata cultura statistica. Capire i numeri per queste categorie diventa imprescindibile per progredire nella prospettiva del bene comune. È attraverso concetti statistici che si misurano, per esempio, il benessere di una comunità, il grado di mantenimento degli obiettivi di stabilità nell’Europa dell’euro, ma anche scolarizzazione, livelli di povertà, degrado ambientale, cioè successi e insuccessi rispetto ai grandi obiettivi al 2015 che l’umanità si è data attraverso le Nazioni Unite.
Obiettivo di questo incontro, che avviene nell’Anno mondiale della statistica, è quello di contribuire alla diffusione della cultura della statistica stessa.
È prevalente nel nostro Paese, la cultura del dire rispetto a quella del fare, della parola rispetto al risultato. Questo non aiuta il diffondersi di atteggiamenti orientati a ricercare dati, a rilevarli se non siano disponibili, a utilizzarli nei percorsi decisionali. Il fatto è che le statistiche sono ritenute spesso fastidiose, perché impongono trasparenza delle decisioni e delle azioni; perché costringono a confrontare i desideri con i vincoli; perché smascherano gli annunci e le promesse senza seguito; perché consentono di sottoporre l’operato a valutazione e controllo. Per tali motivi il policy-maker spesso mette in discussione l’attendibilità delle statistiche.
In sede internazionale, accanto al concetto di literacy ossia la capacità di esprimersi, comprendere, entrare in rapporto con gli altri mediante la lingua scritta e parlata, si è fatto strada e occupa ormai uno spazio proprio anche quello di numeracy.
Per numeracy si intende la capacità di comprendere, valutare e usare dati quantitativi e qualitativi presentati sotto forma di tabelle e grafici ed eventualmente sintetizzati con opportuni indici. La statistica è evidentemente una componente essenziale della numeracy. Comprendere il contenuto di un grafico o di una tabella su un quotidiano, valutare il messaggio di un manifesto elettorale che riporti dati statistici, consultare e utilizzare dati a sostegno di decisioni da prendere comprendere la portata dei parametri di Maastricht sono esempi concreti della numeracy di una persona.
Per introdurre il tema di questo incontro, prima passare la parola agli illustri ospiti i professori Enrico Giovannini, Presidente dell’ Istituto Nazionale di Statistica, ed Andrea Cammelli Direttore di Alma Laurea, mi limiterò a trattare alcuni punti significativi di questo’affascinante mondo dei “numeri” con particolare riferimento ai seguenti aspetti:
Definizione di Statistica; Dati, informazione, conoscenza; Statistica e decisioni; Statistica e valutazione; Statistica e democrazia.
Negli ultimi secoli, c’è chi, come Quetelet, ha definito la Statistica come la regina delle scienze e chi invece la definisce più banalmente come una tecnica al servizio di altri rami della conoscenza. Da qui una serie di definizioni utilizzate dagli addetti ai lavori e nei manuali di Statistica tra le quali la più ricorrente, “La Statistica è la scienza che ha per scopo la conoscenza quantitativa dei fenomeni collettivi”, stabilisce chiaramente il legame tra questa disciplina e la conoscenza.
Nonostante gli sforzi realizzati in tutti questi anni per trovare una definizione univoca di Statistica, la definizione di Statistica tra i non addetti ai lavori, coincide purtroppo, ancora con quella dei “due polli” data da Trilussa quasi un secolo fa: “… Me spiego: da li conti che se fanno – secondo le statistiche d’adesso – risurta che te toca un pollo all’anno: – e, se questo nun entra ne le spese tue, – t’entra ne la Statistica lo stesso – perché c’è un antro che ne magna due”.
Lo stesso statista americano Disraeli sottolineava una stretta relazione tra Statistica e bugia (“.. ci sono tre modi di mentire le bugie, le menzogne e le statistiche”) togliendo qualsiasi importanza alla conoscenza ottenuta attraverso la Statistica.
Per rimuovere questa cattiva nomea alla Statistica, basta però pensare che ciascuno di noi, anche se in modo inconscio, finisce per trasformare le informazioni raccolte durante la propria esperienza di vita in conoscenza secondo una modalità che è tipica dell’approccio statistico.
La Statistica è pertanto un modus operandi, che consente di estrarre in modo scientifico la conoscenza della realtà che ci circonda, ma allo stesso tempo, una volta spiegato il fenomeno oggetto di analisi, consente di prendere la decisione “migliore” definendone in modo “illuminato”, la probabilità di successo, con la coscienza che l’insuccesso può sempre verificarsi!
Però informazione non è conoscenza affermava Albert Einstein. Proviamo a chiarire questo punto.
Un dato è il risultato di una misurazione su un’unità (un individuo, una famiglia, un impresa, un ente, etc.) appartenente a una data collettività.
Con il termine “statistiche” ci si riferisce normalmente ai dati prodotti o diffusi, tipicamente in forma aggregata, da soggetti istituzionali, nazionali, sopranazionali e internazionali: in Italia, dall’Istituto Nazionale di Statistica, meglio noto come ISTAT, e da altri soggetti del Sistema statistico nazionale (SISTAN).
I dati statistici possono provenire da una rilevazione appositamente eseguita o dall’elaborazione, finalizzata a scopo statistico, di dati raccolti all’interno di procedimenti di tipo amministrativo (es. l’iscrizione dei nuovi nati all’anagrafe; il ricovero in un ospedale). I dati possono essere resi disponibili ad altri (e in generale lo sono se vengono prodotti da un soggetto pubblico) o nella forma rilevata o, più
frequentemente, mediante tabelle e grafici in modo da migliorarne la leggibilità. Oggi, la disponibilità è realizzata anche attraverso la comunicazione per via telematica o consentendo l’accesso a banche dati. Perché i dati si trasformino in informazione è necessaria una transazione e in particolare occorre che il soggetto al quale sono stati destinati, o che li acquisisca per propria iniziativa, ne colga il significato e, possibilmente, li utilizzi.
In altri termini, si possono produrre dati statistici, ma non si produce informazione statistica se non con l’intento di comunicare significato e suscitare un’interazione con il soggetto ricettore. L’informazione acquista maggiore valore quanto più si diffonde e viene utilizzata. L’autorevolezza della fonte gioca un ruolo fondamentale…
L’informazione, interagendo con quella disponibile da altre fonti e con l’accumulazione precedente delle persone, diviene conoscenza e risulterà idonea ad affrontare problemi ed esplorare campi differenti da quelli per i quali era stata originariamente prodotta.
Proviamo ad evidenziare questo importante uso della statistica e delle statistiche attraverso alcuni esempi.
Le persone, le famiglie, le imprese, le amministrazioni pubbliche, prendono costantemente decisioni. Per la maggior parte di esse l’esito è incerto, nel senso che non si sa con precisione che cosa ne deriverà, anche se l’aspettativa è che determineranno gli effetti (positivi) sperati. Le decisioni sarebbero migliori e gli effetti prevedibilmente più vicini a quelli desiderati se esse fossero assunte sulla base di dati statistici pertinenti riguardo al contesto decisionale.
Ecco qualche esempio.
Uno studente che si diploma quest’anno deve scegliere la facoltà e il corso di laurea
universitari ai quali iscriversi. Forse avrà già maturato una vocazione riguardo alla sua futura professione, oppure gli studi fatti hanno confermato la predisposizione verso particolari discipline, oppure una consolidata tradizione familiare gli consiglia di seguire la professione paterna. In questi casi l’incertezza della scelta sarà fortemente ridotta. Se però lo studente non ha vocazioni autentiche o non è orientato altrimenti a specifiche scelte, vorrà forse sapere qualcosa sugli esiti professionali dei laureati. Lo soccorrono in questa prospettiva le informazioni rese disponibili dall’Istituto nazionale di statistica, l’Istat o da Alma Laurea che, periodicamente, svolge una specifica indagine.
Una famiglia chiamata ad operare le proprie scelte mediante l’uso dei voucher sull’educazione dei propri figli, sul ricorso ad idonee strutture ospedaliere o su altri servizi di pubblica utilità., mediante l’uso dei voucher, abbisognerà del supporto di adeguate informazioni statistiche sulle performance di chi eroga tali servizi potendo così superare il noto gap delle asimmetrie informative.
Un’azienda di distribuzione, per esempio una catena di supermercati, vuole aprire un nuovo punto di vendita in una grande città e deve scegliere la localizzazione migliore. o farà utilizzando e analizzando numerosi dati statistici relativi alla densità della popolazione nei diversi quartieri, alla presenza di famiglie giovani, alla presenza di bambini con età inferiore a sei anni (se è interessata a vendere a questa categoria di consumatori), alla presenza di scuole, di uffici, di altri supermercati e punti di vendita al dettaglio. Riuscirà così a prendere una decisione documentata che prevedibilmente si rivelerà migliore di altre.
Il Governo, il Parlamento sono chiamati a fare scelte, a prendere decisioni: per
questo si sono dotati di apparati di produzione statistica (il Sistema statistico
nazionale e in primo luogo.
Una forte diminuzione delle nascite consiglierà politiche di consolidamento del personale l’emergere fra i bambini della componente extra-comunitaria (segnalerà esigenze di revisione dei programmi in direzione multietnica e, più in generale, politiche di integrazione scolastica. Su un altro versante i dati statistici riferiti alla presenza dei prodotti italiani sui mercati esteri suggeriranno azioni di sostegno all’esportazione o interventi per promuovere l’innovazione e la competitività delle imprese.
In ambito pubblico, dati statistici sostengono le decisioni politiche, le scelte
amministrative, i programmi e i progetti. A tal fine assumono un ruolo determinante valutazioni supportate da idonee informazioni e apposite metodologie statistiche.
Le valutazioni possono essere preliminari (ex ante), successive (ex post) o intervenire durante l’esecuzione delle azioni (in itinere).
Ex ante, i dati statistici servono per simulare, attraverso opportuni modelli, gli effetti
di scelte alternative, per valutare il prevedibile impatto dei provvedimenti ipotizzati.
E assumere le decisioni migliori, più efficaci e compatibilmente più economiche.
Nel caso di programmi, progetti, azioni amministrative, è importante eseguire anche
valutazioni in itinere, nel corso cioè degli interventi è possibile così effettuare il monitoraggio (controllo dell’andamento) delle azioni e mettere in atto eventuali correttivi per migliorarne gli effetti.
La valutazione ex post viene effettuata al termine dell’intervento. Si avvale anch’essa di dati statistici ottenuti a partire da quelli amministrativi; inoltre, è sostenuta da rilevazioni e indagini statistiche effettuate ad hoc. Vengono prodotte così informazioni sui risultati, sui costi sostenuti, sulla validità delle soluzioni organizzative adottate. Sulla base di queste valutazioni è quindi possibile rendere conto ai cittadini e in generale ai soggetti interessati e alimentare meccanismi di retro-azione che consentano di operare meglio successivamente.
Il termine statistica nasce nel Seicento e deriva da stato (che riguarda lo stato, che
concerne la vita dello stato). In quel periodo si cominciò a produrre i primi dati statistici con carattere di continuità. I dati costituivano un segreto di stato, erano noti soltanto al gruppo di governo ed erano nascosti alla popolazione. Soltanto intorno al 1830 si è cominciato a diffondere dati economici e sociali. E’ da notare come in Occidente questo processo ha accompagnato la diffusione della democrazia.
In una società democratica, nella quale l’uguaglianza delle opportunità costituisce un valore, lo stato si fa carico di colmare la posizione di svantaggio (di compensare le asimmetrie informative) dei soggetti più deboli, non soltanto dei cittadini, ma anche delle imprese più piccole, dei gruppi sociali meno favoriti i quali non sarebbero in grado di acquistare sul mercato o di produrre in proprio i dati statistici di cui avessero bisogno.
Sotto un diverso punto di vista, mettere a disposizione di tutti le stesse informazioni
di cui si avvalgono i governi a ogni livello (nazionale, regionale, locale) consente di valutare i risultati (l’efficienza, l’efficacia, l’economicità) dell’azione pubblica. Infine, è oggi considerata importante la partecipazione dei cittadini ai processi di decisione, alle scelte pubbliche. Per dare a quest’enunciazione un reale contenuto, occorre che siano predisposte informazioni statistiche pertinenti, dettagliate per i livelli territoriali ai quali trova sintesi politica la loro volontà. Possiamo dunque concluder affermando che: Informazione statistica s’intreccia profondamente con democrazia.
E qui finisce il mio compito introduttivo. Ma prima di passare la parola agli amici e colleghi, Giovannini e Andrea Cammelli, desideravo dirvi che il testo che vi ho letto è parzialmente ispirato ad un ipertesto che potete trovare, in caso voleste approfondire, sul sito dell’Istituto Nazionale di Statistica. Sullo stesso sito dell’ISTAT, come su quello di AlmaLaurea, potrete soddisfare tutte le vostre curiosità sul mondo dei numeri che verranno suscitate dai nostri due relatori. In particolare voglio segnalarvi che alla fine delle loro relazioni, Enrico Giovanni e Andrea Cammelli saranno disponibili a rispondere anche ad alcune delle vostre domande. L’invito è di approfittarne ed iniziare così il vostro viaggio in questo affascinante mondo dei numeri e della conoscenza. Grazie. Allora do la parola al professor Giovannini che ci intratterrà sul tema Italia: ieri, oggi e domani, con particolare focus sul Welfare.
ENRICO GIOVANNINI:
Grazie Carlo, grazie a chi è venuto oggi. Vorrei cominciare subito con una domanda provocatoria: facciamo un po’ di statistica, alzi la mano chi pensa che la situazione dell’Italia è negativa in questa fase. Giù le mani. Alzi la mano chi pensa che la situazione della propria famiglia, la vostra situazione individuale sia negativa, alzi la mano. E chi la fa l’Italia, allora? Credo abbiano alzato la mano dieci, dodici persone, la seconda volta, quasi tutti la prima volta. Ma su che basi vi siete convinti che la situazione italiana sia difficile? Perché vedete, il titolo di questo incontro, “E l’esistenza diventa un’immensa certezza”, quando ho letto, mi ha fatto venire in mente che qualcuno avrà sbagliato qualcosa, perché insomma in questo momento parlare di certezze sembra veramente, quello che si dice un ossimoro, qualcosa di strano. Però quello che abbiamo appena visto un attimo fa, che siamo convinti che le cose vanno molto male e che però nel mio piccolo tutto sommato non è così, spiega per quale arcana ragione la statistica sia importante. Perché la statistica è stata inventata per andare al di là di quello che ognuno di noi può osservare nel mondo che lo circonda, perché se ognuno di noi si potesse fare un’idea dell’età media delle migliaia di persone che sono qui intorno o di quanto sono in salute o di quanto sono ricchi o di quanto sono poveri, quale titolo di studio hanno, semplicemente provando a parlare con le persone, noi statistici faremmo qualche cosa d’altro e forse ci divertiremmo anche di più. Il paradosso però, ma qui faccio solo un riferimento così vi offro subito il fianco alle domande dopo, è che tutti abbiamo la convinzione di sapere qual è il tasso d’inflazione, chiaramente non quello dell’ISTAT, e quindi siamo convinti di saperla più lunga di un istituto che rileva 500.000 prezzi al mese. Credo che nessuno di noi, neanche se ci mettessimo tutti insieme, riuscirebbe ad avere un’idea di 500.000 prezzi ogni mese. Ma andatelo a dire agli italiani che l’inflazione è quella dell’ISTAT invece che… Allora questo problema è un problema serio e perché è un problema serio? Mi piace citare Enzo Bianchi, lo citerò all’inizio e poi alla fine, in questo bellissimo suo libro, Ogni cosa alla sua stagione. Parlando dei giorni del presepe, Enzo Bianchi scrive: “quei giorni” cioè i giorni delle feste, “in cui viene quasi spontaneo, se non ci si lascia stordire dall’ottundimento di chi si chiude in se stesso, leggere i segni dei tempi anche nella loro dimensione negativa”. Sentirete parlare, ammoniva Gesù, di guerre, di rumori di guerre, terremoti, carestie in vari luoghi. Tutti segni purtroppo ancora attualissimi, nonostante i nostri sforzi di rimozione, segni che questo mondo è attraversato dal male e dalla morte e per questo deve essere salvato. Segni che gli uomini cercano di sopravvivere anche senza gli altri o contro gli altri e quindi abbisognano di conversione e di comunione. Segni che la vita in pienezza non è possibile se non si sceglie la vita accettando di operare nella logica dell’amore reciproco. E aggiunge: “segni che proprio nel loro contraddire le nostre attese di un mondo migliore diventano capaci anche di aprire la speranza, facendoci assumere consapevolezza di che cosa continuare nonostante tutto a sperare tenacemente, anche contro ogni speranza. Il problema infatti non è sperare o disperare, essere ottimisti o pessimisti, ma trovare fondamento alle speranze. Molti dicono che siamo immersi nella cultura dell’attimo fuggente e che quindi il rapporto con il passato e con l’avvenire non ha peso, ma la speranza nasce quando si prende posizione riguardo al futuro, quando si pensa che un avvenire sia ancora possibile per un individuo, una società, l’umanità intera”. Si tratta di vedere oggi per il domani. Che vuol dire vedere oggi per il domani? Ogni tanto quando devo fare una battuta, dico che l’Italia è un Paese che ha sempre avuto difficoltà a sapere dove andare, ma se perdiamo anche il senso di dove siamo, allora siamo veramente nei guai. Ecco perché la statistica è così importante, per aiutarci a capire dove siamo e da dove veniamo. Vi faccio un esempio: potete guardare questo grafico anche mentre parlo. Questo è l’andamento della popolazione dal 1861 al 2011; vediamo la popolazione italiana sia arrivata quasi a 60 milioni, e dal 1861 la popolazione italiana è quasi triplicata. E quello è l’andamento del numero delle famiglie invece: le famiglie sono aumentate di oltre cinque volte e perché questo? Qual è la differenza tra questi due elementi? E’ che il numero medio di persone per famiglia si è ridotto, attenzione, non solo perché si fanno meno figli, ma perché le famiglie si rompono più facilmente. E quando uno prende il reddito pro capite dell’Italia, e vede che tra il 2000 e 2009 è diminuito del 3 e passa per cento in termini reali, e poi scopre che nel frattempo il numero di famiglie è aumentato molto, perché ci sono state tante rotture, che vuol dire che non si mettono più le cose insieme per pagare gli affitti, ma ognuno deve pagarsi un affitto per conto proprio ecc., capisce che le spese fisse delle famiglie in termini di peso sono aumentate molto e allora abbiamo meno libertà di spendere quello che ci resta una volta pagate le spese fisse e questo determina questo senso di insoddisfazione oltre che quello di povertà di tante persone. Per far questo bisogna scomodare un’inflazione al 20 – 30%, come qualche folle ha fatto credere agli italiani che fosse l’inflazione negli anni scorsi? No, perché la crisi peggiore dal ’29 che abbiamo vissuto e che ancora in parte viviamo, ha fatto una riduzione del reddito del 5% e il 5% è sufficiente a mandare un sacco di persone sotto la soglia di sopravvivenza. Pensate cosa sarebbe stato in Italia se l’inflazione fosse stata veramente al 20% per cinque anni, quindi una riduzione del 17% all’anno di reddito, saremmo alla guerra civile. Non ci siamo, ma allora ci hanno mentito? Sì, perché quello che è successo in questo periodo non è stata l’inflazione ma è stata una ridistribuzione del reddito a favore dei più ricchi, come solo negli Stati Uniti c’è stata e questo Paese ha discusso per 10 anni di un problema sbagliato. Il vero problema è una crescita economica insoddisfacente più una distribuzione del reddito che è andata a favore dei ricchi e a sfavore dei poveri. Come si fa a discutere della situazione italiana senza sapere queste cose? E tutti lo fanno, in realtà. Dobbiamo fare un altro esempio: discutiamo di pensioni e questo è l’indice di vecchiaia in Italia negli ultimi 150 anni, cioè la quota di sessantacinquenni per 100 minori di 15 anni. Buona notizia, viviamo molto di più; cattiva notizia, adesso o più avanti chi dovrà lavorare, si dovrà far carico di molte più persone. Quindi, al di là del problema dello squilibrio tra ricchi e poveri in ogni periodo, c’è un problema serissimo di squilibrio tra giovani e anziani, uno squilibrio intergenerazionale, che non ha nulla a che fare con l’equilibrio finanziario del sistema pensionistico, ha a che fare col fatto che abbiamo un problema strutturale di un Paese che non fa figli, che quindi ha poche generazioni giovani, e quelle poche generazioni giovani, come ci dirà Andrea più tardi, hanno un’educazione che, in paragone, nessuna generazione in precedenza aveva avuto. E noi che facciamo? Li teniamo in panchina, e li lasciamo invecchiare senza un’attività che li faccia crescere. Vi faccio un altro esempio: la quota degli stranieri in Italia, altro problema di cui si parla molto. E’ vero, la quota negli ultimi 30 anni è aumentata molto, ma il problema è che aumentata soprattutto negli ultimi anni. Se andiamo a guardare gli altri Paesi, noi non abbiamo nulla di anomalo, l’unica anomalia è che questa crescita l’abbiamo fatta in breve tempo, mentre altri hanno magari avuto più tempo per prepararsi, per trovare le strutture, anche di assistenza, per cambiare le norme, per accogliere questa popolazione straniera. Popolazione che ci è indispensabile se vogliamo crescere economicamente, se vogliamo che qualcuno lavori e paghi le pensioni future, e così via, al di là degli aspetti umanitari. Vogliamo parlare di qualche cosa d’altro, vogliamo parlare ad esempio del prodotto interno lordo, che è questa misura sintetica del benessere? Tornerò dopo su questo. Ecco, il prodotto interno lordo pro capite dell’Italia. Vedete, al di là della caduta degli ultimi due anni, vedete che per 10 anni è stata più o meno stabile quella linea rossa. Invece gli altri Paesi in quegli anni crescevano. Allora, quando si dice che il Paese ha un problema di crescita, vuol dire che noi abbiamo un problema di crescita. E quando qualcuno mi dice ah, beh certo, presidente, ma cosa deve fare la politica per fare aumentare la produttività? La produttività mica si fa al Parlamento, si fa su luoghi di lavoro. Facciamo un altro test per chi lavora, per chi ha attività. Uno degli indicatori che noi economisti abbiamo inventato, è la cosiddetta produttività multifattoriale, che è un indicatore di efficienza. Qualcuno di voi ha l’impressione che per fare le stesse cose che faceva cinque anni deve fare più fatica? Se sì, alzi la mano. Ecco, questa è la produttività multifattoriale in calo, cioè il fatto che noi abbiamo le capacità ma non riusciamo più a combinarle in modo efficiente, come se avessimo perso il linguaggio che ci consente di lavorare insieme e di trovare le soluzioni migliori. Ma se la produttività non cresce, vuol dire che noi non riusciamo ad accumulare un plus, un qualcosa di più per investire sul futuro, ci rimangiamo tutto quello che produciamo. Non a caso il tasso di risparmio italiano, di cui si parla ogni volta come un evento, come una caratteristica speciale dell’Italia, oggi è sceso sotto il 10%, cioè il livello più basso di tutti i grandi Paesi europei. E in particolare, la popolazione italiana in questo momento di crisi, invece di aumentare il risparmio come hanno fatto altri Paesi in vista delle difficoltà future, lo ha ridotto, per tenere i livelli di consumo elevati. Questo ha ridotto la caduta della produzione, naturalmente, perché se io consumo vuol dire che qualcuno deve produrre, peccato che in questo modo ci stiamo giocando un pezzo di futuro. E’ vero, le famiglie italiane sono relativamente poco indebitate rispetto alle altre, questa è una buona notizia; è vero, le famiglie italiane hanno un rapporto tra ricchezza e reddito tra i più elevati al mondo; è vero, peccato che gran parte di questa ricchezza è cosiddetta immobiliare, cioè è immobile. E allora cosa fanno le famiglie di fronte alle difficoltà dei figli? Li mandano nelle seconde case, nelle terze case, gratuitamente, per aiutarli, ma questo è una immobilizzazione della ricchezza che genera ricchezza o e solo un tampone per tentare in qualche modo di evitare problemi più gravi. La disoccupazione, questa è la disoccupazione giovanile e la popolazione della disoccupazione complessiva. Vedete, la disoccupazione complessiva, anche durante la crisi, è aumentata, ma non tantissimo, la disoccupazione giovanile resta ancora al 20-30% e molti dei giovani non cercano neanche lavoro, quindi non sono considerati disoccupati, sono inoccupati. Noi abbiamo introdotto due anni fa, e questo ha generato una grande attenzione nei media, in tutti quanti, questo concetto dei neet, cioè dei giovani che non sono né a studiare né al lavoro. Due milioni di persone: in alcuni casi una scelta, in altri casi sono donne che magari hanno dei figli da accudire, ma tanti sono disoccupati o neet involontari. E allora abbiamo investito tanto nella loro formazione dopo di che, appunto, li lasciamo in panchina o forse gli troviamo un lavoretto a 500 euro e poi Dio vede e provvede. Questo è il dato della produttività di cui vi parlavo prima, un dato che avrebbe dovuto fare un grande balzo negli anni ’90 e 2000, grazie a nuove tecnologie. Certo, se noi abbiamo sostituito una macchina da scrivere con un computer, non è abbiamo fatto questa grande innovazione. Ed è purtroppo quello che è successo in molti casi, ci siamo un po’ seduti, ci siamo seduti sugli allori, ci siamo seduti su quella ricchezza che la generazione precedente ha accumulato, e insomma non abbiamo molta voglia di faticare, il che da un certo punto di vista è anche comprensibile, ma in futuro? Questo è un dato sulla speranza di vita alla nascita, un dato che sintetizza in qualche modo lo stato di salute di una popolazione e vedete quanto è cresciuta, oggi siamo a oltre ottant’anni per le donne, e un po’ meno di 80 anni per gli uomini, siamo uno dei Paesi con la speranza di vita più alta al mondo, ci batte soltanto in qualche modo il Giappone, complessivamente. Ottima notizia, ma non è che questa cosa è nata perché improvvisamente le macchie solari hanno incominciato a funzionare in un modo e quindi in Italia si viveva di più, è il frutto di generazioni di lavoro, di progresso, di impegno. Questo è un indicatore sull’analfabetismo. Noi dobbiamo essere orgogliosi, come italiani, di questi risultati, l’analfabetismo è sostanzialmente scomparso e questo dicevo è un dato veramente importante. Peccato che accanto all’analfabetismo, agli indicatori sull’analfabetismo, abbiamo indicatori un po’ meno favorevoli e lo vedremo dopo, sulla quota di iscritti alle scuole, sulla quota di iscritti all’università. C’è un tasso di abbandono scolastico più alto d’Europa, 16% è l’obiettivo europeo, siamo intorno al 20%, scusate è 9% l’obiettivo europeo. Se andiamo a guardare la differenza tra italiani e stranieri, vediamo che la quota di abbandono tra gli stranieri, soprattutto in alcune fasce, è del 40%. Poi ci stupiamo che nelle periferie londinesi o nelle periferie francesi scoppino le rivolte. Dov’è l’investimento nel capitale umano, abbiamo smesso di investire nella scuola come qualcuno dice? Infine, un dato sulle emissioni di anidride carbonica che è un indicatore importante. Vedete, in Italia, negli ultimi anni, è diminuita, peccato che è diminuita perché è crollata l’economia, è scesa l’economia. L’efficienza energetica in Italia potrebbe migliorare straordinariamente, ma non lo facciamo perché, tutto sommato, riguarda le future generazioni. E l’esistenza diventa un’immensa certezza, ma certezza di cosa? Io non so se uscirete da questo intervento, da questa discussione, oggi più ottimisti o più pessimisti, debbo dire che mi interessa poco. Spero diventerete un po’ più attenti a non farvi imbambolare dalle cifre, magari passerete un po’ di tempo, magari quando non avrete nient’altro di meglio da fare, scorrendo questo fascicoletto che vi ho fatto distribuire, in cui ci sono delle cifre chiare sull’Italia negli ultimi 150 anni, in cui magari scoprirete conferme o sorprese rispetto a quello che credevate. Perché il nostro lavoro serve, come diceva Carlo Lauro, nella misura in cui facciamo crescere la conoscenza, ma la conoscenza di che? La conoscenza di quello che succede nel mondo, la conoscenza di quello che succede in Italia, la conoscenza di quello che succede nella mia Regione, magari anche per votare in un modo piuttosto che in un altro, magari anche per scoprire che qualche politico dice più bugie degli altri, o non ne dice affatto. Nel bellissimo intervento che ha fatto il Presidente della Repubblica in apertura di questo Meeting, ha richiamato il rischio che questo Paese abbia vissuto o stia vivendo all’interno di grandi menzogne, menzogne rispetto alla situazione reale che non necessariamente è tutta negativa, ma che ha aspetti negativi e positivi e che i media difficilmente ci aiutano a capire. Ecco, io spero che alla fine di questo intervento sarete un po’ più curiosi di andarvi a cercare le fonti direttamente, senza necessariamente farvi un’idea solo in base a ciò che leggete sui giornali. Abbiamo rivisto i comunicati stampa, per cui, in una pagina c’è la sintesi oppure tutti questi grafici che avete visto, che abbiamo fatto per la mostra sull’unità d’Italia, sono a disposizione, il nuovo sito web, che parte in questi giorni, è molto aperto anche per i non esperti, perché se non parliamo di informazione nel mondo dell’informazione, nella così detta società dell’informazione, di che democrazia stiamo parlando? Concludo questo mio intervento riprendendo ancora questo testo di Enzo Bianchi: “molti dicono che siamo immersi nella cultura dell’attimo fuggente e che quindi il rapporto con il passato e con l’avvenire non ha peso, ma la speranza nasce quando si prende posizione riguardo al futuro, quando si pensa che un avvenire sia ancora possibile per un individuo, una società, l’umanità intera, si tratta di vedere oggi per il domani, scegliere di sperare significa decidersi per una responsabilità, per un impegno riguardo al destino comune, significa educare le nuove generazioni trasmettendo loro la capacità di ascoltare, e di guardare l’altro. Quando due esseri umani si ascoltano e si guardano con stupore e interesse, allora nasce e cresce la speranza”. Questo è lo spirito col quale tante persone, non solo all’ISTAT, lavorano per servire il Paese e spero che questo intervento vi venga anche alla memoria quando, tra qualche settimana, dovrete compilare il questionario del censimento della popolazione e quindi invece di buttarlo in un cestino, perché questa volta vi veniamo a chiedere dove è finito il vostro questionario, risponderete dicendo, come dice lo slogan del censimento, “l’Italia del futuro comincia anche da qui”. Grazie.
CARLO LAURO:
Do adesso la parola ad Andrea Cammelli, che ci parlerà di un tema di grande attualità: “I giovani e l’università: ieri, oggi e domani”.
ANDREA CAMMELLI:
Grazie a Carlo Lauro, grazie a Enrico Giovannini, grazie a voi soprattutto che siete in questa sala e vedo seguite con tanta attenzione una riflessione importante, su un terreno che so essere abbastanza ostico, insomma, insegnando statistica, vedo che non è un terreno di quelli privilegiati. Debbo dire che quando ho letto, domenica, l’articolo di Giorgio Vittadini, collega e amico, intitolato “Poesia e fede, per vincere domani”, ho pensato da un lato che bisogna aggiungere anche dei numeri, naturalmente, a questo che è il dibattito di oggi. Tra l’altro mi è venuto in mente e sono andato a rileggere un libro di letteratura e poesia dell’antico Egitto, pubblicato da Einaudi nel ’69, perché c’è un’indicazione che mi sembra molto utile e molto importante, che riguarda l’importanza dell’istruzione. Duemila anni avanti Cristo, un egiziano, mentre accompagnava il figlio a scuola per diventare scriba, gli ricorda che: “Un giorno a scuola è ben vantaggioso e le sue conseguenze durano per sempre, come le montagne”. E’ il terreno, quello dell’istruzione, del quale mi sono occupato di più, attraverso l’insegnamento universitario e anche, come è stato ricordato, attraverso la fondazione di AlmaLaurea, questa banca-dati di cui poi parleremo. Volevo però riprendere un po’ l’importanza della documentazione quantitativa, fondamentale per governare, come ci ricordava Luigi Einaudi nelle Prediche inutili. Abbiamo visto stamattina la mostra sui 150 anni della nostra, della vostra esperienza, dell’esperienza di tutti quanti e volevo ricordare un po’ come l’università in Italia è nata fin dall’inizio con una grave carenza di documentazione, che ha, a mio modo di vedere, profondamente condizionato lo sviluppo dell’università. Voi pensate, unità d’Italia, 1861, l’anno universitario si apre con diciannove università, novemila studenti iscritti all’università e il Primo Ministro dell’Istruzione, che era un professore universitario, per l’appunto laureato a Bologna, Carlo Matteucci, scrive nel 1862: “Fra i tanti e supremi benefizi che l’unione d’Italia ha reso alla patria comune, non è, purtroppo, da annoverare il retaggio di molte università”. C’era già in qualche modo la preoccupazione che fossero troppe, avevamo iscritti allora 9000 studenti. Non solo, ma aggiunge che per 10 o 12 anni almeno, “si potesse risparmiare sulle università, si avrebbe fatto un buono affare e una buona azione”. È una frase importante, che va collocata naturalmente in una storia diversa del Paese, quella che ha ricordato prima Enrico, che è quella di una popolazione italiana che a quel tempo contava fra il 70 e il 75% di analfabeti, quindi c’era in qualche modo la scelta di… Bene, quindi, i numeri, mi pare, hanno a lungo accreditato l’idea dell’esistenza in questo Paese di troppe università, questa è la mia convinzione, di troppi iscritti, di troppe spese e hanno accreditato questa convinzione tanto più quando si son fatti i confronti internazionali. I confronti internazionali, basati su una documentazione carente, su una documentazione non completa, hanno portato al convincimento che l’Italia stesse investendo più di quanto non fosse il caso di fare. Debbo dire che una documentazione più recente, che è uscita soltanto nel ’92, di un inglese, Mitchell, International Historical Statistics, relativa all’Europa dal 1750 al 1988, ci consente di avere un quadro più aggiornato, più veritiero, che ci restituisce un’immagine dell’Italia che in realtà non era ai livelli più avanzati per iscrizioni all’università di quanto non fossero gli altri Paesi europei. Cosa che invece aveva contrassegnato il dibattito politico, il dibattito culturale nel Parlamento italiano dal 1800 fino al 1930 sostanzialmente. Voi ricordate la legge Gentile per la riduzione delle università? Quali sono gli elementi, brevemente, che voglio mettere in luce? Quelli di una documentazione carente che poi si perfeziona, che non tiene conto di alcune cose importanti che noi dobbiamo ricordare tutte le volte. Oggi parliamo di istruzione universitaria, ma su ogni terreno potremmo aprire una riflessione di questo genere. I numeri dicono molto, non dicono tutto, bisogna però che siano tempestivi, bisogna che siano certi, bisogna che siano dati con continuità, in modo da consentirci un confronto utile. Allora dicevo che cosa? In quei dati, fra quei dati, che cosa c’è e c’è stato fino a poco fa? Intanto un sovradimensionamento degli immatricolati, l’ISTAT allora, non era presidente ancora Enrico Giovannini, misurava gli iscritti alla data del 31 di gennaio. Il 31 di gennaio, lo sapete molto bene tutti quanti, gli studenti immatricolati al primo anno hanno pagato la prima rata soltanto. Quando siamo andati a verificare esattamente se questo era un elemento che trovava conferma nella seconda rata pagata, abbiamo scoperto che c’era una differenza, in alcune università importanti, fra il 15 e il 25%. Cioè c’erano iscrizioni in realtà che venivano conteggiate come tali per tutta la vita, finendo per deprimere i risultati in termine di efficacia, di efficienza degli studi universitari, semplicemente perché era stato sovradimensionato il numero degli immatricolati. Inutile che vi dica perché, la cosa sarebbe di grande interesse, ma non abbiamo tempo per farlo. Dopo che l’ISTAT ebbe cambiato il sistema di rilevazione, quando siamo andati a vedere quale era la componente che pagava la prima rata e non la seconda, ci siamo accorti che era una componente particolare, quella di ragazzi che venivano dagli istituti tecnici, che avevano un titolo professionalizzante, che quindi potevano avere opportunità lavorative migliori, e fra tutti i loro colleghi erano quelli con i voti migliori. Il che aveva accreditato invece, fra tanti studiosi, l’idea che chi veniva da questi istituti, non avesse la preparazione di base per andare avanti all’università e questi colleghi trovavano conferma di questa carenza formativa, nel fatto che questi abbandonavano, secondo i dati ufficiali, nel giro di un anno. Quindi, sovradimensionamento degli iscritti, quelli che ho definito iscritti fantasma, ma ancora oggi, devo dire, c’è una forte, voi sapete molto bene, una forte quota di iscritti immatricolati al primo anno che non troviamo iscritti al secondo anno. Siamo calati, è vero, negli ultimi anni, ma siamo attorno ancora al 17 – 18% di immatricolati che non troviamo più iscritti l’anno successivo e non è perché abbiano cambiato facoltà, non sono più iscritti all’università. E come vedete, ci sarebbe da fare una riflessione più importante, li troviamo perfino su valori più elevati, proprio sui percorsi di studio geobiologico, scientifico, chimico, farmaceutico, laddove il Paese ha un ritardo, nei confronti delle medie internazionali, particolarmente elevato. Quindi bisogna evidentemente avere una capacità di lettura della documentazione, oltre che di produzione della documentazione. Ancora, uno degli aspetti che alimenta il dibattito politico, culturale di questi anni, che forse dimentica un aspetto importante, è che noi abbiamo a lungo immaginato, abbiamo immaginato che la partecipazione della popolazione italiana agli studi universitari fosse più elevata rispetto agli altri Paesi, puramente, semplicemente, molto probabilmente perché non avevamo un’informazione completa. Guardate questo dato: se si parla di scolarizzazione universitaria soltanto, il dato è del ’91 o ’92 perché è l’anno in cui ho fatto questi approfondimenti, noi troviamo in effetti che il numero di iscritti al primo anno, cioè gli immatricolati sulla popolazione diciannovenne, per il nostro Paese, è più elevata di quanto non avvenga in altri grandi Paesi come la Francia, allora c’era la Repubblica federale tedesca, eccetera eccetera, salvo la Spagna. Ignoravamo, almeno la gran parte delle persone ignoravano, che in realtà, negli altri Paesi, l’abbiamo scoperto dopo, esiste un doppio canale di istruzione superiore: c’è il canale di istruzione universitaria e il canale di istruzione che non è universitaria. Allora, se il primo canale, in qualche modo, ha a lungo legittimato questa convinzione, troppe università, troppi studenti, troppi iscritti, disoccupazione intellettuale, quando abbiamo guardato meglio alla situazione, ci siamo accorti che noi ritornavamo in una situazione ancora in qualche modo da Paese che aveva molto da fare, molte cose da realizzare. E ancora un aspetto importante che voglio mettere in luce è che nel nostro Paese, dovrò farlo molto rapidamente per forza di cose, nel nostro Paese questo doppio canale, che oggi non c’è, e che qualcuno oggi rivendica che venga realizzato, in realtà ha funzionato esattamente fino al 1930. C’era il grande dibattito che diceva basta università, troppe università, sia la destra che la sinistra, quale che fosse la condizione culturale, troppe università, troppe università e mentre il Paese andava sviluppandosi e la rivoluzione industriale riguardava particolarmente le regioni del nord, non si aprivano altre università, ma si aprivano Istituti superiori autonomi e scuole superiori. Questi hanno funzionato fino al 1930, parlo di economia e commercio, agraria, ingegneria, medicina, veterinaria, che non rientravano nella formazione universitaria e si sono sviluppati sopratutto al nord, cioè nelle regioni del nord che avevano un processo di industrializzazione molto più rapido. Nel 1930, ’35, tutto questo secondo canale viene soppresso, tutto rientra nell’università, tutto rientra nell’università. Bene, oggi naturalmente il problema si ripropone per altri aspetti, ma non sto ad esaminarlo. Bene, dopo questa prima presentazione che riguarda il passato, discutiamo di oggi, veniamo ad oggi. Innanzitutto è necessaria una documentazione tempestiva, completa, attendibile, alla quale tengo molto perché penso che a me non interessa, nemmeno se fossi un politico, fare l’archeologo sociale. A me non interessa una documentazione completa, certa, attendibile di 5 anni fa, di 6 anni fa. Per le famiglie che devono scegliere, per i ragazzi che devono scegliere, per il policy maker che vuole scegliere sulla base di una documentazione certa, bisogna che la documentazione sia rapida, completa, effettiva, esauriente. Allora, da una parte noi abbiamo un futuro prossimo, e ormai lo sappiamo molto bene, che a livello planetario si basa sostanzialmente sulla diffusione, sempre più frequentemente rinnovabile, della conoscenza per rispondere a quelle che sono le continue necessità di innovazione. Ricordava anche Giorgio Vittadini che, quando l’obsolescenza delle tecnologie è scesa da 40 a 5 anni, creare persone iperspecializzate e non capaci di apprendere, significa creare potenziali disadattati, ne sono profondamente convinto. Allora guardiamo una cosa: Becker ci ricorda, il premio nobel Becker, ci ricorda, soprattutto, che le attrezzature, gli impianti in un’impresa sono necessari, ma è altrettanto fondamentale che ad utilizzare gli strumenti di lavoro ci siano persone capaci, sia fra i lavoratori che fra gli imprenditori. Perché per un Paese, ripete e sottolinea Becker, la crescita risulta impossibile in assenza di una solida base di capitale umano. Il successo dipende dalla capacità di una nazione di utilizzare la sua gente, le cose che prima ricordava con il punto interrogativo Enrico Giovannini. Bene, quindi da una parte c’è questo futuro prossimo, che ci riguarda e che riguarda voi in particolare, dall’altro cosa c’è? Un Paese come il nostro dove il ritardo in termini di scolarizzazione adulta è enorme, solo 10 laureati su 100 abitanti fra i 55 e i 64 anni. Una sottolineatura, che non è polemica, è solo per far capire: in questa classe di età, dobbiamo tener conto che ci sta la classe dirigente ed imprenditoriale anche del nostro Paese. All’ultimo censimento, è vero che è vecchio, Enrico Giovannini ci dirà poi nel 2011 che cosa è cambiato, io sono convinto che sia cambiato molto. Però ricordiamoci, il censimento del 2001, l’ultimo dato disponibile, ci dice che imprenditori, dirigenti pubblici e privati, privi di una formazione universitaria, erano nel 2001 l’86%. Recenti studi, fatti da studiosi della Banca di Italia, ci dicono che cosa? Attenzione, le imprese che hanno titolari in possesso di laurea, nelle stesse condizioni, nello stesso settore economico, occupano il triplo dei laureati rispetto alle imprese che non hanno imprenditori con questo titolo, il triplo, tre volte tanto. Ora, primo elemento: un ritardo in termini di scolarizzazione adulta. Secondo: la scolarizzazione universitaria della popolazione più giovane, tra i 25 e i 34 anni, ha fatto dei passi avanti, ma è ancora fra le più basse, rispetto alla media dei Paesi più avanzati. Cosa succede? Il risultato di tutto questo è che oggi, 75 laureati su 100, lo ripeto con forza perché ogni volta che ne parlo vedo gente che mi guarda stupita, qui non riesco a vedervi perché ho le luci negli occhi, 75 laureati su 100 portano a casa la laurea per la prima volta. Non 10 anni fa, i laureati del 2010. Ciò vuol dire una laurea che non ha né il padre né la madre. Pensate soltanto, poi lasciamo perdere che l’argomento è troppo vasto, che cosa voglia dire questo in termini di orientamento. Quello che fa poco la scuola secondaria, quello che fa poco l’università, certamente non può esser lasciato alle famiglie soltanto, perché padre e madre non hanno nemmeno l’esperienza di una vita compiuta a livello dell’università. Tenete conto ancora che, rispetto a questo futuro che abbiamo davanti agli occhi, la Commissione europea ha individuato nel 40% di popolazione fra i 30 e i 34 anni laureata, l’obbiettivo da raggiungere entro il 2020. Un dato vicinissimo, però tenete conto che questo obiettivo è già stato raggiunto da quasi la metà dell’Unione europea. Noi oggi siamo, del 2009 è il dato più recente, siamo al 19%, quindi molto al di sotto della media. Allora dunque, gli obiettivi da un lato, la situazione reale dall’altra: i numeri ci dicono, e poi verifichiamo se è vero, che il nostro è un Paese che dovrebbe puntare di più sull’istruzione dei giovani, puntare ad avere più laureati, certo più preparati, si capisce, il numero non basta. Invece la situazione che abbiamo di fronte agli occhi quale è? Primo: la popolazione giovanile dell’Italia, la guardiamo adesso nel grafico, si è ridotta drasticamente per effetto del calo demografico. Sembra impossibile, sembra incredibile, noi abbiamo perso quasi il 38% della popolazione negli ultimi 25 anni, il 38%, non parlo del 3,5%. Siamo al vertice in questa graduatoria. I giovani non solo sono pochi, devo dire per un verso, ma contano anche poco dal punto di vista della politica, non è una questione di statistica, è una questione di numeri. C’è uno studio di un collega della Cattolica di Milano che ci ha ricordato che i giovani italiani sono gli unici in Europa che, per votare i loro rappresentanti al senato, debbano avere almeno 25 anni e per essere eletti almeno 40. Paradossalmente, la gestione del futuro, le scelte principali del futuro che debbono essere destinate soprattutto ai giovani, perché il mio futuro francamente è necessariamente più limitato, vengono in qualche modo ridotte ad una popolazione che invece non ha i requisiti per i quali dovrebbe veramente operare. Bene, andiamo avanti e vediamo che c’è una voce insistente, una ripetizione robusta, che ci parla naturalmente di una scolarizzazione universitaria molto elevata, molto elevata, mentre la documentazione ci dice che in realtà noi abbiamo un numero di immatricolati che sta riducendosi, non solo la popolazione giovanile, ma il passaggio dalla scuola secondaria superiore all’università sta riducendosi: era del 75% dieci anni fa, è calata al 66%. Calano gli immatricolati all’università, un calo di quasi il 13% in 6 anni, come vedete, e in realtà ha cominciato a ridursi, già dal 2008, perfino il numero dei laureati. Insisto, contrariamente ai luoghi comuni che ci dicono in tante circostanze, anche sui quotidiani più autorevoli, che ci sono troppi laureati, troppi laureati, in realtà non sono sufficienti. Attenzione: i laureati sono cresciuti, ma in realtà soprattutto per il doppio titolo che l’università italiana ha inserito. Se andiamo a misurare il numero dei laureati in base agli anni di formazione, voi vedete come l’aumento in realtà è molto più modesto di quello di cui il Paese probabilmente avrebbe bisogno. Qui siamo in una situazione nella quale sostanzialmente c’è una ripetizione forte dell’eccesso di laureati. E’ vero che nel dibattito internazionale si ripete spesso che in qualche situazione il caso è di questo tipo, ma francamente vale per gli Stati Uniti d’America, dove, voglio ricordare, abbiamo 40 laureati su 100, ma noi siamo meno della metà. Cioè, ho la sensazione che aprire un dibattito di questo tipo, sia di grande interesse, ma non dimentichiamo che rischiamo di parlare di dieta in un Paese che ha ancora da risolvere il problema della fame e quindi bisogna parlare piuttosto che di over education, di under utilization dei laureati da parte delle imprese italiane. Quindi, pochi giovani, pochi laureati abbiamo detto e dunque, cosa bisognerebbe fare? Bisognerebbe investire di più su di loro, sono necessari quindi maggiori investimenti in istruzione universitaria, ricerca e sviluppo. Guardiamo quello che avviene in questo Paese, i dati sono dell’OCSE, guardiamo il confronto e vediamo che noi siamo in fondo alla scala come spesa pubblica e privata per l’istruzione di terzo livello. Mi limito a quella di terzo livello, quella universitaria, sostanzialmente misurata come percentuale del Pil. Non solo, sappiamo che diventa fondamentale, per ogni Paese è sempre stato fondamentale, investire soprattutto nel ruolo, nel settore strategico della ricerca e dello sviluppo. E’ un settore cruciale. Bene, voi vedete molto bene quanto i numeri ci restituiscano un quadro preoccupante, di un Paese che investe poco e non solo investe poco dal punto di vista del pubblico, ma anche dal punto di vista del privato, perché il peso, l’impegno da parte delle imprese private, naturalmente in questo settore, è praticamente la metà dell’impegno complessivo. Se andate a fare il confronto con la Germania, vedete che le nostre imprese sostanzialmente investono in ricerca e sviluppo un terzo di quanto non fanno le loro concorrenti in Germania. Certo, c’è una dimensione diversa delle imprese, lo sappiamo molto bene, ma il quadro complessivo che emerge è questo. Come vedete anche in questo quadro relativo alla ricerca, vediamo in modo molto chiaro la restituzione di un Paese che dal punto di vista del privato investe molto poco, e che quindi rischia di pagare quello che adesso rapidissimamente vedremo. Da un lato quindi abbiamo un quadro che ci restituisce una situazione di una evoluzione della quota che lavora a 5 anni dalla laurea, che sta riducendosi in misura consistente. Sto parlando non dei laureati di primo livello, sto parlando dei laureati prima della riforma, quelli che l’opinione comune generale vuole che siano quelli meglio preparati perché hanno studiato di più. Questa condizione occupazionale in difficoltà, analizzata anche fra i laureati di primo livello e delle specialistiche, specialistiche a ciclo unico, facendo dei confronti a livello triennale, ci restituisce situazioni che andrebbero lette con maggiore attenzione, – naturalmente i dati sono a disposizione di tutti sul sito – ma ci dice che in realtà anche in questo caso sta diminuendo l’occupazione, non solo fra i laureati di primo livello, ma addirittura anche fra gli specialistici e gli specialistici a ciclo unico. Quando andiamo a disaggregare il dato, fra popolazione maschile e femminile, devo dire con una sottolineatura importante, vediamo che, nelle differenze di genere, vengono fuori in modo inequivocabile le migliori performance delle donne, che abbiamo sintetizzato intanto come provenienza sociale da ambienti meno favoriti. Quindi all’università i laureati del 2010 vedono performance migliori in termini di fruitori di borse di studio, di regolarità degli studi, eccetera eccetera, soprattutto da parte delle ragazze. E’ un elemento importante da sottolineare, perché l’unico aspetto, l’unico elemento nel quale vediamo qualche resistenza per quanto riguarda il confronto maschi femmine, riguarda la minore disponibilità delle laureate a trasferte con anche il cambio di residenza. C’è un certa stanzialità insomma. Però noi abbiamo un quadro che complessivamente ci dice che le ragazze rendono meglio, guardate, rendono meglio in tutti i corsi di laurea. Abbiamo fatto un’analisi che consente di distinguere questa situazione e il quadro che emerge è un quadro inequivocabile. Bene, dal punto di vista occupazionale, però, vediamo che cosa? Che il mercato del lavoro non è in grado, non apprezza, non valorizza abbastanza queste migliori performance della popolazione femminile e la documentazione che avete alle spalle, naturalmente è molto ricca, molto articolata, consentirebbe molte riflessioni, però vedete il quadro complessivo, vedete sono quasi 10 punti percentuali di differenza sul dato globale, vedete fra 86 e 76, 77, per quanto riguarda la condizione occupazionale. Differenze di genere, che noi ancora ritroviamo perfino confermate nel guadagno mensile netto a 5 anni dalla laurea, sempre per genere e gruppo disciplinare. Ecco, tenete conto che questa è un’indagine che viene da 400 mila interviste, quasi tutte telefoniche, ad altrettanto laureati a 1, 3, 5 anni dalla laurea. E’ una documentazione che garantiamo ogni anno a tutte le università aderenti ad AlmaLaurea e che oggi ci consente di dire sinteticamente che cosa? Che se la condizione occupazionale vede delle differenze robuste di genere fra donne e uomini, purtroppo ne abbiamo una conferma solida, vede anche una differenza robusta fra nord e sud del Paese, che è vero che diminuisce nel tempo, ma pensate, ad un anno della laurea, sfiora i 23 punti percentuali, dopo 5 anni si riduce al 13, un baratro che il Paese non può che superare. Tutti motivi questi di preoccupazione, se volete. Ma noi non dobbiamo dimenticare, questi sono i dati ISTAT per un verso e OCSE per un altro, non dobbiamo dimenticare che nonostante questa situazione difficile, oggi in Italia il laureato lavora di più, 11 punti percentuali di più di quanto non succeda al suo fratello maggiore che si è fermato alla scuola secondaria e ha una retribuzione maggiore. Quanti titoli vedo sui giornali, il laureato guadagna tanto quanto il diplomato: sì, ma a 24 anni, quando il diplomato è sul mercato del lavoro da 4 anni e il laureato è appena uscito. Ma nell’arco intero della vita attiva, voi vedete che almeno fino ad oggi le cose sono state così. Allora il quadro che emerge mi consente rapidissimamente di guardare un po’ meglio la documentazione che è emersa attraverso AlmaLaurea. Che cosa ci dice? Ci dice cose diverse da quelle che noi vediamo ripetere tutti i giorni, da tre anni almeno, sulla stampa quotidiana. Vogliamo vedere per un momento? Parliamo della riforma universitaria. Vedete la serie di articoli di giornale che ho sintetizzato per dire semplicemente che c’è stata una battaglia mediatica molto forte contro la riforma: il 3 più 2, università fuori corso, lauree brevi e molto inutili, laurea breve bocciata. E poi ancora i giudizi degli stessi docenti universitari che è fortemente critico verso questa riforma. Quindi, tutti d’accordo, tutti. Poi abbiamo esaminato, messo a confronto i risultati, le performance dei laureati del 2010, tutti 200 mila, con le performance dei laureati del 2001, perché bisogna ricordare come eravamo. Allora guardate per un momento: nel 2001 avevamo neanche 10 laureati su 100 in corso, neanche 10 su 100. Nel 2004 sono diventati 15, e ora siamo arrivati a 38 per lauree di primo livello, mentre valori più elevati riguardano le lauree magistrali a ciclo unico e le lauree magistrali. E’ importante una sottolineatura, che faccio fra le tante naturalmente, che dice attenzione, il valore medio dice una cosa importante, ma non dice tutto. Quando andiamo ad esaminare la medesima situazione per percorso di studio, vediamo che la situazione è molto diversa. Ci restituisce un’università molto più variegata, che va quindi esaminata e guardata con molta attenzione. Guardiamo ancora altri due aspetti e chiudo. Abbiamo detto che la regolarità è migliorata, e che quanto a età alla laurea non è cambiato quasi niente. Guardiamo come era quella del 2004. Si dimentica spesso e volentieri una cosa, che l’università della riforma ha portato all’università gente che si iscrive in ritardo, ha portato agli studi universitari gente che tradizionalmente ne era esclusa. Al netto del ritardo all’immatricolazione, voi vedete il quadro come si presenta, si riduce in modo robusto la situazione della regolarità degli studi e l’età alla laurea si abbassa profondamente. Situazioni analoghe, chiudo, riguardano naturalmente la frequenza alle lezioni, molto cresciuta, ma diversificata fra ateneo e ateneo, fra corso di studi e corso di studi. Quanto ai tirocini riconosciuti dal corso di studi, che secondo me rappresentano un aspetto fondamentale, oggi siamo al 63% di giovani di primo livello che concludono il corso con un tirocinio fatto in azienda. Mi pare questo un segnale di un nuovo modo di concepire l’università. Idem sugli studi all’estero, idem sulla intenzione di seguire gli studi. Ma allora, ultima domanda che possiamo farci: la qualità degli studi, chi la valuta? Certo, abbiamo una serie di numeri che ci parlano di performance riuscite, più regolari, di età più basse, però poi il mondo esterno invece non le valuta. Allora io porto soltanto la recente indagine di Eurobarometro, che è un’indagine della Commissione europea, fatta con il responsabile delle risorse umane. Il quadro complessivo che emerge, avendo intervistato anche i responsabili delle risorse umane delle aziende italiane, è che la percentuale di laureati assunti negli ultimi 3-5 anni, con le competenze richieste, non è molto diversa in Italia, rispetto a quella del complesso dei Paesi dell’Unione europea. Vedete, 85% hanno le competenze richieste rispetto a 89%. Secondo, qual è l’importanza che attribuiscono i responsabili delle risorse umane nel reclutamento al possesso di adeguate competenze? Beh, in Italia meno di quanto non avvenga negli altri Paesi. Quindi in realtà non è un aspetto fondamentale. Tanto è vero che in Italia si ricorre in misura più modesta ai laureati dei Paesi esteri. Anch’io ho un’importante certezza, che affido a voi attraverso le parole di Paolo Coelho, uno scrittore brasiliano, perché sono anch’io convinto che “il mondo è nelle mani di coloro che hanno il coraggio di sognare e di correre il rischio di vivere i propri sogni”. Grazie.
CARLO LAURO:
Grazie Andrea. Abbiamo il tempo per un paio, due o tre piccole domande, che vorrete rivolgere ai nostri ospiti. Prego. C’è qualcuno? Vuol venire qui? Vuole un microfono? È lì, da quella parte. Si può presentare, anche? Si può presentare per favore?
DOMANDA:
Volevo soltanto ricordare… ah, scusi. Mi chiamo Antonio Schillani, lavoro nel settore dell’educazione. Uno dei problemi dell’Università italiana non è soltanto quantitativo, di quanti laureati ci sono, ma anche dello squilibrio, che c’è in Italia, tra le esigenze dei laureati scientifici e invece la sovrabbondanza di laureati nell’ambito letterario e giuridico, che è uno squilibro molto più elevato che in tanti altri Paesi.
CARLO LAURO:
Vuoi rispondere tu, subito?
ANDREA CAMMELLI:
Mah, sì, scusa..
CARLO LAURO:
Raccogliamo prima le domande, e poi…
ANDREA CAMMELLI:
Altrimenti rispondo seccamente, in un istante. Posso rispondere subito? No. Perché non mi ricordo il nome…
DOMANDA:
Sono Roberto e ho uno studio commerciale. Chiedevo al professor Giovannini se voi, negli studi che avete fatto, avete mai tenuto in considerazione il fatto che oggi il mercato, un po’ come diceva il signore che mi ha preceduto, cerca un livello molto alto di preparazione, oppure molto basso. C’è una grande fascia di top manager, anche di alti livelli, di preparazione di alto livello, e c’è ancora manodopera, ma la fascia centrale è scomparsa. Questo volevo sapere, se a voi è saltato alla luce questo problema e poi quanti politici, imprenditori o persone di responsabilità usufruiscono dei vostri dati, quante persone ve li chiedono. Ecco questa era una mia curiosità. Grazie.
CARLO LAURO:
Allora risponde – un attimo soltanto perché i tempi sono molto stretti, poi vediamo se c’è tempo – allora risponde brevemente Andrea Cammelli alla prima domanda e Enrico Giovannini alla seconda.
ANDREA CAMMELLI:
Mah, io vorrei essere molto convinto delle cose che ha detto. Debbo dire che le indagini che noi facciamo sulla condizione occupazionale dei laureati ci dicono che noi abbiamo all’estero molti laureati che vengono dai filoni scientifici: laureati in fisica, laureati in ingegneria, laureati in chimica. Quindi è vero sicuramente che noi dobbiamo arrivare ad un riequilibrio nei vari filoni, però purtroppo ho la sensazione che senza una politica industriale adeguata, che mi pare manchi completamente in questo Paese, in realtà ci sia poco posto per tutti. Noi siamo il Paese, se non sbaglio, che ha il patrimonio culturale più elevato del mondo, parliamo del 50% del…, sono disoccupati anche i nostri laureati nelle materie… come si chiama, la laurea in operatore culturale. Ho la sensazione che ci sia uno squilibrio che non dipende soltanto dagli squilibri di cui lei parlava inizialmente.
ENRICO GIOVANNINI:
In primo luogo abbiamo documentato più di una volta che c’è una sotto utilizzazione dei laureati fortissima, un sotto inquadramento, cioè ci sono tantissime persone che vengono assunte in realtà a livello di diplomati, pur avendo la laurea, quindi c’è un secondo canale di spreco di risorse, al di là del fatto che abbiamo pochi laureati eccetera. La seconda domanda riguarda i politici… sì e no, dipende. Nel momento in cui viene fatta una manovra economica che va approvata in sette giorni, c’è poco da discutere evidentemente. Nel momento in cui ci sono riforme più complesse, che prendono mesi, talvolta anni, talvolta decenni per essere fatte, i dati possono essere utilizzati meglio. Quello che manca però in Italia è un meccanismo – ed è una istituzione – che valuti ex- ante e ex-post le politiche. Per cui si fanno tante politiche di cui non si ha nessuna idea dell’effetto, né prima e né’ dopo. E quando si vuole fare qualcosa in più, ci si mette un altro pezzetto, senza aver valutato prima cosa è successo. Questo è uno dei punti di debolezza dell’Italia, rispetto agli altri Paesi.
CARLO LAURO:
Mi dispiace non poterle dare la parola, perché siamo alla fine dell’incontro e il professor Giovannini, fra l’altro, ha un aereo fra poco. Desidero intanto ringraziarvi. La nostra speranza è che siamo riusciti a suscitare la vostra curiosità; vi invito pertanto a guardare i dati che sono sul sito dell’ISTAT, come su quelli di AlmaLaurea, ma sopratutto la nostra sfida era quella di lanciare nell’ambito del Meeting il discorso sulla cultura della statistica che oggi è necessaria a tutti voi. Soprattutto ci aspettiamo – non c’è bisogno di partecipare attivamente nella società alla costruzione del bene comune – che voi, a partire da oggi, lo possiate fare in maniera più consapevole, più numericamente consapevole. Grazie a tutti e alla prossima.
(Trascrizione non rivista dai relatori)