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INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
Invito alla lettura
22/08/2011 - ore 19.00 La più umana delle passioni. Storia di Francesco Ricci Presentazione del libro di Alessandro Rondoni (Ed. BUR-Rizzoli). Partecipa l'Autore, Giornalista e Scrittore. A seguire: Don Francesco Ricci. Fino agli estremi confini della terra Presentazione del libro a cura di Marco Ferrini (Ed. Itaca). Partecipa S. Ecc. Mons. Luigi Negri, Vescovo di San Marino-Montefeltro.
La più umana delle passioni. Storia di Francesco Ricci
Presentazione del libro di Alessandro Rondoni (Ed. BUR-Rizzoli). Partecipa l’Autore, Giornalista e Scrittore.
A seguire:
Don Francesco Ricci. Fino agli estremi confini della terra
Presentazione del libro a cura di Marco Ferrini (Ed. Itaca). Partecipa S. Ecc. Mons. Luigi Negri, Vescovo di San Marino-Montefeltro.
CAMILLO FORNASIERI:
Benvenuti a questo secondo appuntamento giornaliero di “Invito alla lettura”. Abbiamo da proporvi due testi che riguardano entrambi, sotto aspetti diversi, una grande figura, una grande persona, don Francesco Ricci di cui ricorre quest‘anno il ventesimo anniversario della morte, avvenuta nel maggio del ’91. Forse è una delle figure che più ci può aiutare anche a conoscere il tema del Meeting da un punto di vista dinamico, non solo di riflessione e concetto, perché don Ricci, in questi due lavori che distinguerò nella loro specificità, è definito sempre, oltre che come un grande uomo di cultura e di fede, un grande uomo di certezza, che ha spostato e ha raggruppato una serie di persone nel mondo attraverso azioni e gesti, attraverso la sua capacità di raggiungere fisicamente le realtà, le città, le persone. Don Ricci è stato un grande missionario: mi viene in mente l’indicazione di don Giussani della missione come un non porre limiti alla corrispondenza e alla interezza della verità che Cristo è per tutto e per tutti. I due lavori che presentiamo: uno è di Alessandro Rondoni, che salutiamo. Il libro che ha scritto per la Bur Rizzoli, nella collana “I libri della speranza”, ideata dal fratello minore, racconta di come sia stato coinvolto, come incontro personale con il fatto cristiano, da don Francesco Ricci e ne sia stato uno dei primi, giovanissimi collaboratori. Tra l’altro, proprio in questi giorni e in queste presentazioni di libri, stiamo vedendo l’origine di tantissime iniziative, fatti, centri culturali che sono nati da incontri con maestri, con grandi figure, e che stanno portando anche il Meeting a essere l’esempio, lo sviluppo, il gratuito punto di arrivo di questi inizi così grandi.
Il secondo libro, della casa editrice Itaca, è Don Francesco Ricci, fino agli estremi confini della terra: raccolta di riflessioni e interventi a cura di Marco Ferrini. Sono le riflessioni avvenute nel 23 giugno del 2007, in un convegno svoltosi a San Marino per iniziativa della Fondazione Internazionale Giovanni Paolo II di cui Ferrini è direttore, sotto la guida e sollecitazione di Sua Eccellenza Mons. Luigi Negri, Vescovo di Pennabilli e San Marino, che salutiamo calorosamente. Un convegno che radunò persone e personalità che con Ricci hanno condiviso le molteplici iniziative, opere e intenti dall’America Latina al mondo dell’Est, ai tanti altri Paesi del mondo, nel suo infaticabile annuncio e desiderio, passione di comunicazione. Questo secondo libro è più incentrato sulla grande intelligenza, la grande formazione, la grande capacità di dinamica culturale che Ricci ha intrapreso e sulle origini che ha avuto. Perché la cultura non è qualcosa di astratto ma qualcosa che muove la vita. Una delle parole che più ricorre è appunto “passione” e “fino agli estremi confini della terra”, in entrambi i due libri. Do ad Alessandro Rondoni il compito di raccontarci perché abbia scritto questo libro che evidentemente è, oltre all’anniversario, denso di racconti, di episodi, di fatti e cerca veramente di mostrare il mistero dell’origine di una persona come Ricci, attraverso tutti gli incontri che ha fatto, in primis con don Giussani. Inizia tu, Alessandro, poi andremo avanti a delineare questa figura di caro amico e grande missionario.
ALESSANDRO RONDONI:
Grazie a Camillo, grazie al Meeting che offre questa straordinaria opportunità. Ringrazio ovviamente la Rizzoli e mio fratello per la collaborazione. Quando mi è stato chiesto di fare questo libro, ho detto di sì per una ragione molto semplice, perché quando uno ha incontrato nella vita qualcosa di grande, prima o poi ha il dovere di raccontarlo e in qualche modo – un libro è solo una piccola parte – di proporlo, di comunicarlo: sono giornalista, quindi lo devo fare anche per mestiere. Ho messo a disposizione il mio sguardo, il mio mestiere da giornalista e la grande curiosità che ci vuole per capire chi è oggi Francesco Ricci, non solo quello che ho incontrato tanti anni fa: il libro nasce da questa curiosità. Una figura eccezionale, straordinaria, un viaggiatore, un missionario, un giornalista, un editore, un comunicatore profetico, uno che ha girato i continenti: faceva viaggi, macinava chilometri, lo chiamavano don Chilometro perché era alto quasi due metri. Incontrava presidenti, vescovi, direttori, ma anche gente povera, umile, giovani alle prime armi, imprenditori che tentavano di fare la loro azienda, preti che volevano fare comunità, giovani che volevano scoprire il matrimonio o la vocazione. E lui aveva una parola per tutti, incontrava tutti. Io ho avuto il piacere di incontrarlo in un circostanza tragica, e quindi capite già la fatica di vedere una cosa grande in un momento doloroso: il funerale di mia zia, da cui parte il filo della narrazione. Non è una biografia, è un racconto di brani di vita vissuta con lui. Ecco, tutto nasce dal funerale di una giovane di ventun’anni, una delle sue prime giovani che, in Corso della Repubblica, nella chiesa di Santa Lucia a Forlì, partecipava a questi innovativi incontri dove maschi e femmine stavano insieme, nei primi anni ’60, dove si cambiava anche il modo di fare Chiesa. Questa giovane che muore a ventun’anni voleva fare il medico, la dottoressa, voleva aiutare gli altri e aveva visto in Ricci una speranza per la sua vita, anche per cambiare quel modo borghese di vivere la famiglia da cui veniva. Mia zia muore in questo tragico incidente e Ricci arriva da Budapest, dove faceva questi viaggi nell’Est Europa, quando era ancora dominato dai regimi comunisti; i muri erano ben alti e lui faceva questi incontri per aiutare là la Chiesa del silenzio, le persone vive di quel tessuto umano ed ecclesiale di quelle zone dell’Est. Nel ’72 tornò per celebrare questo funerale.
Da lì inizia questa storia che spero qualcuno legga e vi trovi la grande figura di Ricci, perché questo è un libro che non racconta un eroe, un protagonista assoluto e nemmeno un allievo, un discepolo quale io sono stato, oltre che amico suo. Racconta il dramma di un rapporto; un giovane che trova uno grande che lo aiuta a crescere. Questa è la novità di vita incontrata allora che io ripropongo a tutti, oggi, attraverso questo libro, per una nostalgia cara, dopo vent’anni dalla sua morte, per questo padre. Ma soprattutto per affermare che questa è la cosa che manda avanti non solo la mia vita oggi ma, credo, la vita che si vede qui, in un’esplosione di entusiasmo, al Meeting, di una certezza che domina ancora e che attraversa persino la morte o la fine o quella che sembra l’ultima parola.
Ricci era ovviamente un prete ma non mi interessava per questo, mi interessava per il suo giudizio culturale. Lui era uno che quando interveniva faceva la differenza, in un convegno, in un’omelia, in un funerale, in un articolo sul giornale; quando pubblicava libri dell’Est, appunto o quando andava a raccattare le veline, quando portava di qua il samizdat e pubblicò Havel, Il potere dei senza potere e i Discorsi del popolo di Dio di Wojtyla, quando Wojtyla era il cardinale di Cracovia. O quando portò Masowiecki, che poi è diventato il Presidente della Polonia dopo Solidarnosc. Ci ha fatto capire Solidarnosc, ci ha fatto incontrare poeti, uomini di cultura, giornalisti, riviste in Europa, in Italia e anche in Sud America, perché poi lui girava, andava in Uganda, l’AVSI è nata anche con i suoi aiuti, andava a incontrare la gente dove i popoli morivano di fame, dove comunque l’uomo cercava la libertà. In Sud America, dove i regimi dittatoriali del Cile e dell’Argentina avevano condensato un’oppressione sul popolo, lui andava ad aiutare la gente. Il suo interlocutore era la persona: nel libro cerco di descrivere questo con esempi che magari riguardano più il rapporto che io ho avuto con lui, quello che io ho visto meglio di lui, nei grandi rapporti che viveva, che partivano da quella mansarda di Viale della Libertà 54 a Forlì, la sede della sua cabina di regia. In maniera straordinaria, lui apriva all’universale quello che altrimenti sarebbe rimasto un particolare.
Uomo di cultura: aveva fondato la rivista CSEO, Centro Studio Europa Orientale, per farci capire la transizione dell’Est Europa, poi Il Nuovo Areopago, la rivista culturale per spingere, sostenere, svelare la fecondità della grande scelta dello Spirito, del potente atto di trasgressione avvenuto quando è stato eletto Papa un polacco, per la prima volta nella Chiesa, e ha rotto per sempre lo spirito di divisione dell’Europa, per cui finalmente si poteva gestire una speranza, un progetto di unità dell’Europa. Questo è stato il profeta Ricci, che viveva nella piccola dimensione provinciale di Forlì, che ovviamente gli aveva dato grandi maestri nella figura di don Pippo, di padre Leoni di Premilcuore, grande missionario che ha sofferto il gulag sovietico, da cui lui ha avuto anche un imprinting particolare, dopo averlo incontrato negli anni della formazione. Ricci ha studiato a Roma: uno come lui, che per cultura e formazione poteva ambire a ruoli di primo piano, non ha scelto cattedre, non ha avuto qualifiche importanti, ha avuto la gente sempre con sé. Io racconto ovviamente un pioniere dell’umano, un uomo dalle grandi capacità, dai grandi talenti, un globetrotter, un avventuriero, un Ministro degli esteri, uno che si è dato in mille responsabilità, ha fatto nascere famiglie, rapporti, opere, centri culturali e di assistenza in ogni parte del mondo.
Se chi ha incontrato Ricci anche una volta legge il libro, sono sicuro che rivede, non tutti i fatti, non è una biografia, non è un saggio, ma sente sicuramente il profumo di quella “santità” che ha incontrato quando ha incontrato un uomo vero così. Monsignor Negri sicuramente potrà fare meglio di me, ma la Redemptor hominis in lui si vedeva. Si passa cioè attraverso l’umano, la più umana delle passioni è la passione che lui ha avuto per l’umano che incontrava, il suo umano ma quello dell’uomo che aveva di fronte in qualunque continente, a qualunque latitudine. Poi c’è ovviamente una attenzione alla sua vita, che è fatta di tappe, l’ultima delle quali è la malattia, un viaggio difficile, sconosciuto, temuto, ma non l’ultimo, un viaggio duro, dove lui si è persino immedesimato nella grandezza di Wojtyla, nella vecchiaia di Wojtyla. L’ha vissuta da allievo verso un maestro, ed è quello che ha insegnato a noi per attraversare il nuovo millennio e la fatica di queste consegne finali, dolci, struggenti, anni duri, in particolare per me che a trent’anni me lo sono visto morire dopo che avevo puntato tutto su di lui, anche il lavoro. Sono subentrato nella Nuova Agape a molta della sua attività editoriale, nel Nuovo Areopago, in molte altre iniziative, a trent’anni: poi, mannaggia, questo mi muore, va via, il tumore divora la sua carne ma anche il mio progetto di vita e di lavoro.
A quel punto bisogna rimettersi in gioco: vent’anni di fatica, di cadute, di cambiamenti. Quest’anno ho compiuto i cinquanta e mi sono regalato un libro: non sono andato a prenderlo in libreria ma me lo sono scritto e ve lo offro come riflessione, perché a cinquant’anni un uomo va in crisi, è un passaggio, è un momento di vita dove uno ha bisogno di incontrare una grandezza, se no si perde, si perde in quel già visto, si perde in quello che sa già, persino nelle cose buone che sa già. Io, all’alba dei cinquant’anni, ho fatto una capriola seguendo Ricci, mi sono presentato in salone comunale con Il potere dei senza potere, da candidato Sindaco a Forlì, poi ho ottenuto anche il ballottaggio, adesso faccio opposizione in Consiglio comunale. A novembre, in Consiglio comunale, ricorderò Ricci nei giorni della memoria come un grande testimone dell’unità dell’Europa nel mio Comune. Sono piccole cose che mi danno la soddisfazione di dire che non è solo la figura storica, che pure dobbiamo ricordare. Il libro è l’ansia, il desiderio di un rapporto grande incontrato, e Ricci è stato grande anche nel modo di pensare Europa, un’ansia di rapporto grande che, incontrato, vuole rinnovarsi oggi in un incontro con lui. Il libro ne è traccia, solo traccia, non può essere esaustivo, ma vuole provocare una nostalgia del profumo della sua pipa, del suo occhio intelligente, del suo giudizio tagliente. E anche la voglia di avere un rapporto così, quale oggi si esprime qui, davanti a noi, in queste bellezze che il Meeting propone o che ognuno di noi a casa sua, dove riesce, con chi può, cerca di vivere.
Due parole su Ricci, per far capire che non è solo sentimento o storia di grandi ideali: Ricci aveva una casa editrice con pochi soldi, con molti testi, ha fatto un collana sull’Europa dell’Est, ha fatto capire la transizione, ha fatto questo Cseo Documentazione, che era illeggibile per i nostri tempi ma riportava le fonti ufficiali dei governi comunisti, ci faceva vedere quello che il regime di allora diceva e come opprimeva il popolo, l’ateismo di stato. Lui controbatteva, contro informava ma non faceva una ribellione da piazza, agitando gli studenti o i giovani infervorati, come potevo essere io, a rompere le vetrine, ci invitava a costruire soggetti nuovi. Poi era uno che dava un giudizio sull’Europa. Io mi sono andato a rileggere i suoi testi, da giornalista, e ho fatto non solo una memoria, un viaggio di ricordi, di aneddoti. Oggi che si parla di Europa in crisi, Europa di mercati, Europa delle borse e della finanza, andiamo a rileggere Cronache d’Europa di Ricci: lì troviamo veramente cos’è l’Europa e da dove può rinascere, abbiamo bisogno di Europa ma abbiamo bisogno di quell’Europa lì, di quell’Europa dalle profonde radici umane, cristiane, greco cristiane, dove la certezza diventa anche la certezza delle borse e dei mercati, ma non viene prima il mercato, viene prima la persona.
Oggi ho sentito Bonanni, qui al Meeting. E concordo nella sua analisi e nella sua ricetta di cosa vuol dire fare ripartire l’economia: se gli uomini non ci sono, l’economia non ripartirà mai. Ho fatto con don Ricci alcuni viaggi all’estero che mi hanno folgorato: in questo libro ci sono aneddoti, se volete anche un po’ crudi, simpatici, a volte dolorosi, perché avere un rapporto con un uomo grande complica la vita, non è che la favorisca sempre, ti costringe a venir fuori, a lottare, a essere critico nei suoi confronti, a contestarlo, a lasciarsi contestare, ad avere anche un faccia a faccia molto duro. Viaggi, perché lui era un viaggiatore: la dinamica dei suoi viaggi è estesissima, ci vorrebbe una vita per scoprirla. Sono sicuro che di questo – già mi arrivano alcuni messaggi di chi ha letto il libro – ci siano testimonianze, episodi. Io ne racconto alcuni che sono esemplificativi, chi avrà il piacere di leggere troverà sicuramente che lui aveva una capacità: non era indifferente, non era estraneo, entrava subito sul pezzo, come si dice, e soprattutto scovava il talento nascosto della persona, il talento nascosto del cuore, e invogliava a dire: “Vieni fuori, non essere pigro, non stare chiuso nel nascondiglio, riscatta la tua vita ad una verità più grande, sii libero!”. E ne indicava profeticamente la strada, che era lui, il rapporto con lui o quello che lui indicava nel suo passaggio, a volte veloce, a volte lungo.
Racconto alcuni brani di questi incontri, poi faccio un riepilogo sulla grande editoria, “Comunicatore sulla via dell’ambra”, e racconto alcuni passaggi anche di quella lotta dei grandi fratelli, l’impero d’Oriente, l’impero d’Occidente, che si sono combattuti in Europa e anche in Italia, anche oggi, mi verrebbe da dire vedendone l’evoluzione. Lui ha guardato la crisi della Prima Repubblica, il post-Concilio, ha guardato la caduta del Muro, ha analizzato e ha detto cose interessanti e utili anche a chi, oggi, si espone a livello pubblico. Poi, naturalmente, a Wojtyla ha dedicato molto della sua vita. “Il miglior fabbro del Terzo Millennio”: in questo capitolo, io dedico un po’ di attenzione al rapporto fra Wojtyla, che lui ha conosciuto appunto quando andava nell’Est Europa, e Wojtyla Papa. Si arrabbiava quando i vaticanisti chiamavano così Wojtyla, perché diceva che lo tenevano lontano da noi, lontano. Non era Giovanni Paolo II, all’inizio, poi è diventato quel campione, quello di “Aprite le porte a Cristo”.
L’ultimo capitolo è quello che più mi chiama in causa, perché faccio vedere che da quel funerale, da quell’inizio doloroso, è nata una storia incredibile per cui, dopo vicissitudini varie che hanno coinvolto anche la mia famiglia, i miei amici, il desiderio di reincontrarlo ha fatto sì che gli chiedessi anche il sacrificio, l’ultimo incontro pubblico a Forlì, a San Mercuriale, prima di Natale, per spiegare ai giovani che cosa era il Natale. L’avevo portato con alcuni amici in Versilia a fare due o tre giorni con noi, perché avevo visto che lui in Portogallo stava con i giovani, in Germania stava con i giovani, e quando tornava a Forlì era una furia, ci scappellava sempre con un cazzotto, e dopo ci diceva: “Come! Voi cosa fate, via!”. Quella volta gli dissi: “Ricci, fermati, vieni con noi, stai con noi, fai quello che ti ho visto fare … ”. Ed è ricominciato, tant’è che ci voleva portare in crociera. Poi è morto, con questo desiderio umano ma pazzo: e la crociera per noi è stata il prosieguo del cammino e del viaggio, della navigazione della vita, che vuol dire anche l’incontro di oggi. Infine, ci sono due o tre brani suoi, perché era giusto far parlare lui, non solo la mediazione. Credo che nel 150° dell’Unità d’Italia, presentare un grande italiano così non sia un patrimonio di qualcuno, di Forlì, di un certo mondo: è un patrimonio di tutti, per cui ringrazio veramente chi ci dà questa opportunità di presentare il libro, perché il contributo che noi diamo è di speranza, non di ottimismo da poco, di certezza, perché con persone così si può fare veramente un popolo, si può costruire qualcosa di grande.
Io lo dico da giornalista e mi fermo qui: sarà Monsignor Negri, che ne ha conosciuto ovviamente le grandi qualità, che, anche dal punto di vista ecclesiale, potrà dire di lui, un personaggio a tutto tondo di cui rimarranno tante cose. Troverete anche frasi del Presidente della Repubblica, del Papa, dei vescovi, di Monsignor Negri, di tanti che hanno seguito la traiettoria di vita umana, editoriale, missionaria di Ricci. Un punto che ha fatto la differenza è stato il rapporto con Giussani. Io dedico un capitolo a questo incontro che ha deviato la vita di Ricci alla fine degli anni ’50, ’60, e gli ha fatto vivere quel movimento di cuore e di persone, quell’innovazione educativa che ha gemmato e produce frutti anche qui. Un rapporto personale intenso, “il più grande compagno di cammino”: così Giussani definì Ricci in occasione della morte, che ci ha indicato mete sicure, luoghi sicuri, un movimento del cuore che è anche un luogo di persone, una casa, una dimora, non una appartenenza organizzativa, è qualcosa che ti chiama in causa e ti mette in gioco. Per cui, la drammaticità e la speranza e la certezza convivono.
L’ultimissima cosa che dico è che, se poi c’è spazio vediamo, il libro ovviamente è solo un inizio: non solo con la Nuova Agape o con le iniziative che faremo ancora, sicuramente c’è la voglia di riportare in evidenza quella ricchezza che Ricci ha dato. Racconto un inedito, lo dico nel libro per la prima volta perché sono andato a scovare una carta: nel ’78 Madre Teresa di Calcutta firma una lettera autografa e la manda a Ricci chiedendogli una missione sua, siamo in India, nel ’78. Ricci le risponde contento come una Pasqua, prepara la squadrina di sei persone, poi le vie dello Spirito, le vie della storia vanno altrove: nell’ottobre ’78 è stato eletto Papa Wojtyla, Giovanni Paolo II, e Ricci si piega totalmente a quell’avvenimento, si commuove. Aveva dato a Citterich una scheda che poi è stata letta al TG1, la scheda 36, dicendo, profeticamente: “Prendete anche Wojtyla”. E Wojtyla divenne Papa e la scheda letta al TG1 era di suo pugno. Il Papa è per lui il faro, segue quella roba lì e scrive a Madre Teresa: “Mi dispiace, adesso seguo il Papa, non vengo più in India”. Io nel libro un po’ lo cicchetto, Ricci, per questo: “Ma come? Dovevi andarci, in India”, perché con Ricci si può essere liberi anche in questo, però capisco che una grandezza vive anche di queste tensioni, di queste fatiche, di queste piroette, di questi cambiamenti. E mi viene da dire che questa lettera di Madre Teresa certifica la comune azione missionaria, il comune fervore per gli altri, per il mondo, per l’apertura, non solo ai poveri, come si dice, ma a tutto il desiderio umano. Credo che questo libro, se viene letto con quest’occhio, possa entusiasmare; se invece si cerca la biografia a tutto tondo, non è lettura adeguata perché questo è un inizio da cui credo emerga però la figura e la rievocazione ampia dell’uomo Ricci, della sua molteplice capacità di talenti. Due cose di lui rimarranno, come dice un poeta che lui amava, Norwid: “Due cose di un uomo rimangono: la bontà e la poesia”. E, come ci ricorda Grygiel, “Ricci, sia di bontà che di poesia, era piena la sua vita”.
CAMILLO FORNASIERI:
Bene, andiamo a scoprire se un così bravo presentatore del proprio libro è anche un bravo scrittore, ma mi pare che ci sia equità tra le due cose. Adesso darei la parola subito a Marco Ferrini, che è direttore della Fondazione Giovanni Paolo II che ha organizzato, ideato questo convegno di cui si dà traccia in maniera viva, mossa, non solo per quanto riguarda gli atti pubblicati da Itaca. Prima Rondoni accennava a Pietro Leoni, il grande missionario del Russicum, che negli anni ’40 va in Russia, rimane prigioniero dieci anni. Rondoni ha collaborato anche alla scrittura del libro su Pietro Leoni per la Casa di Matriona, quella figura che in un certo momento ha anche tradito e chiede perdono, questa umanità tutta piena dello slancio che si nota anche in Ricci, con la consapevolezza di senso di pochezza di sé. Mi ha colpito la fotografia, che è una delle più belle nel libro pubblicato da Itaca: si vedono a sinistra il confessore di don Giussani, al centro Ricci, la figura che ha iniziato a tratteggiare Rondoni, e don Giussani a sinistra, con questa ironia e capacità di condurre tutto e tutti dovunque. Era solamente per dire che il convegno mette in luce cose che potrebbero essere interessanti per aiutarci a comprendere anche una parola che credo sia sottesa, la parola ecumenismo: la certezza non è posseduta da noi ma sta nel legame con un avvenimento. Tutto è nostro, e quindi tutto va incontrato, tutto va vissuto e toccato personalmente. L’intervento, poi ascoltiamo Monsignor Negri.
MARCO FERRINI:
Grazie. Quando Camillo parlava, mi correva alla memoria come è nata questa idea del convegno su don Francesco Ricci. Una sera di autunno, una domenica sera, parlando con Mons. Negri, ci è venuta l’idea di ricordare la grande figura di don Francesco Ricci, constatando soprattutto che i nostri figli non conoscevano assolutamente questa grande personalità che ha colpito ognuno di noi e di cui abbiamo avuto un’esperienza incredibile. Abbiamo inteso organizzare un grande convegno internazionale che non fosse semplicemente un ricordo del passato, quindi un’operazione di tipo archeologico della memoria, ma che cercasse di tirare fuori questa grande personalità, la grande testimonianza in ordine alla propensione ad essere missionario oltre i confini della terra, come abbiamo voluto sottotitolare il libro. Ho fatto l’esperienza di don Francesco soprattutto nei primi anni di università. Don Francesco Ricci va a Bologna alla fine del ’68, ed erano anni veramente duri in università. Io l’ho incrociato nell’ottobre del 1970, quando veramente essere presenti in università era un rischio continuo, dalla mattina alla sera: continuamente attaccati dalla sinistra extra-parlamentare, continuamente boicottate tutte le nostre assemblee. Avendo vissuto la sua scuola e seguendolo, ho potuto apprezzare quella frase che più volte ci ripetiamo: “Quando ho incontrato Cristo, mi sono sentito più uomo”. Questa è stata l’esperienza che ho avuto personalmente con don Francesco e che ha segnato in maniera indelebile la mia vita. E da qui è nato per me questo impeto missionario, da lui. Avevo incontrato personalmente nella mia vita Cristo come redentore dell’uomo, Cristo come la risposta adeguata ed esauriente alla mia domanda di felicità e di verità. Da lì è nato per me l’impeto missionario che don Francesco già da tempo aveva profuso, come diceva Sandro prima, con tutta la sua attività, soprattutto inizialmente di incontro di cristiani e non solo di cristiani nei Paesi dell’Est.
Da lì è nato anche tutto il desiderio di comunicare al mondo quello che avevo incontrato, perché, se questa era la riposta alla mia vita, la risposta adeguata alle domande della mia vita, non poteva non esserlo anche per gli altri. Da qui nasce anche lo spunto iniziale che ha portato alla nascita del Meeting, di cui sono stato testimone sin dagli inizi, addirittura sin dall’anno zero, cioè dal 1979. Su questo, don Francesco ci ha fatto una compagnia enorme, perché senza don Francesco, ma anche altri amici, non avremmo potuto spalancare le porte del Meeting al mondo intero. Il convegno è stato fatto nel giugno del 2007 e solo oggi escono questi atti, in concomitanza col ventesimo anniversario della morte di don Francesco. Questi atti contengono una prefazione molto bella e interessante di Mons. Paolo Pezzi, che fra l’altro ha celebrato a Forlì, a fine maggio, la messa in suffragio di don Francesco per i vent’anni, e interventi di alcuni grandi amici che sono nel frattempo scomparsi. Volevo ricordare Lucio Meyer del Paraguay, il grande Claudio Chieffo, tra l’altro credo sia l’ultimo intervento che Chieffo fece in pubblico, e da ultimo Vittorio Citterich, che è scomparso in questi giorni, di cui Sandro ha citato prima l’episodio che viene ricordato negli atti del convegno, quello della scheda numero 36, che riportava la biografia di Karol Wojtyla. Il libro è costruito su tre traiettorie: una è Ricci e i Paesi dell’Est, l’altra è Ricci e l’America Latina, la terza è Ricci e Karol Wojtyla. Su questo il convegno è stato costruito, abbiamo risistemato alcune parti, anzi, devo qui ringraziare pubblicamente il professor Nevio Genghini perché ha veramente fatto un lavoro enorme di curatela e di sistemazione dei testi. Sono un po’ rammaricato perché, per un problema di tipo tecnico, il suo nome non compare anche come curatore del libro. Quindi, anche a lui si deve l’onore della realizzazione di questo volume che credo possa essere molto interessante far conoscere a chi non ha conosciuto don Francesco, soprattutto ai giovani.
S. ECC. MONS. LUIGI NEGRI:
Dopo tutto quello che è stato detto, a me tocca un compito molto limitato, cercare di vivere il contenuto della memoria di don Ricci. Cosa Ricci dice oggi o, meglio ancora, che cosa Ricci ci comunica in questo misterioso ma reale dialogo che continua fra lui e noi. Una prima osservazione: mi pare che per don Ricci – sia il libro di Rondoni che il nostro convegno lo chiariscono – la missione fosse un istinto. Poi, l’esperienza profonda, appassionata, intelligente del movimento di Comunione e Liberazione ha dato idee, conferme, aperture. Ma innanzitutto, istintivamente, Ricci era un uomo che andava, che non stava fermo, per il quale ogni incontro, anche quello più banale, diventava significativo. Un istinto alla missione che poi è diventata la forma caratteristica della sua personalità. Ha ragione don Massimo Camisasca quando dice, con un paragone che può sembrare troppo avventato, che se Giussani è Pietro, Ricci è Paolo. Perché certamente il movimento come capacità missionaria segue la grande direttiva dataci da Giovanni Paolo II nell’indimenticabile udienza del 1984 per i trent’anni del Movimento: “Quello che amo in voi è soprattutto la capacità di conoscere, incontrare e valorizzare”. Questo impeto a uscire dai confini della nostra testa, prima ancora che dalla città in cui siamo nati, dal nostro mondo di rapporti. Ma non così, uscire per uscire: oggi l’uomo gira per il mondo ma, come ricordava in un suo bellissimo “pensiero improvviso” Sinjavskij, non aumenta come umanità perché gira, perché gira non essendo nessuno. Il problema non è girare, il problema è avere delle ragioni per questa capacità di uscire dal particolare e di portare la nostra esperienza di vita a tutti. Questa è la cosa certamente straordinaria. Il secondo punto è questa straordinaria iniziativa culturale, di cui i due libri toccano proprio sensibilmente i confini, fino all’ultimo, quello che la maggior parte di noi non è riuscita neanche a valorizzare bene. Forse qualcuno ha avuto anche qualche disagio quando si sono portati qui al Meeting per un anno, due anni, tre anni, i Bonzi del Monte Koya, aprendo all’incontro con i Bonzi un punto estremamente significativo dello sviluppo dell’autocoscienza cristiana di Giussani, perché la conferenza sul Senso Religioso che Giussani ha tenuto al Monte Koya è stato un momento fondamentale per loro ma – lui lo ha sempre detto – è stato un momento fondamentale anche per lui. Questa capacità missionaria è fatta con la cultura. Qui si tratta di intendersi bene, come ho detto stamattina nella rievocazione di Giovanni Paolo II: la cultura non è un fatto specialistico. Innanzitutto, la cultura è un posizione umana, una posizione di fronte alla propria vita, di fronte alla storia, di fronte agli altri, di fronte a Dio, se ci credi. Ricci ha investito in questa azione missionaria una cultura che era vastissima, anche quantitativamente. Conosceva cose straordinarie in letteratura, in filosofia, in politica, in sociologia, ecc., per un umore, per un istinto, per un naso, vorrei dire. Era estesa perché era stata percepita immediatamente nel suo valore, anche se poi molte volte mancava la possibilità di un approfondimento analitico. Una cultura vastissima che rendeva il dialogo con gli uomini senza pregiudizi. C’è un bellissimo punto del nostro libro – dico nostro perché ho fatto la Prefazione e la Conclusione – , in cui si racconta la capacità di dialogo che Ricci ha avuto con alcuni esponenti della teologia della liberazione in Perù, quando ha fatto cambiare parere a Giovanni Paolo II su alcuni di loro, che era andato a trovare, e il dialogo con i quali aveva significato un avvicinamento tra loro e il Santo Padre: cose inaudite.
La cultura, quindi, non è saper leggere di greco e di latino, e scrivere e avere molte altre virtù, perché questa cultura così intesa può perdere l’uomo e la società, come è dimostrato da quello che è accaduto negli ultimi secoli. Era un uomo che dialogava con tutti perché aveva un’identità forte, e l’identità forte è che per lui l’esperienza di Cristo era stata la luce della vita. E avendo avuto la luce della vita da Cristo, era capace di andare da tutte le parti valorizzando quel po’ di luce che si può trovare in qualsiasi posizione, ma soprattutto facendo emergere – in modo impietoso, qualche volta – la mancanza di luce che c’era. Era un uomo per cui il dialogo voleva dire capacità di intendere l’altro nei suoi aspetti positivi e nei suoi limiti.
Terzo, l’ho scritto anche sul Sussidiario, scrivo e parlo troppo, purtroppo… Ho visto Ricci seguire don Giussani come un ragazzo, con un impeto pieno di affezione e anche di sacrificio, perché non si segue senza sacrificio, una sequela senza sacrificio non è una sequela, per questo la maggior parte di quelli che si sposano poi si separano per cose banalissime. Perché non è una sequela, cioè non è un sacrificio ma un’affermazione di sé, un tentativo di strumentalizzare l’altro a sé, di cavare dall’altro un po’ di benessere per mandarlo sulla luna quando non dà più benessere. Ricci faceva fatica a seguire ma guardare Ricci che seguiva… Ce n’è stato un altro solo, che mi è stato esemplare: io non facevo molta fatica a seguire, ho incontrato Giussani a diciassette anni! Poi, per temperamento sono abbastanza mite, faccio quello che mi dicono di fare senza molte preoccupazioni. Chi ha bofonchiato all’aggettivo “mite”, farebbe bene a leggere sul vocabolario qual è la mitezza: la mitezza non è la coglioneria! In quello non sono mite e me ne vanto.
Dicevo: Ricci ha amato il Movimento più di sé, per questo ha reso quello che ha reso. Si produce e si crea perché ci si sacrifica. Non si può creare senza il sacrificio di un’appartenenza che ti stringe, con cui devi fare i conti, che implica magari il cambiamento istintivo della tua idea, mi spiego? E non è che Ricci cambiasse idea come bere un bicchier d’acqua: lottava giustamente per la sua idea e alla fine accettava l’idea comune, l’idea di Giussani. Quindi, è perché ha partecipato dal profondo della sua umanità, che ha ricreato per sé il Movimento. Giussani ha detto una volta che il Movimento – non so se è ricordato da qualcuno dei nostri interventi, mi pare nell’ottimo, bellissimo intervento di Sante Bagnoli, che è stato l’intervento di ritorno nella nostra compagnia dopo anni di fatica e di diaspora – non si ripete, non si commenta e non si organizza: il Movimento si vive e si rivive. Perciò la mia faccia e quella di Ricci fanno diventare Movimento una cosa mia, non nel senso esclusivo ma nel senso che io do l’apporto mio a questa grande cosa. Ricci non è stato né un ripetitore né un organizzatore, ma quello che ha portato la nostra immagine nel mondo, dando a questa immagine che portava nel mondo il volto assolutamente irripetibile della sua personalità. Un creatore. Non scomoderei Pietro e Paolo, è meglio lasciarli dove sono.
Ma penso che Giussani abbia creato una casa, che è cresciuta e ha resistito in tutte le difficoltà, e nelle difficoltà si è anche incrementata. Ricci ha dato cultura a questa casa: una casa senza cultura è un casino, pensateci, ogni tanto, quando entrate in casa vostra. Una casa senza cultura non è un’accoglienza, è un albergo. L’albergo non ha cultura, mi spiego?, il residence non ha cultura: e nella misura in cui le case assomigliano sempre di più ai residence o agli alberghi… È scomparsa la cultura. D’altra parte, una cultura senza casa è un’ideologia. Ecco la potenza dell’unità Giussani-Ricci: uno costruiva con il sacrificio di ore, di tempo, di energia, di dialoghi, di iniziative questa casa tutta sua che Dio ha abitato. Ma l’altro ha dato a questa casa la capacità di interloquire col mondo. Non potevano separarsi, la separazione sarebbe stata un delitto e infatti la loro affezione tenace è andata al di là delle differenze evidenti di temperamento, al di là della fatica, delle dialettiche che in una convivenza viva ci sono, e non sono obiezioni ma difficoltà da portare, perché nella chiesa di Dio non c’è nessuna obiezione se non la malafede della persona, ma le difficoltà e le fatiche diventano oggetto di una condivisione. “Portate gli uni i pesi degli altri e così adempirete la legge di Cristo”: questa è l’espressione suprema per me della moralità cattolica.
Da ultimo, vorrei dire, non dico ai più anziani, come me, ma anche a quelli di media statura, guardate che questa cosa è importante per i giovani: un movimento che non ha coscienza della sua storia è fragilissimo, come è diventata fragile la Chiesa in Italia. Perché hanno massacrato la nostra storia, l’hanno rapinata, ce la restituiscono secondo la loro fantasia malevola, piena di pregiudizi. Ma un movimento come il nostro, che segna ormai il passaggio dai cinquanta ai sessant’anni della sua vita, non può recidere le radici con la sua storia. Ora, a parte le cose bellissime – almeno per me, che ero lì dal 1957 -, uno avrebbe potuto dire: “Me ne frego della storia scritta, quella storia l’ho fatta anch’io”. Ma a me sono serviti moltissimo i volumi di Mons. Camisasca. Credo che questi due libri serviranno a dare agli anziani, e soprattutto ai giovani, il senso che la nostra è una pagina straordinaria che lo Spirito Santo di Dio ha consentito a Giussani e a tutti i suoi amici (e quindi anche a ciascuno di noi) di scrivere nella grande storia della Chiesa. Ma se un giovane non sa la storia della Chiesa e la storia della nostra Chiesa, non aggiunge nulla a questa storia, non scrive nulla. Primo, perché non sa scrivere, secondo, perché non sa dove scrivere. Questo perciò potrebbe condannare tanto impeto anche buono dei vostri giovani a qualche cosa di inconsistente: come dice il Papa, una carità e un entusiasmo senza verità e un emotivismo inutile.
Due aneddoti perché li ha citati. Sono brevissimi ma danno il tono, perché sono andato tante volte in viaggio con lui. Ricci aveva una fisima, portare sempre la sua sacca bellissima di cuoio, senza lasciarla mai in custodia a nessuno. Bene, a Praga, dove il regime comunista aveva la mano mica tanto facile, io passai perché le mie borse non erano di cuoio, perciò ero già di là. Nota che, per mandarti al di là e cominciare a fare tutto, l’interrogatorio durava anche mezz’ora. Prima, ti guardavano per un quarto d’ora da una feritoia così. Uno stava sotto gli occhi di questo per un quarto d’ora: dopo un po’, ti venivano tutti i mali del mondo, compreso il desiderio di andare al bagno. Io sono passato di là, mi hanno fatto l’interrogatorio, mi sono messo ad aspettare Ricci. Non si è messo a litigare con un poliziotto che voleva trattenergli la sacca perché secondo lui oltrepassava la misura? Una lite furibonda! Io dicevo: adesso questo lo rimandano indietro e io sto qua, che cosa faccio? Allora, di là del vetro, gli ho fatto capire: non fare il cretino, passa qua, dopo ti faccio un c..o così… Questo lo ha convinto. L’altra cosa che diceva Rondoni su Forlì, Forlì, Forlì. Ma se voi parlate di Forlì ai romagnoli, parlano di Forlì come al tempo di Cristo parlavano di Nazareth. Cosa caspita può venire da Nazareth? Cioè, il romagnolo medio, anche il più sfigato di tutti che è quello del Montefeltro, considera Forlì un paesone; l’espressione romagnola è il paesòn. È la dimostrazione che se uno ha motivazioni adeguate parte da un paesòn e investe il mondo. Grazie.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie, Mons. Negri, direi che non c’è molto da aggiungere, c’è solamente da rapinare, nel senso di acquistare, le copie disponibili di questi due complementari lavori che ci danno l’intera figura di don Francesco Ricci, secondo l’ampiezza, il significato e la profondità che abbiamo ascoltato quest’oggi. Per cui, un grande grazie a Mons. Negri, a Sandro Rondoni e a Ferrini. Grazie e arrivederci.
(Trascrizione non rivista dai relatori)