Chi siamo
INVITO ALLA LETTURA
LA VITA BUONA. Dialoghi su laicità, scienza e fede, vita e morte alla vigilia del Redentore
Presentazione del libro di Aldo Cazzullo, Giornalista e Scrittore e Angelo Scola, Patriarca di Venezia (Edizioni Messaggero). Partecipano gli Autori; Eugenia Roccella, Sottosegretario di Stato al Ministero della Salute.
A seguire:
ELOGIO DEL DISCORSO INUTILE. La parola gratutita
Presentazione del libro di Pietro Barcellona, Docente di Filosofia del Diritto all’Università degli Studi di Catania (Ed. Dedalo). Partecipano: l’Autore; Francesco Ventorino, Docente Emerito di Ontologia e di Etica presso lo Studio Teologico San Paolo di Catania.
Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
CAMILLO FORNASIERI:
Prego di accomodarsi. Benvenuti. Il Meeting in questo scorcio di giornata invita alla lettura di due lavori, di due libri. Andiamo a presentare il primo: La vita buona – Dialoghi su laicità, scienza e fede, vita e morte alla vigilia del Redentore. Gli autori sono Aldo Cazzullo, giornalista e scrittore, qui alla mia sinistra, che ha intervistato e incontrato Sua Eminenza il Patriarca di Venezia Angelo Scola, che risalutiamo, dopo aver appena seguito la sua bellissima riflessione, ed Eugenia Roccella, Sottosegretario al Ministero della Salute, volto amico e noto da noi. Il Patriarca partecipa e farà un saluto, un commento finale, chiediamo ai nostri due ospiti, all’autore e al nostro ospite Roccella, di introdurre e presentarci questo lavoro che, come dice il sottotitolo, sono riflessioni su temi di sempre ma collocati dentro questo nostro tempo presente, contemporaneo, alla vigilia del Redentore. Io vorrei dire solo due cose prima di dare la parola a Roccella per un primo intervento. Il Redentore è una festa ed è un luogo di fine ’500, come riporta la postfazione della Conte, molto bella. E’ un luogo che è nato in Venezia per un voto, per la peste che invadeva la città, ed è rimasto questo luogo nel tempo. Quindi sono dialoghi nati dal giornalista Cazzullo col Patriarca alla vigilia di questo momento così importante, che raduna il popolo di quella città, al crocevia tra occidente e oriente. Possiamo dire che Sua Eminenza Scola cerca di ricreare questo luogo, perché non può essere solo una ripetizione del passato che riaccade, una cerimonia, ma cerca di ricrearlo continuamente là, e di ricrearlo dentro l’agone del nostro tempo. Solamente in un luogo che c’è è possibile incontrarsi, parlarsi e andare avanti, incamminarsi verso quello che è il desiderio del cuore e l’aspirazione a cose grandi. Questo libro raccoglie cinque interviste in maniera estesa, le abbiamo lette sul Corriere della Sera, ma qui per ragioni di spazio sono diventate benevolmente integrali, e quindi una novità. Il secondo aspetto è che si nota questa grande sollecitudine del Patriarca verso la persona, io vorrei dire questo amore alla persona che si riflette in questa dimensione così grande che ha il suo pensiero, la sua sollecitudine ma anche quella intimità e carità che lo vede aggirarsi per le vie di Venezia a salutare, incontrare le persone. Ecco, questi due addendi di conoscenza, affetto per la persona singola e per la convivenza e necessità di spingere la riflessione di se stessi verso tutti, sono come i due elementi che legano i grandi temi che qui sono affrontati. Ma Roccella, ti chiediamo una prima tua reazione a questo lavoro.
EUGENIA ROCCELLA:
Abbiamo appena finito di ascoltare, con la fatica dell’ascolto come ha giustamente sottolineato il cardinale Scola, ma anche con la soddisfazione dell’ascolto, perché quando si fa una fatica che arricchisce è anche una fatica che ci riempie, che ci soddisfa, ci rende felici sostanzialmente. Quindi con questa fatica felice dell’ascolto abbiamo appena finito di ascoltare le riflessioni, la relazione del cardinale Scola sul desiderio di Dio nella postmodernità. Però questo libro è già una riflessione sui nodi della postmodernità. Sono individuati cinque nodi sostanzialmente, che sono proprio tipici della nuova condizione in cui dall’immediato dopoguerra, sostanzialmente dagli anni ’50 e sempre più clamorosamente poi con la fine delle ideologie, ma soprattutto con l’irruzione nella vita quotidiana della tecnoscienza, noi sperimentiamo. Perché ormai è una condizione in cui siamo immersi e che però ci trova sostanzialmente impreparati. Perché impreparati? Perché l’esperienza a cui tutti noi siamo affezionati, l’esperienza umana che abbiamo vissuto, che ci portiamo dentro, non riesce a venire dietro a queste novità, a queste rivoluzioni sostanzialmente che noi appunto sperimentiamo. Cioè è come se ci fosse una rincorsa a cui proviamo a tenere dietro, con riflessioni teoriche, anche con la politica, anche se la politica è quella che fa più fatica a tener dietro a questi mutamenti, ma resta come un residuo irriducibile alla postmodernità. Io ritengo che sia un residuo irriducibile. E condivido moltissimo queste riflessioni perché sono riflessioni teoriche che hanno al fondo una fondatezza teorica forte, ma non sono mai astratte. Sono riflessioni sempre che partono e attraversano l’esperienza. Il Cristianesimo è un’esperienza e l’umano è un’esperienza. E hanno al fondo anche un nodo qui non detto, ma evidente, che è la creaturalità. Il nodo di crisi di questa grande rivoluzione della postmodernità è questo, è la crisi antropologica che investe proprio l’uomo come creatura, il nostro essere finiti, piccoli, deboli, immersi all’interno delle nostre relazioni molto umane, troppo umane, in una condizione di fragilità, in una condizione esposta che è la stessa condizione che però ci permette di riconoscerci poi fratelli e di riconoscerci l’un l’altro attraverso questa esperienza comune. Io credo che il nodo sia questo, cioè la perdita della consapevolezza sull’esperienza umana, la perdita della consapevolezza sulla nostra creaturalità, che invece un tempo era data assolutamente per scontata. I nodi che individua il cardinale insieme a Cazzullo che l’intervista in queste cinque interviste, sono il rapporto scienza fede, la famiglia, la sofferenza e il fine vita, l’educazione, l’emergenza educativa, la laicità. La laicità – io dicevo che è molto sempre stimolante trovare che percorsi anche estremamente differenti poi arrivano ad esiti comuni. Il mio percorso personale qui al Meeting, ormai lo sapete perché ci conosciamo, è un percorso che viene dal mondo radicale, da una famiglia anche, da un’educazione assolutamente non cattolica, anzi, anticlericale e anche un po’ anticattolica e attraverso il femminismo, e attraverso altre esperienze culturali e politiche. Però nel mio percorso io sono sempre partita dal tentativo di arricchire la consapevolezza attraverso l’esperienza. Quindi da un essere situati nella differenza e nel proprio corpo e profondamente radicati in un’antropologia. La laicità che mi hanno insegnato è un’idea di laicità come libero approccio alla conoscenza. La laicità, la nuova laicità che suggerisce il Cardinale Scola è una laicità di questo genere. E’ una laicità prima di tutto dialogica. Non è una laicità che separa nelle due classiche sfere la religione e lo stato, anche se questa separazione è evidente, ma non parte da lì. Parte dalla stessa idea con cui viene sviluppato il concetto di meticciato, cioè da un’idea di identità forte che è capace di confrontarsi con quelle delle altri. Da un’idea di esperienza comune, che quindi apre al confronto e non può fare a meno del confronto e della relazione. Anzi, che proprio si iscrive nel confronto e nella relazione, non come ritualità, come diceva Cesana pochi minuti fa, (non pochi minuti fa perché è stata lunga la relazione del Cardinale), circa la risposta dello studente alla domanda: tu come la pensi? Ognuno la pensa come vuole. Non è questo, non è questo, non è dialogico, non è appunto la neutralità della laicità alla francese in cui alla fine, come sottolinea il Cardinale, tutte le vacche sono nere o grigie. E’ una laicità capace di percorrere criticamente un processo conoscitivo in modo libero, forte della verità, forte della propria identità, forte delle proprie consapevolezze, e quindi aperta anche alla contaminazione, alla possibilità di contaminarsi, alla possibilità di confrontarsi senza nessun timore. Io credo che oggi invece il tentativo di riproporre costantemente la divisione laici cattolici, credenti non credenti, con una testardaggine nello stereotipo che è assolutamente superato, è perché ogni cosa va a finire sui giornali, per esempio, soltanto se c’è uno scontro laici cattolici. I temi etici per esempio, finiscono sui giornali solo se si può dire che c’è uno scontro laici cattolici. La posizione laica è quella aperta alla scienza, aperta al futuro, aderente al percorso storico della postmodernità appunto, mentre quella cattolica è quella retriva, è quella agganciata all’impossibile conservazione che doveva essere sepolta dalla secolarizzazione e invece non lo è stata, come viene sottolineato ancora nel libro, comunque è qualcosa di sostanzialmente superato dalla oggettività della scienza, degli sviluppi scientifici, soprattutto degli sviluppi scientifici e poi anche dalla globalizzazione, dai fenomeni della contemporaneità. Io invece penso che sia veramente un modo antico di porre la questione, un modo che è superato proprio dalla scienza, dai dati, dalla verità dei fatti, che viene spessissimo ignorata. Tocchiamo immediatamente anche il discorso sul rapporto scienza e fede. Perché è lo stesso discorso che facciamo sulla laicità o per il meticciato. Il rapporto scienza e fede, se esaminato alla luce dei dati reali di una visione, di una lettura dei dati che non è ideologica, è un rapporto assolutamente liscio, assolutamente spontaneo. Basti pensare a quanto, a quanto di antiscientifico, cioè di scientista, quindi di ideologia della scienza ma sostanzialmente antiscientifico ci fosse, tanto per fare un esempio, nella campagna referendaria sulla legge 40 e sulla ricerca sugli embrioni. Se oggi alla distanza verifichiamo tutto quello che è stato detto allora, verifichiamo per esempio, non so, il manifesto degli scienziati, non so se vi ricordate, il manifesto dei 100 firmato all’epoca della campagna referendaria sulla legge 40. Oggi è impressionante quanto avessero clamorosamente torto, alla luce del fatto che la più grande truffa, credo della storia della scienza, si è consumata sull’inesistente clonazione terapeutica. Una truffa scientifica in cui tutta la comunità scientifica è caduta, è caduta per ideologia, cioè perché c’era dietro una voglia, un desiderio, non in questo caso un desiderio buono, ma un desiderio ideologico, cioè un desiderio di non verificare, un desiderio che quella cosa fosse vera. Mentre era clamorosamente falsa, altrimenti non si capisce come il fior fiore delle riviste scientifiche avesse creduto a un cosa che era una bufala evidente. Oppure se verifichiamo altri dati, pensiamo alla ricerca sulle embrionali, morta, finita, una ricerca residuale che allora invece ha chiamato in causa questioni come l’autorefenzialità della ricerca scientifica, cioè la sottrazione della ricerca scientifica, unico campo dell’agire umano, al giudizio etico. Non si capisce perché tutto l’agire umano è sottoposto al giudizio etico, mentre la ricerca scientifica avrebbe dovuto essere libera da ogni vincolo e totalmente autoreferenziale. Se oggi andiamo a vedere chi aveva ragione, chi era in effetti più aderente a una conoscenza come appunto libero approccio critico alla conoscenza, certamente era chi era dalla parte dei cosiddetti cattolici. Io dico dei cosiddetti, perché in quel momento lo schieramento era molto più ampio e proprio la divisione laici cattolici mi sembra veramente molto riduttiva, molto inadeguata. E questo lo possiamo verificare su tutti i campi, pensiamo anche alla famiglia. Anche qui, la famiglia è un nodo fondamentale, perché la famiglia è ferita non soltanto dalle filosofie, dagli stili di vita, dai costumi che oggi prendono piede. E’ ferita soprattutto dal fatto che, ormai cinquanta anni fa, la generazione, cioè la possibilità di generare è uscita dalla normale, tradizionale, dal tradizionale campo della relazione umana, la relazione affettiva, della relazione dei corpi, della relazione fra persone differenti, uomini e donne, e si è trasferita in laboratorio. Questo ha creato la possibilità di un’antropologia completamente diversa, ha ferito nel profondo proprio l’idea, l’esperienza concreta e quindi poi anche l’idea della relazione, della famiglia, e della generazione. E di riflesso anche la condizione umana come condizione creaturale. Il fatto di poter creare la vita, non crearla ovviamente, ma questo è il lessico che viene sempre usato, creare la vita in laboratorio, l’idea cioè di spostare la vita in provetta, in laboratorio, spostarla dalla condizione naturale che è quella proprio della relazione uomo donna, della relazione affettiva, ha creato un territorio, come posso dire, un territorio di ambiguità sul piano antropologico, su cui poi tutto si muove, tutto si sposta, tutto diventa difficile, più difficile da giudicare, perché il primo problema è proprio la capacità di giudizio, la nostra capacità di giudizio. E mi sembra appunto che il percorso che viene fatto in questo libro è un percorso parallelo a quello che è stato fatto invece ad un livello più alto nella relazione che abbiamo sentito oggi. Un percorso parallelo che ha, anche se nel libro non si entra mai nella tecnicalità come spesso viene detto in politica, un immediato riflesso anche politico. Io non posso sottrarmi anche al mio ruolo. E l’immediato riflesso politico è proprio che oggi è impossibile fare attività politica, tanto meno attività di governo, essere un partito politico, quindi una parte, senza avere una visione antropologica chiara. Non è possibile non avere, non sapere non soltanto quale società vogliamo costruire ma anche a quale uomo, a quale idea di uomo, a quale esperienza umana facciamo riferimento. Questo anche se, la politica lo capisce a fatica, i temi etici di cui tanto si discute sono però anche temi che tutti hanno sempre un po’ di timore ad affrontare, perché vengono considerati temi divisivi, quando invece è esattamente il contrario. Io cito sempre quella bellissima frase, nella nota dei vescovi ai politici prima del family day, sul fatto che tutti abbiamo un’esperienza in comune, tutti gli uomini hanno un’esperienza in comune: essere figli di un uomo e di una donna. Questo è qualcosa che unisce, che affratella, non certo qualcosa che divide, eppure anche il family day, è stato letto invece come qualcosa che lacerava, come qualcosa di divisivo, sempre nella logica laici cattolici, come se ci fosse una famiglia che appartiene solo ai cattolici, e invece i laici non si sa, non si sa di chi sono figli i laici, non si sa a quale famiglia si possono rifare. Ecco, io credo questo libro che noi abbiamo sia utilissimo, io lo darei ai parlamentari, lo diffonderei tra i parlamentari, perché appunto non si possono accantonare, diciamo, i temi etici, non si tratta solo di temi etici perché appunto parliamo di immigrazione, di meticciato, parliamo di tante cose, ma riuniamoli pure in questa definizione generica di temi eticamente sensibili. Non si può pensare né di accantonarli né di evitarli, perché entrano di prepotenza, con una forza autonoma nell’agenda politica. Noi, come governo, abbiamo appena presentato l’agenda per la bioetica. Però c’è, c’è già. Se noi non l’avessimo puntualizzata, non l’avessimo definita, saremmo venuti meno al nostro dovere, come governo, di governare le cose che arrivano, di governare i fenomeni che ci sono. Ecco, sono temi che non si possono accantonare, e che chiedono con urgenza una riflessione ulteriore, una riflessione chiara sull’esperienza umana a cui ci riferiamo come politici, dove vogliamo andare, non soltanto nella costruzione della comunità, della società, nel benessere economico, ma dove vogliamo andare dal punto di vista della conservazione di questa esperienza umana. Come dicevano appunto i vescovi in quella nota, siamo tutti figli di un uomo e di una donna. Sono domande elementari. E’ così? E’ questo che ancora ci unisce e ci affratella? Ci dobbiamo porre queste domande fondamentali e dare delle risposte chiare, altrimenti anche come politici falliremo. Io farò questo sforzo, farò questo sforzo di diffondere questo libro presso gli amici che fanno politica, almeno nel PDL. Grazie.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie, grazie della testimonianza in sintonia con questi temi, la parola al co-autore Cazzullo, che ci mostri la genesi, che e cosa lo ha colpito e cosa lo ha portato ad avvicinarsi a questa possibilità di dialogo.
ALDO CAZZULLO:
Intanto io vorrei ringraziare te Camillo, gli amici del Meeting per questo invito, cui tenevo moltissimo, perché questa nostra conversazione chiude un po’ il percorso – magari proseguirà in altre forme – ma questo libro chiude un percorso che io considero una delle cose più significative che io ho fatto in questi miei ormai 22 anni di vita professionale. Quindi lasciatemi ringraziare le persone che l’hanno resa possibile e quindi ovviamente il Patriarca, che è stato così gentile che ha voluto essere qua stasera, anche dopo l’impegno anche intellettuale della sua straordinaria relazione di prima, il sottosegretario Roccella, che ovviamente invito a diffondere il libro anche a Montecitorio, che mi fa molto piacere. Maria Laura Conte che è la persona che mi ha fatto incontrare il Patriarca e gli amici del messaggero di Sant’Antonio: padre Ugo Sartorio, Sabriona Fadel, che hanno avuto l’idea di raccogliere le interviste in questo libro. E a ringraziare ovviamente voi che siete venuti così numerosi a fine serata, mi fa piacere anche per il Patriarca, visto che il suo incontro è andato quasi deserto quindi… mi fa piacere! Però la cosa che più mi ha colpito, non so se ha colpito anche voi, non è soltanto il numero impressionante di persone che erano ad ascoltarlo, più quelle che erano sedute fuori davanti al maxischermo, ma è stato il silenzio e l’attenzione con cui è stato seguito. Il numero fa impressione, gli applausi sono anche facili. Ma il silenzio, l’attenzione a me ha colpito molto. Io ero in seconda fila e vicino c’era una coppia, un uomo e una donna, giovani, avevano l’auricolare, quindi erano stranieri e avevano un bimbo, un neonato proprio di poche settimane, ho pensato: oddio il bambino fra poco inizierà a piangere e fra poco rovinerà tutto. Invece il bambino è rimasto in assoluto silenzio proprio per un’ora e venti e non dormiva! Non so se ascoltasse, però, sicuramente, un imprinting gli sarà rimasto! Perché sono davvero grato a chi ha reso possibile pubblicare queste interviste? Perché anche se non è ovviamente un saggio, con una tesi compiuta, con una sua organicità, un saggio che magari si scrive in un mese, in due mesi, questo è un libro che dura sei anni, dove sono sei interviste: ce n’è una sul ’68, una sulla nuova laicità, una su scienza e fede, sulla famiglia, sulla scuola, sul fine vita a cui idealmente andrebbe aggiunta l’intervista sul bell’amore, che abbiamo fatta il mese scorso (che fatalmente non può esserci nel libro). Però pur essendo un libro che dura sei anni, è impressionante – ovviamente non per merito dell’intervistatore ma per esclusivo merito dell’intervistato – beh, la logica, il modo in cui i vari temi sono concatenati, sono uniti l’uno all’altro. Questo perché in questi anni di lavoro culturale che il Cardinale Scola ha fatto attraverso la sua rivista, Oasis, girando il mondo, lavorando molto su Venezia, beh, in questi anni il Cardinale è andato elaborando un suo sistema di pensiero, direi il suo modo di vedere il mondo, una sua filosofia, che ha fondamenta ben piantate nel deposito della fede, nella dottrina e anche nella grande letteratura cristiana, dai Padri della Chiesa, al suo amato Pascal, che ha ovviamente le fondamenta ben piantate nel papato di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, anche alla luce del forte rapporto personale che ha legato Scola a Karol Wojtyła e che lo lega a Joseph Ratzinger. Comunque è un sistema di pensiero che ha dei forti elementi di autonomia. Questo perché, ovviamente, qualsiasi filosofo, qualsiasi intellettuale – Scola è anche questo – ha una sua visione del mondo, una sua autonomia, una sua originalità di pensiero, ma anche perché l’elaborazione culturale di Scola si applica su cose nuove, su cose che i Padri della Chiesa non potevano prevedere; è proprio su questo mondo nuovo, su questo uomo nuovo che Scola parla nel prossimo libro che esce proprio in questi giorni da Mondatori. E, come dire, questo sistema di pensiero ha delle parole chiave, che sono diventate ormai lessico comune. L’espressione “nuova laicità”, è un’espressione di cui si dibatte; ne ha parlato Prodi, ne ha parlato Tremonti; è una espressione coniata da Scola sei anni fa e credo che la massima soddisfazione per un intellettuale sia proprio affidare i suoi concetti, le sue parole chiave alla discussione pubblica. L’espressione “meticciato” è una espressione di cui ormai si parla comunemente, espressione coniata da Scola per dire una cosa che si può così sintetizzare: la società interetnica non è una scelta, è una necessità e non se ne esce ignorandola, se ne esce dialogando con l’altro, ma non in una dimensione sincretica, new age, confusionaria, ma forti di una propria identità, delle proprie convinzioni. È qui il dialogo: io dico la mia, tu dici la tua, il parlamento e l’elettore decideranno. È questo il fondamento anche della nuova laicità, di cui ha detto molto bene Eugenia Roccella. Forse a questa parola chiave andrebbe aggiunto l’“io in relazione”, che è al centro poi del prossimo libro. La parola che, io credo, potesse unire meglio le varie riflessioni di Scola per questo libro era, secondo me l’espressione: la vita buona. Perché la vita è, come sappiamo, dolce – per Fellini – è agra – per Bianciardi – è bella – in un libro di Lucio Dalla, in un film di Virzì – ma quasi mai la vita è buona. Ecco, questa idea di vita “buona”, che non ha veramente nulla di moralistico è l’idea, il fil rouge, l’idea che tiene insieme i vari temi trattati in questo libro. Mi dispiace di non essere riuscito sempre a rendere nelle mie pagine la grande e profonda umanità con cui Scola affronta questi temi. Perché la cosa che mi colpisce molto quando vado a trovarlo in Patriarcato, è da una parte il modo amorevole con cui lui dice anche cose molto dure o comunque inflessibili. Non so, se avete notato, quando all’inizio della relazione, il Patriarca ha detto: capisco che l’ascolto è anche fatica, sappiate che alle sei e mezza potremmo andare a bere qualcosa di fresco. Cosa voleva dire? Voleva dire: statemi a sentire, io ho lavorato, adesso lavorate anche voi, chi vuole disturbare esca e vada al bar adesso, ma lo ha detto in un modo talmente morbido, talmente amorevole che ci ha in qualche modo conquistato. E devo dire che io sono colpito anche dalla simpatia istintiva con cui Scola riesce a dire anche cose – ripeto – molto dure. E, devo dire, anche dalla sua fisicità. Io nel libro, questo, nella prefazione lo scrivo. Quando, magari, lo aspetto in Patriarcato, mi soffermo a vedere i ritratti dei suoi grandi predecessori, per cui ci sono alcuni profili che ci sono familiari, che ci sono cari. Penso ad Angelo Roncalli, Giovanni XXIII, ad Albino Luciani, Giovanni Paolo I, ecco, io trovo – e lo scrivo nella prefazione – che c’è qualcosa in Scola che mi ricorda Roncalli. So -lui non me lo ha detto – però so che il Patriarca è rimasto un po’ perplesso (“non ci assomigliamo mica”), però si chiamano entrambi Angelo, entrambi sono lombardi, con un accento lombardo, ma soprattutto io ritrovo, nel Patriarca, il modo amorevole con cui si pone di fronte al peccato e al dolore. Ecco, una profonda umanità che è testimoniata da alcuni passaggi del libro, di cui – ripeto – io non ho alcun merito. Ad esempio, quando Scola racconta, nell’intervista ultima che c’è nel libro, quella sul fine vita, racconta “che un anno e mezzo fa ho visto morire un mio amico, Monsignor Gianni Danzi, l’arcivescovo di Loreto. Ho celebrato con lui la santa Messa. Pareva incosciente, ma al momento dell’elevazione ha tentato disperatamente di alzarsi in piedi. Una sua nipote gli teneva la mano. Due ore dopo è morto. Quel tenergli la mano era il modo per aiutarlo a passare dalla mano dell’uomo alla mano di Dio”. E sempre parlando di questo tema, raccontando esperienze personali, il Patriarca mi ha raccontato una cosa che gli è accaduta – una parte del suo mestiere è anche a fare il “parroco della grande Venezia”, quindi girare le case dei parrocchiani. Ecco, racconta Scola nel libro: “mi ha colpito un padre di 48 anni, totalmente immobilizzato, che comunica solo con le palpebre superiori, attorniato dai tre figli che gli indicavano delle lettere su una tavoletta, in modo da aiutarlo a esprimersi. Tre bambini di 8, 10 e 12 anni, tutti gioiosi intorno al suo letto”. E io gli ho chiesto: quel padre è riuscito a dirle qualcosa? Sì, mi ha detto: Patriarca, guardi io sono contento di vivere e lei? Beh, in quelle situazioni fai un’esperienza salutare, ti senti un verme. Ecco, io ero convito che, facendogli rileggere l’intervista, lui avrebbe tolto quell’espressione. Invece no, lui l’ha lasciata, me l’ha riconfermata, perché poi alla fine quello che conta è l’amore che c’era attorno a quel letto. Amore, dice Scola: “Amore è amore solo nella misura in cui è per sempre e nessuno può promettere niente per sempre, se il per sempre non è fino alla morte e oltre. Non c’è amore senza promessa, non c’è promessa senza per sempre, e non c’è per sempre se non sino alla fine, sino e oltre la morte. I tre figlioletti, pieni di gioia, attorno al letto del loro papà malato, in una casa piena di letizia, nell’innocenza di quei bambini ho visto che cosa è l’amore”. Ecco, io sono molto orgoglioso di aver scritto, di aver parlato senza alcun merito, di aver raccolto le parole di un uomo che parla così.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie. Un ringraziamento va anche, oltre per il lavoro svolto da Cazzullo, anche per la scelta di stare una settimana con noi come giornalista a seguire tutta la manifestazione del Meeting, per cui a nome di tutti, ti ringraziamo anche di questo. Un messaggio finale, Patriarca…
S. EM. CARD. ANGELO SCOLA:
Sì, io prendo la parola solo per dire grazie, ho già parlato troppo, anzitutto all’onorevole Roccella, perché ha colto realmente il filo rosso di questo volume, nella sua implicazione alla costruzione di una Polis, di una comunità sociale e politica, fondata veramente su quella amicizia civica, la filia, di cui già parlava Aristotele. E l’idea della nuova laicità è proprio questo. E questa è una documentazione bellissima di quel che mi sono sforzato di dire oggi: la sua storia, la sua esperienza, già conteneva una visione dell’uomo e della vita civile che è la stessa della mia, che invece ho imparato la fede con il latte di mia madre. Ecco, questo dimostra molto bene che il cristianesimo, come dire, altro non è se non il chiamare per nome l’esperienza umana. Dio non è più un’idea generica, Dio è uno e trino, è un uno assoluto in cui tre si amano e per questo ci crea, per questo ci redime, per questo ci salva. Qual è l’uomo che non ha nel cuore questa domanda? Quindi sono molto grato perché sapere che si sono impegnate in politica persone che hanno una sensibilità di questo tipo… e sono molto grato anche per questa rottura di schemi (cattolici, non cattolici, credenti, non credenti) perché se Dio è con noi, se Dio è dentro la realtà, nessun uomo è lontano da Dio, anche il bestemmiatore non può essere lontano da Dio. Quindi la mia gratitudine è per essere qui e, soprattutto, però, per l’impegno che mi auguro possa essere un paradigma in questo momento veramente delicato e difficile che dura da troppi anni, di transizione socio-politica del nostro Paese, possa essere un esempio realmente per tutti. Bisogna anche pregare per i nostri politici, almeno quelli che credono, perché realmente abbiano un soprassalto, tutti quanti. Ma non dobbiamo mettere sul banco degli imputati, soprattutto chi ricopre dei ruoli istituzionali: insomma, la grande questione è che la tua faccia venga fuori nella vita. Dico sempre ai ragazzi: sta’ attento che la vita ti è data per essere donata e qual è la controprova di questo? Che se tu non la doni, il tempo te la ruba, non c’è nulla da fare, da qui non scappi. Allora io sono grato quando incontro un politico così. La politica non è primariamente invenzioni di strategie o ricerca di sistemi di risposta ai bisogni della gente. La politica è l’affronto dei bisogni comuni del popolo, a partire dalla propria compromissione con gli altri e con la realtà. Dentro questo ci sta anche l’interesse, ma nel senso nobile della parola: Inter-Esse, cioè l’ “io” in relazione. Ecco, io sento che il nostro Paese ha bisogno non tanto di “tecnicalità” politica, perché forse ne ha già tanta. Mi sembra che sul piano delle tecniche e delle esperienze ci siano realmente uomini di grande valore, nel nostro Parlamento, nel Senato eccetera. Ciò che mi permetto umilmente di sottolineare, è che senza il godimento autentico della vita, senza la vita buona, la tecnica da sola non muove. Cioè la tecnica la uso, ma non muove né commuove, non mi da la voglia di ricominciare domani mattina. Questa me la dà solo l’“io” in relazione.
Ad Aldo devo invece dire un grazie ancora più deciso – non per far classifiche – perché? Per due motivi. Prima di tutto perché vale il contrario di quello che lui ha detto. L’ottanta per cento di un’intervista dipende dall’intervistatore. Se uno è fesso e fa domande fesse, ti appiattisci lì e tu sei fritto, mi sono spiegato? Invece lui, con una pazienza e una fedeltà che mi ha commosso, mi ha sempre stanato, provocato, lasciato libero di dire di tutto, si è sorbito la fatica di concentrare un’ora e mezza di parole mie in qualcosa di ragionevole e di comprensibile e questo è il primo grazie. Ma c’è un secondo grazie, che senza la provocazione che mi è venuta dalla sua proposta di un’intervista per il Redentore, per cui ringrazio anche la Maria Laura Conte che mi aiuta realmente con molta intelligenza a comunicare con gli altri, io non avrei scritto né il libro sulla nuova laicità, né quello che è uscito oggi sulle ragioni buone per la vita in comune, perché è stato sulla sua provocazione che mi è venuta voglia di ordinare, di coordinare i materiali che avevo io. Io da me, non avrei mai preso l’iniziativa. Quindi lui ha il merito. Io capisco che poi questi volumi possano stufare, lui non c’entra più – vedetevela voi – ma comunque mi ha anche portato a questo. E mi ha portato a questo perché c’è gusto a parlare – quest’anno poi l’abbiamo fatta [l’intervista], lui era in sud Africa per il calcio e io ero a Venezia – è stata interessante la cosa. Nonostante questo, questa sul bell’amore e sulla castità è venuta bene. Poi per quanto riguarda i nodi, sono già stati detti, in particolare tengo molto a questo tema del meticciato di civiltà come processo; e sono molto contento che gli amici di Oasis hanno fatto uno stand qui e hanno messo a disposizione di tutti la rivista – Oasis è un centro molto più complesso – ma la rivista è significativa, perché ci siamo accorti in questi cinque anni che noi occidentali europei non conosciamo niente di niente dell’Islam. Avendo fatto questa rivista all’inizio per pensare di aiutare i nostri cristiani dell’Islam, adesso dopo cinque anni ci siamo accorti che ad averne bisogno siamo soprattutto noi. Ecco perché ci teniamo molto a diffonderla adesso in Europa. Il terzo grazie va al Messaggero, Sartorio, che ha voluto con molta insistenza e forza questa pubblicazione, la mia agenda mi costringeva sempre a dire: ma no, come dire, è già uscito, quello che è, e lui ha voluto, e Aldo si è prestato, e mi pare che è molto utile che le cose, più o meno buone, pensate, siano potute essere dette con l’arte del giornalismo. Abbiamo dei grandi giornalisti in Italia oltre a Cazzullo, c’è qui anche il Farina (che adesso si è dato alla politica), ma anche lui è un grande giornalista, bisogna riconoscerlo, ma poi ce ne sono tanti altri – non tantissimi, eh -. Dicevo che Il Messaggero è una rivista mensile bellissima, cioè io trovo che è fatta veramente molto bene, è molto stimolante e perché mantiene una vicinanza al popolo (non solo al popolo di Dio), veramente acuta. E poi grazie a voi, che dopo esservi sorbiti un’ora e venti, siete venuti anche qui.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie Eminenza. Forse può far piacere condividere una notizia che credo che possa essere detta riguardo a questo tema del dialogo e della conoscenza reciproca: a fine ottobre, grazie a tre giudici della corte egiziana si svolgeranno due giorni di Meeting, proprio al Cairo, con relatori nostri, occidentali, e loro. E c’è una grande attesa, sono già tremila-quattromila persone iscritte a questo momento che andremo a seguire, per cui seguiamo le tracce… Andiamo avanti… Per cui grazie ancora Eminenza, grazie a Roccella e a Cazzullo.
Protagonisti della seconda presentazione, sono Piero Barcellona, interviene Francesco Ventorino. Prego.
Allora, le edizioni Dedalo, una casa editrice tra le molte di qualità e di forza nella miriade dell’editoria italiana, grazie a Pietro Barcellona ha dato il via a una collana che intende guardare dentro questo tempo di transizione, di cammino, di preoccupazione verso tanti problemi che assillano il nostro tempo, la nostra società e la persona, proprio perché è difficile trovare un filo rosso, un cammino un percorso. Pietro Barcellona ci regala Elogio del discorso inutile, sottotitolo: La parola gratuita.
Facciamo un applauso a Barcellona, perché siamo contentissimi di ritrovarlo anche quest’anno. Io personalmente voglio manifestare questa felicità. È con noi don Francesco Ventorino, che ce lo ha fatto conoscere anni fa, che introdurrà questo libro. Io mi esimo dal sottrarre parole ai loro interventi se non dicendo che è un libro importante, perché mette per iscritto tutto il dialogo sulla vita, con la vita che Barcellona ha intrapreso attraverso il suo insegnamento, attraverso il suo impegno politico, attraverso il suo impegno negli organi della magistratura e nel dialogo con i giovani. La parola scritta è una fatica, come lui mi ha sempre testimoniato, ed è davvero un grande regalo, perché questo tema della parola gratuita colloca e precisa quanto già abbiamo ascoltato in quella sfera per cui io e te siamo insieme prima di essere sottoposti a una misura, a un risultato, a una necessità. E non è per nulla una fuga sull’Aventino, ma è un cercare di andare al fondo, di andare nel profondo, ed è un’amicizia, tanto è vero che il dialogo con la filosofia, il dialogo con la teologia, il dialogo col tema della psicanalisi come forme di discorso, in cui l’io emerge, storicamente anche attraverso delle forme, che la civiltà grazie a Dio ci ha regalato, è questo tentativo di entrare nel cuore, nel cuore del cuore. Don Ventorino, partiamo subito.
FRANCESCO VENTORINO:
Elogio del discorso inutile è l’opera che meglio delle altre caratterizza la svolta culturale e spirituale che ha segnato gli ultimi venti anni della vita di Pietro Barcellona. Dalla militanza nel Partito Comunista, dopo il crollo del muro di Berlino e la conseguente drammatica evidenza della degenerazione dei regimi comunisti, attraverso il travaglio di una revisione profonda della sua personalità, perviene come ad una sorta di resurrezione della consapevolezza di sé, come la chiama. Risurrezione della consapevolezza di sé, nella quale tutto è recuperato, soprattutto il suo passato. Nulla è rinnegato, tutto è recuperato. Nei desideri più profondi che l’avevano contrassegnato, importanti e decisivi sono stati per lui gli incontri fatti.
Ascoltate questo passaggio, che è quasi all’inizio del libro. “Non si può comprare a nessun prezzo la gioia di essere vivi dopo una notte di tempestosa trasvolata nel cielo. Il senza prezzo dell’eccedenza è il valore dei rapporti tra l’io e il mondo, tra sé e l’altro, che non si può ridurre a valore di scambio, che non è calcolabile con criteri di misura utilitaristici”. Ecco, si potrebbe dire che questa storia di sé che Barcellona vuole raccontare è una esaltazione dell’incalcolabile, come senso e fondamento di speranza per l’esistenza umana. È una esaltazione dell’irruzione dell’impensato, o dell’esperienza dell’eccedenza, che possono essere descritti, come dice lui, solo attraverso il linguaggio incommensurabile della gioia e della vita, o se vogliamo, attraverso il “discorso inutile”.
Il discorso inutile, quindi un’opposizione netta verso la pretesa di ridurre tutto a ciò che è spiegabile, e al linguaggio scientifico come onnicomprensivo, che nell’epoca attuale sembra la sola via per accedere ad una qualche verità. La soggettività umana, nella sua esigenza di comprendere e raccontare la realtà, non si lascia costringere all’interno di una descrizione o spiegazione scientifica di essa. È necessario quindi dare spazio a discorsi alternativi. Il primo di questi discorsi è il discorso psicoanalitico. Ma la convinzione di Barcellona è che il discorso psicoanalitico tende a realizzare una comprensione del mondo e di se stessi, e quindi portato fino in fondo, apre al discorso filosofico, cioè alla ricerca dell’originario, del discorso filosofico che Barcellona confessa di, da cui Barcellona confessa di essere stato attratto con una modalità socratica che lo ha segnato da ragazzo e poi per tutta la vita. Ma a questo punto si chiede: perché anche il discorso filosofico ha smesso di essere un discorso inutile? Cioè, anche il discorso filosofico si è tramutato in un discorso strumentale, cioè atto a spiegare il perché degli eventi che accadono lungo il cammino della nostra esistenza. E la risposta è molto interessante. La tragica esperienza del fallimento del possesso della verità assoluta ha spinto i filosofi a sostituirla con la certezza acquisita attraverso la sperimentazione delle ipotesi, come risultato di un metodo scientifico.
E quindi la filosofia e divenuta filosofia della scienza. Ma cosa c’è dietro questa riduzione della domanda sullo specifico umano, a logica, epistemologia, teoria della conoscenza? È un’opera di rimozione del problema della finitezza degli esseri mortali. La negazione, quindi, da parte dell’uomo, di un’appartenenza originaria e costitutiva del suo essere, che ha portato all’epoca della morte di Dio e della morte dell’uomo. Eppure nel cuore dell’uomo rimane il senso profondo della dimensione religiosa, come ricerca di una via di salvezza che non è appena soltanto speranza di un perdono, ma soprattutto il desiderio di conservare, oltre la soglia dell’oscuro silenzio, gli affetti e il senso della propria esistenza.
A questa esigenza viene incontro in modo impensato e impensabile il cristianesimo. A questa esigenza viene incontro la straordinaria innovazione che Cristo introduce nella storia. L’evento della nascita di Cristo è un sussulto dell’universo che si ribella al proprio destino mortale. È un’energia che rimanda a null’altro che alla propria manifestazione, che irrompe nella storia umana e ne sospende il flusso. Perché la sua piena presenza non è pensabile se non come evento, evento pieno nell’istante. Nella conclusione dunque l’autore confessa che il discorso religioso trova il suo culmine nell’evento cristiano. L’essere umano non può non sapersi se non incontra nella propria esistenza questa esplosione dell’evento assoluto che è Cristo. Confessione che mi commuove perché mi riguarda personalmente. Barcellona infatti riconosce che questo incontro per lui è accaduto attraverso un prete di cui è diventato amico in questi ultimi anni.
PIETRO BARCELLONA:
Ci sono mille ragioni che rendono difficile questo mio intervento. L’orario, il contesto che si sta ormai orientando verso forme più divertenti di intrattenimento, però anche per dovere verso chi così affettuosamente mi ha invitato a partecipare, dopo tante altre presenze al festival di Rimini, che ormai è diventato un appuntamento della mia vita ordinaria, e a don Ciccio che così affettuosamente ha espresso le sue valutazioni su questo lavoro, debbo necessariamente dire qualcosa.
Sarò abbastanza breve, però voglio trasmettere alcuni elementi per chi poi avrà tempo di guardare il libro. La prima cosa: questo non è un esercizio intellettuale. Questo libro non è, come del resto anche quelli che immediatamente l’hanno preceduto, un libro pensato, come è accaduto altre volte nella mia vita, sulla base di uno schema, di una scaletta e poi una serie di sviluppi, ma è un libro detto man mano che si facevano le esperienze, cioè, il discorso psicanalitico non è stato letto sui testi sacri della psicanalisi, è stato sperimentale.
Cioè, io sono andato in una forma grave di depressione, quando è crollato il mio partito, e questa depressione era un’occasione, poi è stata un’occasione positiva, per apprendere una realtà che per certi versi mi era sfuggita, avevo trascurato. Il sapere dell’uomo non è un sapere affidato esclusivamente all’intelletto. Anzi, sono arrivato alla conclusione, un po’ paradossale, che il vero soggetto della conoscenza è un soggetto affettivo, che si conosce soltanto quando ci si immette affettivamente in ciò che si trova di fronte, che comunque la presenza dell’altro resta qualche cosa che non può essere attraversato come un fantasma, come quello che Ulisse incontra della notte degli Inferi quando vuole abbracciare la madre e gli scappa. No. L’altro è una presenza dura, opaca, forte, che richiede una risposta affettiva.
E questa risposta affettiva non è una forma di utilizzazione, di inclusione nel proprio mondo di questa alterità che si incontra. Cercherò di dire perché Cristo mi sembra una figura di rottura rispetto alle tradizioni, delle forme di amore che sono state rappresentate. Perché l’apporto strumentale è molto facile, anche nelle forme classiche del riconoscimento reciproco hegeliano, c’è una forma di utilitarismo, io ricavo il vantaggio, riconoscendo te, di essere riconosciuto da te. E’ in media questo elemento che io ho chiamato nell’esperienza analitica del disarmo di fronte all’altro, dell’abbandono di tutte le mediazioni che sono pregiudizi, che sono ostacoli.
Io vi invito tutti a fare un esercizio su questa esperienza, per esempio. Quanto volte con le persone con cui siamo vicini, persino nel lavoro, nella vita quotidiana, siamo incapaci di vederle realmente, perché le vediamo attraverso il filtro di pregiudizi che sono depositati nella nostra stratificazione mentale, nel nostro immaginario, e non riusciamo a entrare in un vero contatto?
Il sapere affettivo è invece un sapere nel quale non è possibile presentarsi armati, perché se ci si presenta armati l’affetto inaridisce, si spegne, come se si va a un incontro con una donna, per un amore, con una corazza di plastica che impedisce il contatto fisico, che impedisce la presenza. Ecco, io sono arrivato alla conclusione che questo pensiero affettivo è un pensiero non solo cognitivo, ma trasformativo, che esiste un pensiero che trasforma. Pensiero che trasforma non è misurabile, come non è misurabile per esempio una conversione, la conversione la porto come esempio di pensiero affettivo trasformativo, cioè la scoperta di una persona che ti ama, e alla quale devi rivolgere uno sguardo amoroso.
Non è che produca immediatamente un effetto pratico, che puoi misurare. Non è l’apprendimento di una lingua che ti consente di parlare poi in un altro linguaggio. Non è l’apprendimento di una scienza che ti permette di fare dei conti. È un altro modo di vedere, è un altro sguardo, il pensiero trasformativo. Cioè, io posso dire che la mia esperienza dell’analisi, sette anni di analisi freudiana, condotta con uno psicanalista di ferro, con quattro sedute la settimana, non mi ha ridotto di niente l’ansia che provo nei confronti dei miei nipotini, ogni volta che si accingono a fare attività pericolose, non me l’ha ridotta di nulla. Però mi ha consentito di trasformare quell’ansia in un pensiero diverso della loro realtà nel mio mondo, nel mio universo, e mi ha fatto sentire, riflettere su tantissime cose, su tantissime loro attività che adesso non sono gratificanti per me, sono belle. Cioè io le vedo gioiosamente, cioè mi danno la possibilità di avere uno sguardo gioioso.
Voglio fare un esempio banale. Prima, quando si mettevano a correre mi preoccupavo che cadessero, che si facessero male. Adesso li guardo, provo la stessa preoccupazione, ma me la rido, in un certo senso, me la vedo come una cosa gioiosa, come una manifestazione… ecco, questa capacità trasformativa, che è legata all’accadere della presenza, cioè, come se uno si accorgesse per la prima volta di vedere cose che erano davanti, ma che in realtà erano come bloccate da una parete che impediva di avere un accesso immediato e diretto. Ecco, questo pensiero trasformativo è, non può che essere un pensiero amoroso. E per essere un pensiero amoroso non può che essere un… vedete, io sono convinto che quando cominceranno a riflettere su tutto ciò che nella sostanza è la psicanalisi, la filosofia e anche l’esperienza religiosa, si scoprirà che il nucleo forte è effettivamente l’amore. Ma non declinato nelle forme, come dire, un po’ romantiche o fantasiose che possono sembrare del tutto riducibili a poesia, ma anche nella sua dimensione drammatica, tragica, perché l’amore non è un percorso pacifico, non è una situazione tranquillizzante. Però l’amore ha qualcosa di diverso da tutte le possibili logiche strumentali e io in questo, debbo dire, sono stato molto colpito dalla istituzione della comunione. E ho fatto una riflessione, che adesso poi ho sviluppato, che rispetto alla tradizione che veniva dalla grande religione ebraica, l’introduzione della comunione rompe la logica dell’alleanza e la sostituisce con il mangiare insieme la stessa carne e lo stesso sangue, che mi sembra la logica profonda dell’amore. La logica profonda dell’amore non è una, questo pensiero mi è stato suggerito molti anni fa da una riflessione che abbiamo fatto insieme a un grandissimo amico, Massimo Cacciari, che diceva che persino l’ascesi c’ha dentro il germe dello strumentalismo. Perché si fa per ottenere un premio, si fa per ottenere una gratificazione. Per poter essere veramente liberi, bisogna essere in un certo senso non preoccupati del risultato che poi ti conviene, della convenienza che te ne può venire. Ma paradossalmente persino liberarsi dall’ascesi sembra impossibile, perché in tutto il discorso del rapporto con Dio c’è sempre questo dover fare qualche cosa per ricevere in cambio un premio. Io ho letto quel bellissimo libro del rabbino, che ha commentato il rapporto con le storia di Gesù facendo finta di essere contemporaneo e interrogandolo, come mi ha colpito molto anche il Papa, nel suo libro su Gesù, e mi ha colpito proprio questo, il contrario di quello che il rabbino rimprovera a Gesù. Il rabbino rimprovera a Gesù di essere troppo attento alle cose che riguardano la spiritualità, e poco preoccupato della vita materiale. Cioè in fondo dice: ma tu non prescrivi niente per quanto riguarda il governo della casa, l’allevamento del bestiame, la buona conduzione degli affari pubblici. Tu ti preoccupi unicamente di dire: dobbiamo vedere il volto dell’altro, perché nel volto dell’altro noi possiamo ritrovare la presenza del Signore. Possiamo rinnovare la presenza veramente dell’alterità assoluta, che però ci permette un’identificazione amorosa.
Io sono stato colpito dalla differenza che c’è tra il discorso del Sinai, patto importante che si stringe tra Dio e Mosè, e il discorso della montagna. Il discorso della montagna mi è sembrato aprire un orizzonte di gratuità inaudita, che si può dare soltanto attraverso la comunione. Cioè, se noi mangiamo insieme la stessa carne e lo stesso sangue, ciò che ci unisce è una cosa che non è a disposizione individuale mia o tua. E questa esperienza della comunione è, diciamo, il punto d’arrivo dei pensieri trasformativi gratuiti. Perché il pensiero trasformativo permette una relazionalità che non è, non lo dico naturalmente in senso critico, Dio in relazione a, perché sembrerebbe una relazione neutra, con un alter ego, che potrebbe prendere corpo di volta in volta. È concreta, è una relazione di amore o anche di odio, è una relazione che ha bisogno di essere elaborata, trasformata e sublimata. La sublimazione, che è un esperienza che si fa essenzialmente anche nella vita quotidiana.
Quante volte noi riusciamo a trasformare una reazione violenta, che ci viene spontanea, in un discorso anche più addomesticato, anche più capace di interrogare? Allora per questo, i discorsi che si preoccupano essenzialmente di risolvere problemi pratici, che danno una risposta a una questione operativa e che chiudono l’interrogazione sono discorsi utili, interessati, operativi, efficaci, ma sono discorsi che non sono propriamente umani.
Il discorso propriamente umano è il discorso trasformativo, perché è il discorso che riguarda l’anima. Cioè, qual è il sapere inutile, cioè il sapere che non si può mettere a profitto? È il sapere dell’anima, o della psiche, se vogliamo. Il sapere delle leggi della fisica, il sapere delle matematiche, sono tutti saperi utili, importantissimi, non li voglio assolutamente disconoscere dal loro ruolo diciamo anche fondativo del nostro modo di essere civili, però questo non deve lasciare fuori campo questo enorme spazio specificamente umano, che è lo spazio simbolico prodotto dalla attività affettiva relazionale, che non è soltanto l’interesse per, ma è appunto questa condivisione comune, questo condividere il pane e il vino. Io ho riportato poi, in un libro che uscirà, il discorso che ho fatto per il matrimonio di mia figlia, che si è celebrato con un rito valdese, e quindi il pastore mi ha chiesto di fare a me il sermone, e ho fatto il sermone in cui dicevo proprio quella bellissima frase del Vangelo, in cui Gesù dice: “io sono venuto a portare la spada, e non la pace”.
E quando si tratta di riconoscere la madre e quando si tratta di riconoscere la madre, gli amici, i parenti, dice: “io non ho madre e padre, io sono qui per tutti voi”, perché questo è il senso dell’amore. Un incontro dopo una separazione, un incontro di due persone, che si riconoscono nella loro differenza, che però riescono a trovare uno spazio comune. Cioè, ciò che noi stiamo distruggendo è lo spazio umano, che è lo spazio comune. Questo spazio in cui qui ci stiamo ritrovando, purtroppo così tardi e così stanchi, anch’io sono abbastanza confuso.
Voglio dire un’ultima cosa. È un po’ polemico rispetto a quello che ho ascoltato, ma io sapete sono inguaribile da questo punto di vista. Adesso sono un po’ invecchiato, ma non posso farne a meno. Io non vorrei assolutamente che un governo avesse una visione antropologica. Sarebbe per me un disastro. La visione antropologica la può avere una società, ci può essere un problema dell’educazione collettiva. Ma un governo che ha una visione antropologica, per me sarebbe veramente, mi riferisco a quello che ha detto la Roccella, sarebbe veramente un fuor d’opera. Il governo è l’organo demandato a eseguire, caso mai, ciò che una società nel suo complesso riesce in modo condiviso a rappresentarsi come meta. Quando Cristo chiede continuamente: “ma chi credete che io sia? Chi sono io, cosa pensate che io sia?”, la domanda rinvia continuamente al problema che ciascuno di noi ha. Ma chi sono veramente io? Ma cos’è veramente umano? Sono veramente libero? Io sono convinto che l’antropologia dell’uomo, e questa è la fiaccola da tenere accesa, è quella di mantenere aperto il problema di che cosa è l’uomo, a partire dal fatto che questa domanda è impensabile senza una relazione con la trascendenza. Cioè, io non mi posso porre il problema del mio essere, della mia finitezza, della mia mortalità, della mia pochezza, della mia miseria, non me lo posso porre se non è un problema che ho ereditato come grande questione umana e se non lo pongo di fronte alla trascendenza e a Dio.
E perché Cristo rappresenta una rottura epocale? Perché questo Dio che era lontano, ed era persino crudele, ed era persino vendicativo in certi momenti, quando si leggono le vicende di Giobbe si ha l’impressione che sia un Dio persino sadico, diventa un padre amoroso. Questa trasformazione del Dio lontano in un padre amoroso è stata possibile perché si è realizzata questa cosa straordinariamente misteriosa che è nato un uomo figlio dell’uomo e figlio di Dio.
Questo è il senso di una riflessione aperta però, che non produce nessuna soluzione pratica, se non la responsabilità di vivere fino in fondo la propria libertà, che è la vera fonte della responsabilità verso gli altri e verso noi stessi.
Grazie.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie Barcellona. Mi pare che questo intervento bellissimo, a mio avviso anche commuovente, che abbiamo recepito, seppur nell’ora tarda, indichi molto bene lo sforzo del suo cammino. Cioè lui è un persona, se posso essere così personale nel dire, che si è messa a nudo di fronte alla vita. Questo non accade, cioè, la possibilità di conoscere qualcosa di nuovo, di se stessi, della vita, accade quando si cede, si cede a qualcosa, e non si tiene alzato lo schermo della propria precondizione umana o della propria ideologia, cioè sistema di pensiero.
Questo è accaduto, l’abbiamo sentito scorrere sotto gli occhi. Abbiamo un po’ intuito delle tracce di parole gratuite, di un discorso inutile, come conclude il suo libro: “nell’esperienza dell’incontro rinasce la capacità di creare nuovi universi e nuovi orizzonti di senso. Ma l’incontro rimane un evento, che non può essere rappresentato se non attraverso un racconto sempre inadeguato”.
È il tema della testimonianza. Lei è di testimonianza a tutti noi, come l’amicizia con don Ventorino immagino lo sia, ed è il tema con il quale ci ha lasciato il cardinale Scola, cioè la testimonianza è qualcosa che c’è, non è un discorso, non è un’idea che viaggia tra di noi, ma è un cammino comune possibile.
Grazie davvero. Il libro è bellissimo e lo troviamo qui alla libreria. Grazie anche a don Ventorino.
(Trascrizione non rivista dai relatori)