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INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
Invito alla lettura
23/08/2011 - ore 19.00 La grande occasione - Don Giorgio Pontiggia e i ragazzi di Portofranco Presentazione del libro di Giorgio Pontiggia e Portofranco (Piccola Casa Editrice). Partecipano: Alberto Bonfanti, Presidente di Portofranco; Giorgio Vittadini, Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà. A seguire: L'invenzione del Mezzogiorno. Una storia finanziaria Presentazione del libro di Nicola Zitara (Ed. Jaca Book). Partecipano: Guido Orsi, Vicepresidente Jaca Book Spa; Francesco Tassone, Direttore della Casa Editrice Quale Futuro.
La grande occasione – Don Giorgio Pontiggia e i ragazzi di Portofranco
Presentazione del libro di Giorgio Pontiggia e Portofranco (Piccola Casa Editrice). Partecipano: Alberto Bonfanti, Presidente di Portofranco; Giorgio Vittadini, Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà.
A seguire:
L’invenzione del Mezzogiorno. Una storia finanziaria
Presentazione del libro di Nicola Zitara (Ed. Jaca Book). Partecipano: Guido Orsi, Vicepresidente Jaca Book Spa; Francesco Tassone, Direttore della Casa Editrice Quale Futuro.
CAMILLO FORNASIERI:
Presentiamo questa sera nella parte “Invito alla lettura” due storie. Due storie molto diverse, una molto recente, grande, grandiosa, anche dal pubblico, dall’affetto che si vede in tutti qui riuniti ed è la storia di Portofranco, il titolo è La grande occasione – Don Giorgio Pontiggia e i ragazzi di Portofranco. Abbiamo qui con noi il Presidente di Portofranco, Alberto Bonfanti, è uno dei primi ideatori, quello che da subito è partito dietro questa idea, e poi abbiamo con noi Giorgio Vittadini, Presidente della Fondazione Sussidiarietà che, cosa dire, lui è sempre quello che è dietro, intuisce la forza delle ipotesi e le scoperte di altri, oltre che essere un grande sostenitore delle sue. E’ veramente un padre che accompagna tanti. Alberto Bonfanti è insegnante, quindi viene dal mondo della scuola, vecchio caro compagno di università, scrivemmo insieme un cartello – ti ricordi? – che si chiamava: “Per passione, non per mestiere”. Perché questa realtà che è nata a Milano e si è diffusa anche in altre città mostra la sua fertilità nel cambiamento della vita di chi offre se stesso, il suo tempo, la compagnia e di chi incontra e di chi ha bisogno e incontra qualcosa oltre il suo stesso bisogno, oltre che un aiuto reale alla sua vita scolastica. Guardiamo, credo, un filmato all’inizio e poi vorrei che tu spiegassi l’origine insieme a don Giorgio Pontiggia, l’intuizione originaria di non avvicinarsi alla persona attraverso qualcosa di attrattivo ma non inerente alla sua condizione nella vita, ma facendo perno sulla libertà e la curiosità, in modo da partire esattamente da quello che uno vive, con cui occupa il tempo. Mi diceva don Giussani, se non vivete la verità o non vi chiedete il perché in quello che occupa il vostro tempo, nelle vostre giornate, volenti o nolenti, non si troverà mai qualcosa che tiene nella vita, qualcosa di vero.
ALBERTO BONFANTI:
Sì, io partirei facendo vedere il video che abbiamo fatto quest’anno, il 3 marzo, in occasione del decennale, in cui abbiamo inaugurato la nuova sede di Portofranco a Milano e per cui abbiamo pensato anche questo libro di cui parliamo. Direi di vedere il video perché le immagini fanno capire che cos’è, che luogo è Portofranco.
(proiezione video)
CAMILLO FORNASIERI:
Bonfanti, raccontaci anche l’esigenza di creare uno strumento in occasione dei 10-11 anni dalla nascita di questa realtà e poi magari possiamo anche ascoltare…
ALBERTO BONFANTI:
Qualche ragazzo!
CAMILLO FORNASIERI:
…qualche tuo amico, ecco, prima dell’intervento di Vittadini.
ALBERTO BONFANTI:
Va bene. Allora appunto, come avete visto Portofranco nasce dieci anni fa dall’idea di don Giorgio che una sera, al Sacro Cuore, un po’ arrabbiato, perché diceva che tutti sfruttano i ragazzi e nessuno li tratta seriamente, disse: “Noi, per l’esperienza che facciamo, siamo in grado di incontrarli realmente, e una persona si incontra realmente a partire dal suo bisogno. Emerge la persona, senza nessuna frattura ideologica o di pensiero o di religione a partire dal bisogno”. “Creiamo una cosa così”. Portofranco è nato da questa intuizione. Dieci anni appunto, si è diffuso tanto a Milano fino ad avere 130 ragazzi al giorno, milletrecento iscritti questo anno, si è diffuso in Lombardia e in Italia. Alle tre abbiamo fatto l’assemblea dell’associazione di Portofranco d’Italia, sono trenta, ed è bellissimo. L’esperienza che racconto sono le stesse esperienze che i ragazzi hanno raccontato nel video e che poi i nostri ragazzi brevemente vi racconteranno. Perché abbiamo voluto fare questo libro, La grande occasione – Don Giorgio Pontiggia e Portofranco, che potete trovare nella libreria qui di fianco alla modicissima cifra di otto euro? L’abbiamo fatto per tre ragioni sintetiche che dico. Primo, perché il contenuto di don Giorgio, che è il contenuto di incontri che ha fatto a Portofranco Varese, tra il 2005 e il 2007, ci sembra proprio utilissimo per tutti coloro che fanno esperienza di Portofranco e vogliono farla, vogliono creare un luogo così. Ci sembra veramente un manifesto sintetico, ma molto originale, molto interessante sull’idea di Portofranco e direi anche proprio sui risvolti profetici che ha avuto come capacità di aggregazione tra i giovani di ogni genere. Cito solo l’inizio, quando dice: «Avevo in mente una cosa, o meglio ancora, avevo una reazione e una specie di arrabbiatura» – conoscendolo, come molti di voi lo avranno conosciuto, non tardiamo, non stentiamo a credere che fosse arrabbiato – «poiché mi sembrava, mi sembra che i giovani di oggi non siano presi sul serio. Tutto quello che infatti si fa per i giovani d’oggi, spendendo miliardi, è aiutarli nel tempo libero, nei loro passatempi. Allora mi sono detto, ma se noi dobbiamo aiutare i ragazzi, qual è il punto in cui fanno più fatica, il bisogno che esprimono di più? La scuola. Tanto è vero che c’è una dispersione scolastica molto forte. Allora mi sono detto e ho detto ad alcuni amici insegnanti: “mi piacerebbe provassimo a fare diversamente dagli altri”. Mentre tutti illudono i ragazzi dicendo loro che sì, non è importante la scuola, le cose, l’importante è il parco giochi, noi invece dovremo dire: “No! Proviamo ad affrontare insieme il bisogno che avete».
Quindi ci pare molto utile sia l’idea originaria sia gli sviluppi come capacità aggregativa. Poi in questo testo è riportato anche l’intervento che Julián Carrón ha fatto il 3 marzo, a Milano, quando abbiamo inaugurato il Centro e nel suo intervento ci sono, c’è una indicazione straordinaria per tutti coloro che fanno i volontari ed è questa: “Dovete sempre chiedervi qual è la sorgente che può mantenere vivo nel tempo questo impeto di gratuità. Tutti desideriamo scoprirlo. Perché è la cosa che più colpisce i ragazzi. Perché il problema non è che uno dedichi qualche momento agli altri, in qualche epoca della sua vita, ma che diventi abituale, si realizzi una familiarità con una modalità di vivere la gratuità. Ciascun volontario deve prendere consapevolezza di ciò che ha generato l’input che l’ha portato qui, perché l’origine è già contenuta in quello che state facendo. Ognuno di voi deve farsi una domanda, come se la fanno i ragazzi incontrandovi; anche per rispondere adeguatamente a coloro che aiutate, dovete fare voi stessi il percorso domandandovi: Ma io perché vengo qui? Che cosa nutre questa mia capacità, questa mia gratuità? e così i ragazzi vi aiutano a prendere consapevolezza di voi e a rispondere alle domande che voi stessi avete”. Questa è un’educazione straordinaria che Julián Carrón ci ha dato e che si è dimostrata vera anche nei mesi successivi. Stiamo imparando, da come i ragazzi si muovono, a capire sempre più l’origine di quel gesto di gratuità che colpisce loro e che genera, appunto, rapporti, cambiamenti inaspettati. Ma ci ha detto anche un’altra cosa Carrón, sempre quel giorno lì: “Il volontariato nasce da una sovrabbondanza, non da una mancanza, perché se fosse soltanto per quello che manca a un certo punto ci stancheremmo. E’ da una sovrabbondanza che noi decidiamo costantemente… che nasce la nostra attività. E possiamo conservare questa sovrabbondanza se noi stessi continuiamo a sentire il bisogno di partecipare a un luogo dove essa diventa costantemente un’esperienza. E questo consente nello stesso tempo di educare alla libertà”. Allora, la prima ragione per cui abbiamo fatto questo libro, è proprio perché il testo di don Giorgio, il contenuto di Julián Carrón, così come l’introduzione di Giorgio Vittadini che mostra i valori sociali di questa opera, sono un documento eccezionale, la Magna Carta, come io oggi l’ho chiamata all’assemblea di Portofranco Italia, per tutti coloro che fanno questa esperienza e vogliono intraprenderla.
Ma c’è una seconda ragione per cui abbiamo voluto pubblicare questo libro, perché ci sembra che in questo libro ci siano anche indicazioni valide per chiunque, insegnante o genitore, abbia a che fare con i ragazzi. Ho scritto nell’introduzione delle suggestioni interessanti dal punto di vista educativo per chiunque abbia a che fare con i ragazzi. Anche qui volevo solo citare un brevissimo brano, sempre di don Giorgio, nella seconda parte del libro, del suo intervento che dice una cosa capitale per gli insegnanti: “Se noi insegnanti non avessimo un senso di inadeguatezza, sarebbe meglio non fare il lavoro che facciamo, perché sarebbe come dire che noi imponiamo agli altri uno schema che abbiamo in mente. Questo senso di inadeguatezza ci rende molto più umili, fa crescere in noi domande del tipo: Come posso io rispondere a questa situazione, che cosa è la cosa giusta in questo momento? E questo non ci deve turbare, innanzitutto dobbiamo essere convinti che i più grandi alleati alla realizzazione dei ragazzi sono i ragazzi stessi. Invece noi ci scoraggiamo quando pensiamo che tutto dipende da noi. L’educazione fa emergere qualcosa che c’è in loro”. Quindi la seconda ragione ci sembra questo spunto e tanti altri, utilissimi a chiunque, genitore o insegnante, abbia a che fare con i ragazzi. E infine poi c’è una terza ragione, volevamo in qualche modo rendere omaggio, a questo grande educatore, don Giorgio Pontiggia, che nella sequela a don Giussani ha passato tutta la vita nella compagnia dei giovani. E Portofranco è solo una piccola cosa dei mille tentativi che ha messo in atto questo uomo per la passione a Cristo, all’uomo, che lo ha contraddistinto, come ha detto Julián Carrón nell’omelia del suo funerale. Una delle piccole cose che ha fatto! Coadiutore al Santa Maria alla Fontana, 25 anni Rettore all’istituto Sacro Cuore, ha inventato il Graal, come incontro. Tante altre cose che anche qui sono scritte, accennate nella biografia che l’amico Giorgio Vittadini, amico nostro e di don Giorgio, ha scritto nella biografia finale. Ecco, queste sono tre ragioni per cui abbiamo pensato di pubblicare questo libro e di cercare di diffonderlo il più possibile. Adesso, siccome abbiamo qui presenti niente popò di meno che il direttore del Giornalino di Portofranco La voce del porto, un ragazzo egiziano che oggi è diventato una star, perché ha tradotto in simultanea al G.S. Point a piazza Majakovskij l’incontro con gli egiziani ortodossi, quindi il prossimo anno sarà dall’altra parte della barricata. Ecco quattro ragazzi che diranno brevissimamente cos’è per loro Portofranco.
PRIMA TESTIMONIANZA:
Salve a tutti. Per iniziare vorrei prima di tutto ringraziare Portofranco perché gli sono debitore. Come aveva detto Albertino, io sono il direttore del Giornalino, ma sinceramente se non fosse per alcuni educatori di Portofranco, tra cui anche Piotta, non avrei mai scoperto questo piacere nello scrivere, perché prima alle medie, elementari, superiori anche all’inizio, odiavo scrivere. Invece grazie a un aiuto che non è come quello che ti danno a scuola, perché non tendono a giudicarti e basta, ma tengono ad aggiustarti gli errori e a metterti verso la giusta via, ho iniziato ad amare la scrittura. Ed è quello che sinceramente mi ha aiutato e mi ha indirizzato finora in questo mio percorso che mi sta riuscendo veramente molto bene. Poi Portofranco con il tempo tende sempre a diventare parte dei nostri giorni. All’inizio infatti avevo anche un po’ paura di andarci, perché comunque andando in un posto nuovo hai paura. Hai paura di che persone incontri, di come ti giudicheranno, cosa diranno. Invece, quando sono entrato, ho visto subito un’aria familiare, delle persone che mi hanno subito voluto bene. Infatti da quel giorno sono sempre andato a Portofranco, è diventato più della mia seconda casa, ogni tanto preferisco andare a Portofranco che andare a casa, mi sento più a casa mia a Portofranco.
ALBERTO BONFANTI:
Lilia!
SECONDA TESTIMONIANZA:
Ciao, sono Lilia. Io sono andata per la prima volta a Portofranco tre anni fa, perché il pomeriggio dovevo studiare con un mio amico che già frequentava Portofranco e mi ha portato lì. Inizialmente non ci andavo spessissimo ma poi pian piano ho iniziato a conoscere Albertino, Piotta e gli altri e ho iniziato ad instaurare dei rapporti di amicizia molto interessanti, sia appunto con i ragazzi che con loro adulti. Quest’anno ci sono andata tutto l’anno, tre volte a settimana, dalle due e mezza quando apre alle sette quando mi cacciavano e cioè, veramente come diceva Zaid, è proprio una famiglia e mi colpiva perché per me lo studio è proprio una lotta, perché ci sono un bordello di cose belle da fare e quindi lo studio ogni tanto sembra una riduzione e invece mi sono proprio accorta che no, chelo studio è una possibilità per gustare ancora di più tutte le cose belle che ci sono. Infatti un po’ di tempo fa guardavo un film, Il Club degli Imperatori e in questo film si diceva che il destino di un uomo è legato al suo carattere e che con lo studio si può modificare il carattere di una persona e quindi il suo destino e mi sono proprio resa conto che è così. Io vado a Portofranco con la certezza che sto cambiando il mio destino.
CAMILLO FORNASIERI:
Vittadini, un intervento tuo.
GIORGIO VITTADINI:
Allora la mia domanda è questa: come mai è così difficile recuperare la gente che fa fatica? perché qui sembra che tutto vada bene, ma noi abbiamo in Italia due milioni e duecentomila ragazzi che non studiano né lavorano, abbiamo centoventimila persone all’anno, minimo, che smettono di andare a la scuola, perché? E non è che solo Portofranco prova a recuperarli. Perché di solito uno non ce la fa? Allora partendo dalle parole di Carrón e di Pontiggia ricordate da Albertino, io voglio dire tre cose. La prima è che appunto non basta guardare un ragazzo per recuperarlo. Tutti i progetti del Ministero o quasi tutti o delle varie associazioni per recuperare sono una perdita di soldi e non servono a niente, ma perché? Voglio parlare di quelli che conosco di più tra quelli che frequentano Portofranco che sono quelli del Regina Mundi, di cui sono diventano amico da un po’ di anni a questa parte. Faccio prima questo esempio: molti di loro a scuola vanno male e molti professori si arrabbiano se vanno male e insistono sulla disciplina e più insistono sulla disciplina più non ottengono niente. Lì c’è una professoressa del Movimento molto brava, la Cetti, che li ha portati a GS, a Portofranco, ma il primo interesse non è stata la scuola, cos’hanno incontrato loro con GS e con Portofranco, anche gente che non è cattolica? Hanno incontrato la bellezza, hanno cominciato a sentir parlare di Leopardi, hanno cominciato a sentir la musica, hanno cominciato a sentire cosa vuol dire un’amicizia che non sia basata sul nulla. Il primo segreto che c’è in Portofranco, e si vede da loro, è il soggetto che la porta, è un soggetto che guarda qualcosa che non son loro, guarda qualcosa di bello. Il primo modo per aiutare uno che fa fatica non è parlare del suo bisogno, mettere a tema la disciplina, il fatto che non risponde, che non è capace, ma guardare insieme a lui qualcosa che non ha mai visto, la bellezza. Uno che fa fatica, uno che non ha voglia, uno a cui la professoressa di inglese rompe le scatole e lui non le risponde, è uno che è triste, e lo è perché non ha mai visto qualcosa che è bello. Allora non bisogna parlare, partire dall’inglese, dalla grammatica, ma bisogna andare con lui e dirgli: guarda che bella musica o guarda che bello, come ha fatto Portofranco, guarda cosa è successo in Ungheria (hanno fatto la mostra sull’Ungheria) o guarda cos’è successo con la Rosa Bianca! (vi ricordate?). Guardare una cosa mai vista, è un segreto che i grandi scrittori hanno capito, anche gli scrittori non cattolici. Io ho sempre in mente Ciàula scopre la luna di Pirandello, perché quello lì, come vi ricordate, – di solito è spiegato malissimo dai critici e dai professori che non capiscono niente di Pirandello e di Ciàula scopre la Luna – quello lì era un ragazzo che era il peggio del peggio di Portofranco, perché era praticamente una bestia, che spingeva di notte nella solfatara fino a notte il suo carrello. Inebetito finché, racconta Pirandello che non è un verista, appunto non capiscono niente i critici, ma è un nostalgico della bellezza, a un certo punto scopre la luna, vede la luna. La luna c’era sempre stata, ma per la prima volta lui vede la luna, si sorprende per la luna. E’ il tema del Canto del pastore errante di Leopardi, ma è anche una mia esperienza giovanile di ragazzo. In una campagna vicino ad Abbiategrasso c’era un uomo che era praticamente analfabeta, mi ricordo che quando vedeva la luna si metteva a ridere, diceva: “oh guarda là, guarda come è tonda e sta là e non cade” e rideva, era contento. Ciàula scopre la luna e diventa un uomo, perché è la bellezza che entra: il giorno dopo spingeva ancora la carretta, ma era diverso. In Pirandello ce ne sono tanti, c’è un’altra novella che si intitola Il treno ha fischiato, che è uguale e che parla di un impiegato totalmente inebetito, un Fantozzi senza ironia, che un giorno segue il treno, si accorge che il treno fischia e lo segue e segue questo treno e si immagina che va fino in Cina e da quel momento è diverso, va a lavorare ma è pieno, è pieno della bellezza del mondo, anche se non si è mai mosso. D’altra parte chi ha letto Salgari che non si è mai mosso da Torino, ma a me mi ha iniziato al mondo, quand’ ero piccolo, dalla Malesia al West, ai Carabi, sa che uno si apre alla bellezza, scopre la bellezza. Allora quello che è capitato a loro, ai ragazzi di Portofranco è che uno gli ha fatto vedere qualcosa che nella grigia vita quotidiana e nella noiosa vita delle classi nessuno gli aveva fatto vedere fino a quel momento: la bellezza, che il mondo è bello, l’inesorabile positività del reale, colta non da una sapienza d’intelligenza, ma come quell’uomo che dicevo prima, con quella corrispondenza del cuore che uno ha dentro. Ma ci vuole uno che ti parla di questo, che non ti tratta da deficiente, – tu sei un handicappato dal punto di vista dell’intelletto, quindi ti devo parlare di cose handicappate, mentre io vado a divertirmi in Sardegna – no, uno che ti parla della bellezza. Per esempio, se voi andate a San Patrignano, – io sono molto amico di Cuccioli, anche adesso che ne parlano male – la cosa bella di San Patrignano, con cui hanno tirato fuori tanta gente, è che è bello. Così come tante nostre opere, andate a vedere Cometa: non è detto che devi fare una scuola di formazione professionale o una roba per drogati brutta, chiusa, buia, come quelle cose, certe robe della sinistra, che siccome sono sociali, devono avere muri sbrecciati, scritte sui muri. No, bello! Uno per venir fuori dalla droga deve avere il lusso, deve avere i cavalli da corsa, deve avere la moda o come i Figini, che per fare la formazione professionale, che è come Portofranco, devono avere una cosa bella. La prima questione è che uno abbia dentro la bellezza, la bellezza che dà certezza perché c’è nel mondo: la musica, i colori, la natura, la bellezza dell’amicizia, perché allora cosa succede? Succede qualcosa come successe in un’occasione tragica: mi ricordo quando morì una persona del Gruppo Adulto in una casa, a Gudo, Vico Festorazzi, tantissimi anni fa, e il giorno dopo c’era un incontro con don Giussani e una che era lì di Gudo va da Giussani e gli dice: “E allora? E adesso?” quasi sconfortata e Giussani – era domenica, dicevano le lodi, c’era un incontro – dice: “senti questa musica, come si fa a dubitare della vita?”. Non gli ha risposto sulla morte, anche di un amico, tragica, un incidente stradale, gli ha fatto vedere la bellezza della vita, del canto. La prima questione da cui nasce Portofranco è che bisogna mostrare la bellezza, a chiunque, senza pensare che ci sia uno che non la può capire. E uno per mostrare la bellezza deve averla dentro, deve sentire il cuore che vibra, deve sentire questa…il capitolo decimo del Senso Religioso deve vibrargli dentro, deve percepire le cose come l’“uomo cattivo”, che a un certo punto si sveglia, ma per il colore dell’uva, perché percepisce che cosa vuol dire la parola amicizia, il calore dell’amicizia. Per educare uno non bisogna parlare del sociale, mettere a tema la priorità del povero, del povero d’intelletto, bisogna parlar d’altro. Per aiutare uno a scuola non bisogna parlargli innanzitutto della grammatica, dell’inglese, di quello che non va, bisogna mettergli ….un rapporto franco, la caratteristica di Pontiggia, è la bellezza, vedere un’altra cosa che innanzitutto non c’entra, quella che hanno visto Giovanni e Andrea, la bellezza, una cosa che ti corrisponde, scoprire che c’è un mondo, anche nel momento più tragico, che ti vibra dentro. Una cosa che mi colpisce molto è sempre come la Chiesa tratta i funerali, che per me è una delle cose più grandi, più gioiose, perché la liturgia ti parla della Resurrezione. Portofranco nasce dalla resurrezione per gente che la vede e la mostra a persone che non ne hanno mai parlato, e allora succede il miracolo che ho visto appunto in molti di questi ragazzi, che poi, stranamente anche nelle ore di scuola, rendono e magari un professore comincia a pensare che è merito suo, secondo quella classica sindrome che viene quando uno vede tutta la folla davanti e dice “guarda come mi guardano”, e invece ha dietro il Papa! E uno pensa che è stato lui. Uno ha ripreso a scuola perché ha ripreso un rapporto, perché ha ripreso una bellezza, perché qualcuno lo ha guardato, perché ha cominciato a vedere e allora è disposto anche ad affrontare le ore di scuola in cui c’è l’inglese, la grammatica, il professore che non capisce niente dei ragazzi perché parte dalla disciplina e non capisce se la disciplina uno ce l’ha se ha questo fascino e allora ricomincia a scuola. Ma capite, la prima questione di Portofranco è l’educazione alla bellezza di uno che ce l’ha dentro e quindi il primo problema non sono i ragazzi, i duemilioni e duecento che mancano dalla scuola, l’handicap, la mancanza di studio, ma che io stia guardando una cosa e me li tiri dietro. Io gli faccio vedere quello che sto guardando, badate bene, non gli faccio vedere me, perché quello è quel pessimo film che è L’Attimo Fuggente, che infatti finisce con un suicidio, perché se io faccio vedere me, alla fine uno capisce che non è la risposta al suo cuore. Io gli faccio vedere la bellezza, li porto nella bellezza, per questo la prima questione di Portofranco non è l’handicap da recuperare, ma tutta l’attività culturale che ha sempre fatto (hanno invitato Mieli a parlare della storia), la bellezza in cui entrano, in cui chiunque può entrare, non c’è nessuno che è indegno di vedere questo. Allora per rifare questo, la prima questione è proprio questa bellezza che dobbiamo provare, perché se uno parla di una cosa ma non la vive si capisce, è come quando – come dire – Giussani diceva, quando il predicatore parla di una cosa che non vive, la gente si rompe le scatole perché capisce se tu non ce l’hai dentro. Ma cosa succede a uno che guarda la bellezza, come dice qui una cosa che mi colpisce molto, chi vive questa sovrabbondanza cosa capisce? Che non è che la ripresa dell’handicap è come quando si dà da mangiare al tacchino per fare venir fuori il patè: si ingozza il tacchino, si ingozza il ragazzo di competenze – bum bum bum bum – sei dell’handicap, fai ventiquattro ore, ti infilo cento chili di grammatica, cinquanta chili di inglese, schiaccio bene, schiaccio bene, viene fuori il patè di uno che viene recuperato. Non è così! Cosa vuol dire questa seconda categoria che dice “far emergere in lui”, perché la bellezza che c’è fuori è quella che c’è nel cuore, solo che di solito uno che non va, è perché non crede in se stesso. Io penso che una delle cose più cretine degli ultimi tempi è quello che ha detto Cameron della crisi di Londra, dicendo che è un problema di polizia: quando c’è mezza città, compresi gli insegnanti e compresi i professionisti che si danno a quello che è successo, vuol dire che in qualche modo uno non è più capace di guardarli e non è con la violenza che si rifà. Uno che vede la bellezza capisce che l’altro ha dentro una potenzialità e non ci crede. La gente che fa violenza è perché in qualche modo, come si vede nell’Inferno di Dante, ha in odio se stessa. E’ interessante che nel cristianesimo si dica “ama il prossimo tuo come te stesso”, perché si poteva dire “ama il prossimo tuo più di te stesso”, perché dice “come te stesso”? Anzi se uno non capisce dice “è un egoismo!”, “ama il prossimo tuo un attimino più di te stesso”, no! Uguale a te stesso, perché amare se stesso vuol dire percepire che uno ha dentro un cuore, che tu hai una potenzialità, che hai una libertà. Io devo far capire a uno che quello che gli fa percepire la bellezza e che quello che l’ha fatta percepire a me, è che ha un cuore, che il suo cuore vale, che tu vali. C’è una storia bellissima di quella specie di Portofranco che è il Rione Sanità giù a Napoli, che mi raccontava Tonino di Napoli: una volta fanno le vacanze di GS, fanno il pullman e lui decide di far fare il capo pullman a uno dei capetti, un po’ delinquentello, che frequentava quel posto del Rione Sanità. L’assistente sociale dice: ma no è impossibile, non potete portarlo via, ma vi rendete conto, verrà fuori un casino, questo è un delinquente. Allora, tornano, il miglior pullman è stato quello lì, perché questo sapeva comandare, anche in pullman li faceva rigare, era lì come un soldato. Dice a Tonino: “oh, non si sono mossi un attimo!” Ma perché lui aveva scommesso su di lui! Non si può scommettere su uno quando è già, bisogna scommettere su uno quando non è ancora. Bisogna fare in modo che uno percepisca che ha dentro questa potenzialità, che lui questa violenza verso l’altro…Io ho sempre in mente che Pierino si ribella alla maestra perché la maestra non gli vuol bene e tutti i “pierini” del mondo, quando uno non gli vuol bene, si ribellano. Non sempre riesce, ma uno deve far scoprire a Pierino che lui vale, come disse la nostra amica di Modena a un ragazzo che era violentissimo, che aveva spaccato la testa a un altro e avendolo ancora in classe prima della sospensione, mentre tutta la classe era con lui, a un certo punto si è rivolta a questo qua e gli ha detto: scusami ma tu preferisci essere considerato il delinquente che spacca la testa o preferisci essere un uomo? E dopo una discussione serrata con questo che era il capo della delinquenza della classe si è messo a piangere e alla fine, sapendo di essere sospeso, le ha detto: professoressa io in questo periodo vorrei frequentarla. Vuol dire che uno che vede la bellezza deve far scoprire che tu hai una chance, che tu hai una risorsa e che questo ti corrisponde di più. Una società conservatrice non va da nessuna parte, il dovere non è un valore cristiano!
Terzo passaggio. E’ impressionante che questo non è solo per i cristiani, perché Portofranco, rispetto a tutta l’immigrazione che c’e, è un posto dove, senza metterlo a tema, ci sono musulmani, ci sono cristiani, ci sono atei, perché questa bellezza nasce per noi, per il cristianesimo, ma diventa per tutti. E’ come il Meeting, come mai al Meeting ci sono musulmani, ebrei, anglicani, ortodossi, atei? Perché il Mistero è più grande anche delle definizioni religiose, è qualcosa che c’è, che corrisponde. Io una volta parlavo con un mio amico, molto amico, bravissimo, dell’Azione Cattolica, e gli parlavo dell’amicizia coi nostri amici ebrei e lui fa: “sì va beh, ma prima o poi dovete dividervi, perché loro non credono in Gesù”. No, no, guarda che per noi il Mistero è una cosa più grande anche di questo e in qualche modo si segue. In Portofranco quello che è il problema dell’integrazione, che fa impazzire i governi del mondo, è un fatto, perché questa bellezza che fa scoprire l’altro, è un Avvenimento e allora cosa vuol dire? Vuol dire che questo esempio deve moltiplicarsi. Ma non c’è bisogno di essere dei sapienti, dei pedagogisti, lo psicologo che ti mette sotto l’alambicco! In questo caso sono per la canzone di Bennato: scappa! Se arriva lo psicologo scappa, scappa! Noi dobbiamo moltiplicare questa capacità educativa che nasce dai fatti, anche perché questa è la risposta al rincitrullimento della scuola, per esempio rappresentato dai 53.000 precari che entrano ope legis, chiudendo la scuola agli insegnanti. Noi dobbiamo moltiplicare questa capacità educativa, perché dobbiamo mostrare come potrebbe essere tutta la scuola alla destra e alla sinistra, se tutta la scuola fosse un Portofranco. La nostra risposta a un’istituzione che non funziona è il moltiplicarsi di queste cose, basate sulla bellezza, sull’educazione, sulla libertà, sull’amicizia e questo penso che sia una cosa che non poteva che avvenire qui al Meeting, ma che è da qui in poi un impegno nella nostra società, anche polemico, con tutti quelli che pensano che la scuola si metta a posto in un altro modo.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie Giorgio, tantissimo, penso che sia un grande rilancio di questa esperienza quello che abbiamo ascoltato. Grazie Giorgio, dobbiamo lasciarci e chiamare gli altri amici per la presentazione del libro di Jaca Book.
Come seconda proposta di invito alla lettura presentiamo L’invenzione del Mezzogiorno, il titolo già fa tremare i polsi. Una storia finanziaria. L’autore, Nicola Zitara, non è qui presente, perché è mancato nell’ottobre 2010, ed è stato un grande protagonista editoriale e di critica sociale ed economica, per aver dato vita ai “Quaderni calabresi” e aver poi coinvolto un ospite che è qui tra noi questa sera, che è Francesco Tassone, che salutiamo con calore, seppur non siamo in tanti, lui è stato al Meeting tanti anni fa e anche con la sua età – che porta bene – rimane giovane nell’animo. E poi con noi c’è Guido Orsi, che è vicepresidente di Jaca Book, che salutiamo. Ci racconteranno questo lavoro. A me interesserebbe, anche, cogliere degli aspetti che, credo, come me in molti qui non conoscono, ma di cui hanno un po’ sentito parlare: insomma l’esperienza, l’interesse e le ipotesi che hanno mosso questo lavoro molti decenni fa. Mi pare che sia una storia che si mischia molto bene con la storia di Jaca Book, perché Jaca Book non è stata mai solo una Casa Editrice che pubblicava i testi o i manoscritti che le pervenivano, ma è sempre stata un luogo che incontrava, conosceva e andava in avanscoperta. E intuisco che la stessa esperienza di “Quaderni Calabresi” a cui ho accennato e che ha anche Tassone come protagonista, sia dentro questa storia, tra l’altro su un argomento, quello del Mezzogiorno, che, seppure tanto trattato anche oggi, presenta la consueta vacuità, la consueta irrisolutezza di tante sue questioni, di tante sue problematiche. Mi pare che in questo libro, come negli altri di Zitara, e anche nella vostra esperienza, ci sia qualcosa di contestativo, qualcosa di diverso, qualcosa che sorge da una visione molto legata alla terra, alla Calabria, e anche ad altre parti del Sud, che valga la pena raccontare per capire qual è anche il valore storico, il valore sociologico, il valore di produzione culturale che questo libro importante rappresenta per l’editoria e per lo studio del nostro Paese.
Prima diamo la parola a Francesco, avvocato e magistrato, e poi scrittore.
FRANCESCO TASSONE:
Buonasera. Grazie della vostra presenza. Io non vi nascondo che, durante la presentazione dell’altro libro, mi sono sentito un po’ smarrito. Io sono abituato a parlare, sono abituato a parlare di questo tema perché il mio, come quello di Nicola Zitara, è stato ed è un impegno militante, cioè noi lavoriamo all’interno di un popolo che sappiamo molto travagliato, ci preoccupiamo di trovare vie di liberazione, siamo corresponsabili della situazione, quindi sono abituato a parlare. Però qui mi sembrava che il tema potesse essere molto lontano. Tra l’altro il tema del Meridione è un tema che può dare fastidio. Debbo dire la verità: sono venuto rassicurato per un fatto, perché intanto questo è il Meeting che parla dell’amicizia tra i popoli, quindi è fondato sull’amicizia. Dicevo oggi agli amici che mi accompagnavano, che un amico considerava l’amicizia come luogo dell’impunità, uno spazio in cui si può parlare, in cui si può essere completamente se stessi; e quindi questo clima mi incoraggia in qualche modo a dire di un tema e di un testo che è ostico. Intanto fedeltà al testo. Intanto bisogna dire qualcosa dell’autore, perché sennò il testo può essere una cosa morta e non si sa da che cosa nasce. Nicola Zitara era su per giù della mia stessa età, aveva un anno meno di me, io ho 85 anni, sono del 1926 e lui era del 1927. Cioè do questo elemento per dire di una generazione che si è svegliata dopo il fascismo. Io ricordo che durante il fascismo ero convinto che quello fosse la Patria, lo Stato, l’ordine, si lavorava per la correttezza, per la grandezza della Patria e quindi io aderivo con tutto il cuore, come succede quando si è giovani e si aderisce a qualche cosa che è ideale. Nel 1944 ci siamo svegliati e abbiamo visto che questa cosa non esisteva e abbiamo scoperto soprattutto il senso di socialità che promanava dal socialismo. Io ricordo che, d’istinto, ma quasi tutti i miei compagni, fummo socialisti. Per la verità non conoscevamo, Nicola Zitara sì, perché fu una persona che studiò molto l’economia, la storia, eccetera, non conoscevamo tutta l’armatura ideologica, il marxismo, eccetera; il nostro socialismo era e rimane sentimento di fratellanza nei confronti degli uomini, e cioè la convinzione che solo insieme, proprio solo con l’amicizia forse, possiamo uscire dai tanti baratri che nella storia abbiamo sperimentato. Nicola Zitara fu socialista e rimase socialista in questo senso. In più, però, con l’armatura ideologica, e non solo ideologica ma anche scientifica del marxismo, che gli consentì di analizzare la situazione. Nicola Zitara militò da ragazzo, lo racconta in un suo libro, si diede con tutta l’anima a questa battaglia per il rinnovamento sociale della sua gente. Per la verità noi pensavamo di tutto il mondo, non è che ci si fermava all’orizzonte meridionale. Poi si vide che l’orizzonte meridionale è un orizzonte particolare, che esprime una particolare sofferenza. E allora, intendiamoci, certo che tutto è prossimo, ma intanto c’è quello più prossimo che è ferito e se si incontra sulla strada il ferito, il samaritano si ferma: è quello il prossimo, è il ferito che incontri sulla strada.
Io purtroppo, se mi metto a narrare sono lungo, quindi chiedo al moderatore di fermarmi. Dicevo, Nicola Zitara continuò in quest’azione, militò nel Partito Socialista, militò nel PSIUP, che era un ramo del Partito Socialista, fu segretario di federazione, vicedirettore di un giornale, ebbe tante esperienze che furono per lui frustranti e l’idea che il Meridione sia uno Stato, una colonia dello Stato italiano, l’idea che noi viviamo in uno Stato che nel 1860 ebbe una bi-fondazione, perché fondò da una parte un territorio dedicato allo sviluppo e dall’altra dedicò un territorio funzionalmente dedicato al sottosviluppo. Nicola Zitara, a un certo punto, elaborò questa idea. Qui, tanto per fare un riferimento, l’incontro con l’area culturale della Jaca Book era naturale, perché la Jaca Book lavorava e lavora contro le disuguaglianze che ci sono nel mondo e soprattutto contro questo strutturarsi del mondo in sviluppo e sottosviluppo. È molto chiaro quando ad essere colonizzato è uno Stato fuori, è meno chiaro quando ad essere colonizzato è uno Stato dentro. Ma, in un recente libro, in un editoriale, Sante Bagnoli diceva proprio questo: attenzione che anche con l’Europa stiamo ripetendo questo strumento. L’Europa della finanza, la parte forte dell’Europa si sta costruendo delle sacche interne.
Brevissimamente, e chiudo veramente, questa idea ha avuto un primo sviluppo in un libro del 1971. Non vi racconto la storia com’è nata, ma è nata in occasione dei fatti di Reggio, esplorando, cercando, domandandoci, in questo impegno militante che cosa volesse dire questa rivolta di una città che per dieci mesi tiene in scacco l’esercito e mette tutto sotto sopra, quale fosse il disagio profondo. E allora Nicola Zitara, che deve approfondire questo ramo, si accorge di una cosa, e la dico in due proposizioni. Dopo il 1860, caduto il regime protezionista che caratterizzava lo Stato borbonico, e che però era funzionale alla formazione di un tessuto industriale e anche di un’industria pesante, che c’era nel Mezzogiorno già nel 1830, caduto il protezionismo, gli agricoltori meridionali non se ne stettero con le mani in mano, ma fecero un immenso lavoro di trasformazione delle colture, cioè la coltivazione della vite che era appena appena sviluppata e gli agrumeti di grandi estensioni: allora erano colture privilegiate e non c’erano concorrenti. E svilupparono anche l’olivocultura, facendo investimenti. Nicola Zitara si avvale di statistiche, di dati precisi. Avviene questa grande opera, che viene vanificata quando lo Stato Italiano che, avendo una bi-fondazione, ha un occhio su un solo versante. Non c’è stata purtroppo una unificazione che era nel cuore ed è nel cuore, ma l’operazione politica non è stata di questo tipo. Lo Stato, allora, per favorire la nascente industria nella zona padana, divenne da liberista, protezionista. Quella protezione significò che i mercati, alle merci del Meridione, che erano quelle che vi ho detto, furono chiusi e quindi provocarono la caduta di questi investimenti. Questa storia mostra che il Meridione non solo non era un Paese arretrato ma avanzato, e lo dimostra il fatto che questa gente fece questi investimenti, non se ne stette con le mani in mano, ebbe fiducia, fece questi vasti investimenti. Da sola basti questa cosa.
Il libro L’invenzione del Mezzogiorno è sulla stessa linea. Il titolo, L’invenzione del Mezzogiorno, dice che questa è stata un situazione creata. Qui si analizza però l’aspetto finanziario, mentre il primo libro, L’unità d’Italia, guardava all’aspetto della produzione. Il libro, e non mi soffermo sul contenuto, esamina quella che coerentemente al livello di sviluppo era la moneta nel Mezzogiorno. La moneta era molto di più, questa è una storia risaputa, l’altra sera l’ho sentito dire a Quark, poi se faccio un intervento breve ve la racconto, perché è simpatica. Allora, viene narrato in questo documentario come il Banco delle Due Sicilie, che era una istituzione finanziaria molto forte, venne stroncata. Cito due parole e chiudo con questo. In Germania, dove si fece l’unificazione, avvenne nello stesso periodo di tempo, sarebbe stato naturale e necessario fare una Costituente. Lo Stato doveva nascere da una Costituente, o almeno da un accordo sulla moneta, che poteva e doveva essere fatto. Il Meridione in realtà ha cacciato forse malamente i governanti borbonici consegnandosi all’Italia. Garibaldi arriva da Reggio a Napoli senza sparare un colpo, arriva in treno, accolto da una città, accolto dalla municipalità, cioè dalla struttura istituzionale-organizzativa. Era stato cacciato il re, ma lo Stato era in piedi, tanto è vero che Garibaldi fa la luogotenenza. È possibile mettersi insieme e ragionare almeno sulla moneta. Siamo nati male come Stato e abbiamo un grosso problema, io parlo da meridionale non solo per nascita, ma per elezione, perché non posso non fare mio il problema ed essere corresponsabile, ma sono sicuro che parlando qua c’è la stessa corresponsabilità. Io dico che abbiamo un problema comune, che non è solo del Meridione, ma del tipo di Stato che abbiamo. Io credo che dovrebbe, anche da questa cosa un po’ occasionale, nascere l’idea che dovremmo creare uno spazio di riflessione e di esame: come uscire da una situazione che è quanto meno una situazione gravemente nevrotica di scissione e le situazioni di scissione non portano mai bene. Vi chiedo scusa per essere stato probabilmente un po’ lungo.
CAMILLO FORNASIERI:
Affatto lungo e molto chiaro e anche molto sentito nella suo racconto-esposizione. Guido Orsi, anche tu hai partecipato ai “Quaderni calabresi” e sul tema aperto dell’oggi, vorrei che ci chiarissi che non può essere solo lo sforzo di una rilettura storica di una situazione quella che può determinare qualcosa di nuovo.
GUIDO ORSI:
Diciamo così, tra l’altro la cosa nasce in un modo molto semplice, nel giugno del 1970. Io e Bagnoli, che è presidente della Jaca Book, tornavamo da aver fatto il giro di tutte le libreria della Sicilia in cui eravamo andati a presentare le nostre novità e ci siamo fermati a Vibo Valenzia per incontrare Tassoni, perché degli amici ci avevano detto: se passi, valli a trovare.
Ovviamente arriviamo intorno alle 10:30, non mangiati; ovviamente accolti con l’ospitalità meridionale e da lì nasce un incontro che aveva secondo me due slogan come base: il fatto che ci troviamo innanzitutto, che si incontrano delle identità e un identità è tale solo se è permeabile. C’è un identità che è la nostra storia, la storia mia e di Sante, la storia della Jaca Book, la storia del popolo che c’era dietro e c’era l’identità di un popolo che si presentava in maniera totalmente diversa, certamente diversa da quella che avevamo studiato. Per me poi era una realtà particolarmente sconvolgente. Io sono piemontese dalla testa ai piedi, faccio parte di quelli che hanno invaso il sud e nel rileggere certe cose mi riconosco per di più, mi dilettavo anche di storia, e quindi andare a vedere che forse le cose si potevano guardare dal altro lato, era una provocazione molto interessante. Però il secondo slogan dell’incontro era che c’era una disponibilità da parte di ognuno di noi a rimettere in discussione noi stessi. Cosa vuol dire? Perché? Allora noi ci interessavamo certamente; il nome Comunione e Liberazione nasce a partire da alcune affermazioni di fondo, fra cui che la liberazione avviene, può avvenire solo laddove diventa fatto, solo se l’incontro diventa aggregazione, proposta di aggregazione, dove è già e non ancora.
Questa modalità di rapporto ha contraddistinto il fatto che negli anni ’70, per quelli che si ricordano, al sud tutti, l’industria, lo stato, i sindacati, tutti erano dediti all’industrializzazione del sud, principalmente l’industria che era molto interessata. Un industrializzazione che fu di fatto coloniale e fallì. Nel 1974, nel mese di gennaio, c’era stata l’alluvione in Calabria, a Fabrizia e noi eravamo in contatto con loro e nella rinascita di Fabrizia nasce una cooperativa, da cui noi da un lato, per divertimento sempre un po’ provocatorio, facevamo venire i funghi tutte le mattine in aereo a Milano, per permettere che la cooperativa di Fabrizia vendesse i funghi al prezzo del mercato di Milano e non al prezzo di quello della Calabria e fu evidentemente la loro salvezza, perché lo vendevano dieci volte tanto. Era divertente vedere alcuni di noi che al mattino, all’alba, andavano all’aeroporto per portare i primi funghi al mercato generale di Milano. Ma sto dicendo questo perché è da queste cose che nasce. Allora, c’è un aspetto che è particolarmente interessante in questo libro; questo è un libro di 500 pagine, è un pamphlet, è un pamphlet polemico. Nel leggere questo libro, che è facile da leggere, non c’è bisogno di nessuna conoscenza di statistica o di altri strumenti di analisi economica. Però, in questo libro si notano due cose: da un lato la rabbia di chi racconta fatti e continua a sentirsi non ascoltato e quindi c’è questo aspetto polemico, dall’altro il racconto di una storia, questa finanziaria che è ai più sconosciuta e che ha un’attualità spaventosa in questi giorni in cui si parla di eurobond sì o eurobond no. La storia detta in breve, è la seguente. C’era una banca, prima di Genova, poi diventata nazionale, sarda, poi diventata nazionale del Regno che era l’unica banca del Piemonte e che era la banca privata che serviva allo Stato piemontese per ottenere finanziamenti e crediti per le campagne degli anni ’50 e della seconda guerra d’indipendenza. E dall’altro lato era una banca fortemente indebitata, fortemente in mano al capitale francese, perché ricordiamoci che se l’aiuto dell’industria inglese al farsi del Unità d’Italia è abbastanza noto, l’aspetto finanziario era stato sempre in mano alla Banca Rothschild di Parigi.
Invece noi avevamo nel sud il Banco delle Due Sicilie che aveva una solidità economica enorme. Nell’arco di vent’anni neanche, di dieci anni, dal ’58 al ’68, il Banco delle Due Sicilie viene di fatto bloccato, tutte le sue riserve che erano tra le 8 e le 10 volte quelle del Banco Nazionale, vengono trasferite nel Banco Nazionale, e il Banco Nazionale diventa lo strumento, pur essendo una banca privata, dello stato fino a che nel 1868 viene deciso, viene promulgata la legge del cambio forzoso, per cui biglietti di banca sono diventati di fatto i biglietti dello stato italiano. Questa storia che è la storia finanziaria che viene raccontata con tutti i racconti, con tutti gli sguardi laterali a una industria navale fra le più floride al mondo; tenete presente che l’industria mercantile del Regno Borbonico era la più avanzata di tutta Europa, con esclusione dell’Inghilterra, tenete presente che Napoli è una città la cui ricchezza è raccontata da tutti i grandi viaggiatori e certamente batteva sia su Torino che su Milano qualunque rapporto. Tenete presente che non c’era una reale inflazione, mentre invece l’inflazione e il debito pubblico nel Piemonte fra il 1850 e il 1868 sono andati su valori a due e a tre cifre. Bene, questa storia è semplicemente un racconto che Zitara vuole farci nell’ indicare come questa unità d’Italia è stata fatta seguendo uno schema non necessario. Ma dove il problema è oggi. Il problema è oggi, in cui noi diciamo semplicemente che abbiamo un problema agricolo, che l’Italia ha un problema agricolo, diciamo che attualmente c’è anche una cresciuta coscienza ecologica, c’è anche una maggiore attenzione al problema contadino, a livello mondiale. Possiamo dire, guardando specialmente l’esperienze brasiliane e dell’America Latina che il mondo dei contadini sta riprendendo vigore. Per allargare l’orizzonte possiamo dire che oggi l’Europa occidentale sta operando nei confronti dell’est europeo quella stessa colonizzazione cui accennavo. Pero noi dobbiamo tenere presente che ancora oggi, o di nuovo oggi, l’aspetto contadino rischia di essere completamente stravolto. Qua, a pochi chilometri di distanza, esiste una società, le Bonifiche ferraresi, una vecchia società, che possiede enormi territori agricoli di Ferrara. Le Bonifiche ferraresi, tanto per dire, sono al 62% di proprietà di Banca Italia, cioè nostra. Benissimo, nell’ ultimo piano attuativo è stato detto che la cosa più importante è il ritorno economico delle energie alternative; il fotovoltaico sussidiato nell’Italia è oggi largamente superiore a quello realizzabile mediante qualunque coltivazione erbacea, per cui 190 ettari a Jolanda di Savoia, a Ferrara producono due volte quello che è il reddito se fosse coltivato quello che a Ferrara si coltiva, quindi dal grano a tutto il resto. Sto dicendo che dobbiamo stare attenti a che questo stesso meccanismo non venga oggi ripetuto sia a livello dell’ agricoltura che livello dell’ economia.
Sarebbe interessante andare a vedere come alcuni degli avvenimenti che hanno caratterizzato la storia finanziaria dei primi trent’anni, perché poi nel 1890 la Banca Nazionale diventa Banca d’Italia e viene nazionalizzata, non si stiano oggi ripetendo in quello che viene chiamato il grave dramma dal 2008 ad oggi, che è un dramma fondamentalmente un problema di non corrispondenza fra la ricchezza reale e la ricchezza monetaria diffusa.
Il perché di questa invenzione: il Mezzogiorno. Il lavoro fatto con gli amici calabresi e non solo, perché Quaderni del mezzogiorno e delle isole coinvolgevano e coinvolgono ancora anche la Sardegna, è quello di far vedere come solo una ripresa di coscienza di quello che è avvenuto, cioè del fatto che il sottosviluppo è stato creato e non è causa di una differenza etnica o causa del fatto che in Calabria c’è molto più caldo, non di Milano in questi giorni, ma molto più caldo oppure che c’è molta più montagna per cui è un luogo sfortunato. Il problema è che solo riprendendo coscienza che il sottosviluppo in cui oggi è il Meridione è stato creato, noi possiamo cominciare a vedere quali sono gli strumenti per risolvere il problema, che non possono semplicemente essere degli strumenti né di compensazione né di industrializzazione, che non possono certamente essere strumenti che unicamente riducano tutto il lavoro dell’ uomo a merce.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie a Guido Rossi, che poi si è addentrato così anche dentro nella… Vorrei chiedere un’ultima battuta, è una domanda che ho ma che magari è frutto anche della mia inesperienza storica…
Nella mostra sui 150 anni di sussidiarietà c’è un percorso che tocca un po’ tutta la penisola. La domanda è questa che faccio ad entrambi: l’aver messo in luce degli elementi vivaci, vivi, operativi delle nostre società, delle nostre comunità, che caratterizzano poi il tessuto del Paese che ha vissuto la tensione unitaria, in varie forme e in vari modi, ha permesso di identificare quei valori e quelle modalità che anche oggi, in forme nuove, possono ricostituire, far ripartire anche un processo, non solo di unità, ma di vivacità, di resa, di benessere. Allora il lavoro di Zitara e anche – come dire – il giudizio che avete espresso dice: “Prendere coscienza della colonizzazione avvenuta e del defraudamento di una ricchezza di una società, di un suo sistema, è l’unica condizione per rimettere in moto il cambiamento”. Mi pare che intendiate dire che rendersi conto di questa colonizzazione, significa rendersi conto di cosa è stato tolto di quello che c’era, perché solamente da quello che c’era, o c’è ancora, possono trarsi quegli elementi strutturali, quei nervi di fondo che, nutriti delle forme odierne e di una chiave di lettura, moderna, attuale, possano far ripartire un processo che sicuramente non ripartirà né con le Casse del Mezzogiorno più o meno rinnovate, né con forme, diciamo, artificiali, come si fanno anche in tante altre regioni. Come prima si diceva della scuola, possiamo fare mille punti di aiuto agli studenti, pagati dal Ministero delle Pubblica Istruzione, ma non nasce niente. Perché? Perché non sono sussidiarie, cioè non nascono dall’esperienza. Quindi ho sentito, diciamo, una forte necessità storica di chiarire che cosa è accaduto e questo è decisivo perché è una controstoria. Nello stesso tempo il valore mi pare che sia che ciò che è stato impoverito, ciò che è stato destituito, sia da trovare quindi da raccontare anche alla gente del Mezzogiorno, o sbaglio?
FRANCESCO TASSONE:
Certo. Perché io penso che purtroppo, da questa fondazione fatta male, noi ci troviamo in una situazione difficilissima, ma non solo come Meridione, io dico, come comunità italiana. La situazione del Meridione s’è moltissimo aggravata. Io ne ho ricordo. Intanto era un paese molto attivo, la gente molto positiva. Eravamo poveri ma si lavorava, si viveva del prodotto e così via. Eravamo in situazione di colonia, si scaricava all’esterno. Voi pensate che sono cinque le generazioni di emigrazione. Pino Aprile fa una annotazione giusta: “Cinque generazioni senza i padri”. Io stesso sono figlio di un emigrante e ho esperimentato nella mia vita continuamente l’attesa del padre, dall’America ovviamente: quest’uomo in attesa di tornare, noi in attesa che questo tornasse. Ma questa è una condizione che gravava sul Paese e che grava interamente, eccetera. La situazione si è andata aggravando; non credo che sia, diciamo, facile, però ci vorrebbe una condizione. Intanto prendere consapevolezza della situazione. Per esempio, veramente questo 150° è stato sprecato. Ma che significa celebrazione? Possiamo anche celebrare, certo che ci vuole un momento in cui dice: “va bene, ma comunque siamo insieme e insieme ce la…”, però vogliamo farne un anno di bilancio fraterno e guardare come sono andate le cose dall’una e dall’altra parte. Allora questo che ci dice? Che il Paese è sordo. Nell’insieme il Paese è sordo ed è come se questo bubbone non gli appartenesse. E invece gli appartiene, tant’è vero che voi vedete i movimenti di separazione che, qualcuno dice, stranamente non vengono dal sud ma vengono dal nord. Il razzismo, che è indubbiamente un male sociale che è cresciuto, non è che sia andato diminuendo, allora intanto formare la consapevolezza che ci troviamo davanti ad un problema ed affrontarlo con coscienza e proprio con quello spirito di amicizia e di cooperazione che è l’insegna di questo Meeting, è importante. Io credo che il risultato più grosso che sia stato fatto in questi 40 anni di lavoro, e molto è dovuto a Zitara, è che oggi almeno sappiamo, noi nel Meridione, quella che è la situazione. Almeno ci orientiamo, almeno sappiamo che questa è una situazione difficile, è una colonia, ma partiamo, abbiamo un punto di partenza. Dire di più è difficile. Dico, conquistiamo un punto di partenza solidale: sarebbe stato il primo atto di unità quello di metterci insieme intorno ad un tavolo e di esaminare il problema. Grazie.
GUIDO ORSI:
C’è però una cosa che possiamo aggiungere, perché la domanda di Camillo era molto giusta. Cosa è stato tolto? Quello che è stato tolto è qualcosa che è stato tolto a tutto il Paese. Nota bene: il problema del Meridione e del sottosviluppo del Meridione non si risolve ridando quel che è stato tolto, perché è impossibile ed è storicamente ed economicamente impossibile. Però bisogna aver coscienza di quello che è stato tolto in tutto il Paese. Negli stessi anni in cui abbiamo pubblicato L’unità d’Italia, nel 1971, noi abbiamo anche raccontato come la proprietà delle acque in Calabria non c’era, era comune. Il concetto che un bene non è una merce, come ormai siamo tutti abituati a pensare, è così poco radicato che tutti, e i miei figli, e inizio a vedere i figli dei miei figli, iniziano a pensare che uno lavora per produrre denaro, perché col denaro compra ciò che gli serve per vivere. Forse c’è un modo diverso di rapportarsi sia al lavoro, sia al bene della natura. La proprietà comune delle acque in Calabria è stata una esperienza che è durata centinaia di anni. Caso strano in Calabria, cioè là dove le strutture bancarie erano diverse, sono nate le cooperative cattoliche e l’esperienza delle cooperative cattoliche era altissima. E certamente un contadino calabro avrebbe risposto e risponderebbe oggi come risponde un campesinos del Brasile, un campesinos del Perù, a chi gli domandasse : “ma , scusate, qua la terra di chi è? E’ dello Stato, del Comune, della comunità, è vostra?”. Il campesinos risponderebbe con gli occhi sgranati: “Come? Io sono della terra, è la terra che ci possiede”. Ecco, questa cultura noi l’abbiamo persa. E’ vero. Siamo nel 2011, pensiamo di avere fatto un grosso passo culturale per il fatto che ci sono otto pagine tutti i giorni sui grandi quotidiani che cercano di spiegarti come fregare le persone o come fregare i tassi o quali sono le azioni migliori da comprare, come se questo fosse una attività, in modo tale da far sì che il reddito del denaro sia più interessante per le generazioni future del reddito del lavoro. Ecco, allora io dico, questa coscienza di cui Francesco prima parlava e Zitara parlava, diventa la condizione per riprender coscienza del lavoro nel Mezzogiorno, ma certamente è il discorso della mostra della sussidiarietà, quello che abbiamo perso, abbiamo perso dei valori, che sono per tutti. E allora il ripensamento su un’unità è così, nessuno parla di farla diversamente, ma è coscienza di questo: che forse possiamo fare qualcosa di diverso, di ridare dei valori a tutti.
CAMILLO FORNASIERI:
Molto interessante questa chiusura finale. Ringraziamo di questo lavoro costante e tenace, come diceva mi pare Bagnoli nell’introduzione. Questa attenzione su quel che è stato tolto, che era parte di un bene di un sistema-Paese, è sicuramente una proposta acuta, decisiva e forte. Vi invito alla lettura di questo libro, che è un libro semplice, acquistabile qui alla libreria. Seguiamo anche il lavoro che svolgono costantemente i nostri amici nel Mezzogiorno. Grazie a Tassone e a Guido Orsi.
(Trascrizione non rivista dai relatori)