Chi siamo
INVITO ALLA LETTURA
L’ineludibile questione di Dio
Presentazione del libro di Pietro Barcellona, Docente di Filosofia del Diritto all’Università degli Studi di Catania e Francesco Ventorino, Docente Emerito di Ontologia e di Etica presso lo Studio Teologico San Paolo di Catania. (Ed. Marietti 1820). Partecipano: gli Autori; Stefano Alberto, Docente di Introduzione alla Teologia all’Università Cattolica Sacro Cuore di Milano.
A seguire:
La fortuna non esiste. Storie di uomini e donne che hanno avuto il coraggio di rialzarsi
Presentazione del libro di Mario Calabresi. (Ed. Mondadori). Partecipa l’Autore, Direttore de La Stampa.
Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
CAMILLO FORNASIERI:
Il libro nasce da un’amicizia e frequentazione tra il docente catanese don Francesco Ventorino e il prof. Barcellona, eminente filosofo del diritto, docente a Catania e membro deputato della commissione Giustizia della camera e del CSM. Un’amicizia sorta in incontri pubblici e dibattiti e poi approfonditasi fino ad andare al fondo della propria esistenza ed al senso del nostro tempo. Questo libro infatti è nato da una provocazione e richiesta di don Ventorino al prof. Barcellona, il quale l’ha accettata con quella profondità e quel senso drammatico che lo contraddistingue. E ci porta ad avere un confronto con una grande questione che anima tutti i tempi del quotidiano, volenti o nolenti, il fatto dell’esistenza e del suo significato. Pietro Barcellona, nella prefazione che apre il libro, si accorge, come anche noi, di una grande riduzione delle parole e quindi una riduzione dell’esperienza che esse indicano, inversamente proporzionale al parlare del senso dell’esistenza, dell’ineludibile questione di Dio, del senso delle cose, del dolore, della felicità, dell’umano desiderio. Inversamente tutto decade in una sorta di linguaggio che lascia ognuno sulle proprie posizioni, ma aumenta una grande ignoranza, cioè l’ignorare la presenza autentica del reale, dell’uomo. Infatti il saggio di Barcellona si intitola: “Chi ha bisogno di Dio?”, e quello di Ventorino: “O Dio o il niente”, questo nulla che sembra essere per molti l’unica e anche comoda forma di risposta all’esistenza, ma che sta generando tanto dramma e tanto vuoto. In nome di chi e di che cosa si può decretare che ogni accadimento avviene nel segno della necessaria legge dell’evoluzione? Certo, la potenza esplicativa di un sapere che giustifica ogni momento del comportamento umano ci libera dal peso della distinzione tra bene e male, tra giusto e ingiusto: ma che ne è dell’umano senza l’enorme problema del bene e del male, del dolore e della gioia? Ecco, nel solco di queste domande autentiche e brucianti si svolge il libro con questi due saggi che si sono confrontati a distanza, come scritture. Un’intervista finale condotta dal prof. Cristalli mostra questa apertura e questo cammino sorretti da un’amicizia che è tanto vitale quanto più è imperniata sulla tensione alla verità e sulla ricerca di un cammino che sia amore alla verità. Ecco, questo è un po’ lo sfondo. Chiedo a don Stefano Alberto di aprire, con un suo intervento sulla percezione di questo libro.
STEFANO ALBERTO:
Buonasera. Dico subito una cosa, questo non è un libro facile, non si può leggere sotto l’ombrellone o prima di andare a dormire, perché si rischia di stare svegli tutta la notte. Ha questo inconveniente, e me ne sono accorto subito dopo le prime pagine. Chiede attenzione, partecipazione, sfida subito il nostro desiderio, la nostra libertà ed interesse, se vogliamo imparare qualche cosa. Questo è un libro non facile ed è un libro strano, perché è difficilissimo oggi trovare due persone che si mettono in gioco così radicalmente, non per il gusto di mettersi in mostra ma realmente per un’esigenza di paternità, cioè di introdurre attraverso il dramma della propria esistenza, coscientemente sofferta e vissuta, a ciò che ciascuno di noi ha di strutturalmente comune. Mi ha colpito questa pagina di Giussani, che molti di voi avranno letto e appartiene al lavoro che abbiamo fatto quest’anno sulla scuola di comunità, quell’osservazione bruciante della realtà: “Normalmente nella vita, per tutta la gente, è serio il problema dei soldi, è serio il problema dei figli, è serio il problema dell’uomo e della donna, è serio il problema della salute, è serio il problema politico: per il mondo, tutto è serio eccetto che la vita”. Anzi, si insiste sulla serietà dei particolari per non prendere sul serio la vita”. Qui abbiamo di fronte due persone che prendono la vita molto sul serio e ci aiutano in questo. Leggendo in maniera anche molto diversa i due saggi – si capisce il termine saggio nella sua coincidenza tra forma e contenuto -, la cosa affascinante è che la circostanza – ciò a cui continuamente porta la scoperta, il cammino, l’introdursi a questa serietà della vita di cui la domanda sul significato ultimo rappresenta non appena il vertice, ma il tessuto -, il luogo di tutto questo è un’amicizia, non come coincidenza di interessi, convergenza su tutti i punti, ma amicizia nel senso più profondo del termine: attenzione, passione al destino dell’altro cosi che la mia vita si riversa in quella dell’altro e lascia che ciò che l’altro è, vibri e diventi domanda per me. Questa è una cosa straordinaria. Noi forse siamo un po’ abituati all’amicizia come virtù, come qualcosa di essenziale nel cammino di scoperta quotidiano di sé, dell’altro, della realtà, nella lunga avventura dell’esistenza. Mi interessa cogliere, dando ulteriore ragione a quello che ho detto, il percorso che sempre, sia pure attraverso due saggi distinti e conseguenti, si interseca. Innanzitutto vorrei cogliere, del saggio di don Ciccio, don Ventorino, che per me resta uno dei più grandi conoscitori di san Tommaso, non appena in Italia ma in Europa, anche se questa conoscenza, che si è esplicitata a vari livelli di insegnamento, nei licei e con lo studio teologico, non ha prodotto grandi volumi ed enciclopedie, il perché di questa domanda: qual è il senso ultimo della vita, perché ci sono la morte ed il dolore, perché ci troviamo in una realtà dove il senso si è smarrito, dove – un’espressione, professor Barcellona, terribile ma efficacissima – la frantumazione dell’io è istantanea? “Come io ho risposto a questo? Provando, tentando, seguendo Giussani a costruire un popolo, a ricreare un soggetto, non un soggetto anonimo, non per un potere, ma una realtà in cui fosse presa sul serio la singola realtà, la singola persona”. E la stessa preoccupazione, la stessa vibrazione si sente nel professor Barcellona. Tutto è nascosto – spero di aver colto bene – nel pudore di una storia. Ma la passione di essere stato responsabile, artefice, protagonista di una sofferta vicenda di popolo e se, dal punto di vista dei contenuti esteriori, delle forme, l’avventura comunista può essere conclusa, come esigenza di giustizia, come esigenza di verità della propria esperienza resta in tante persone viva e trova espressione nel dramma che lui esprime. Mi piace moltissimo come – è un continuo riecheggiare – i due amici usino in modo diverso, ma poi convergente, l’immagine con cui don Ciccio poi conclude il suo saggio, citando la conclusione di un romanzo, Non è un paese per vecchi di Cormac McCarthy. Il romanzo si conclude, dopo un racconto dallo stile veloce e asciutto, con questi tre uomini che, nel Texas di oggi, si inseguono spietatamente, spinti, scrive don Ciccio, “da una necessità ineluttabile, in un mondo dove solo gli spietati sopravvivono. La storia si conclude con le riflessioni di uno di questi tre uomini, lo sceriffo, su un abbeveratoio scavato nella pietra a colpi di martello e sull’uomo che lo aveva fabbricato in un paese che non aveva conosciuto mai dei lunghi periodi di pace”, un po’ come il nostro, che continua ad essere in guerra per varie ragioni che non voglio esplicitare adesso. “Quell’uomo si era messo lì con una mazza e uno scalpello, aveva scavato un abbeveratoio di pietra che sarebbe potuto durare diecimila anni, perché? In che cosa credeva quel tizio? Di certo non credeva che non sarebbe mai cambiato nulla. Uno potrebbe pensare anche questo ma secondo me non poteva essere cosi ingenuo. Ci ho riflettuto tanto, ci rifletterei anche dopo essermene andato via da lì, quando la casa era ridotta ad un mucchio di macerie”. Ve lo dico, secondo me quell’abbeveratoio è ancora lì, ci voleva ben altro per spostarlo, ve lo assicuro. “Penso a quel tizio, seduto lì con la mazza e lo scalpello, magari un paio d’ore dopo cena, non lo so. Devo dire che l’unica cosa che mi viene da pensare è che quello aveva una sorta di promessa dentro al cuore, e io non ho certo l’intenzione di mettermi a scavare un abbeveratoio di pietra. Ma mi piacerebbe essere capace di fare quel tipo di promessa, é la cosa che mi piacerebbe più di tutto. Ecco la domanda che pongo al mio amico: è possibile fare all’uomo di oggi quel tipo di promessa, senza prendere posizione sulla questione di Dio e alla risposta che storicamente è stata data dal cristianesimo?”. E, proprio all’inizio, Barcellona risponde. Dice: “Il senso della forzatura che io percepisco in don Ciccio, più affettuosa che razionale, questo dichiararsi spesso d’accordo con me anche quando sembra evidente che non lo siamo, sta proprio in questa scena dell’abbeveratoio”. che conclude con le parole del nostro autore americano il saggio di don Ciccio. Il problema – scrive il professor Barcellona – “dell’insopprimibile questione di Dio è come quello dell’abbeveratoio. Sia don Ciccio che io pensiamo che esista una promessa di futuro, che i pensieri umani nascano dal desiderio che qualcuno ancora possa testimoniare la serietà di questa speranza e che la potenza di questo desiderio possa oltrepassare gli orizzonti agghiaccianti di questo presente”. Ecco, tutto il lavoro e lo sforzo e la fatica, la bellezza di questi due saggi, sta in questa intenzione in cui il percorso, solo il percorso, sembra solo a prima vista diverso. Don Ciccio ci spiega tutta la ricchezza e la profondità della sua lunga consuetudine con san Tommaso, ma anche con tutto il pensiero moderno, così che siamo messi davanti, ci viene reso conto del perché questa protesta contro Dio. Feuerbach dice che Dio è il prodotto della nostra proiezione sul reale, Nietzsche parla della morte di Dio. L’osservazione di Dostoevskij è che se Dio non c’è non solo tutto è possibile, ma niente più ha valore, tutto diventa indifferente. La ripresa potente di Kierkegaard, che anche Carrón nella sua introduzione al nuovo libro di Giussani ci ricorda: “Ma possiamo veramente fare a meno di porci la questione ineludibile di Dio?”. Ma tutto il percorso ha però un inizio veramente drammatico, è un’eco della grande provocazione che ha lanciato Giussani, un’intuizione potentissima: perché l’uomo se la prende con Dio? Perché ne ha paura e lo combatte? Perché avverte in questa realtà, l’uomo moderno e post-moderno, quasi una negazione della propria autonomia e della propria individuale consistenza? Queste domande, che sono anche quelle che percorrono la nostra vita, o momenti di essa: ma se Dio è tutto, io cosa sono? Tu chi sei? La persona a cui voglio bene, cos’è? La patria, cos’è, i soldi, cosa sono? La realtà, che cos’è? Dio solo è, ma anche io ci sono. Il potere riduce questa paura alle due grandi tentazioni, il panteismo in cui l’io si dissolve nella parte indistinta del tutto, oppure il nichilismo: tu sei niente, vali quello che il potere di turno ti misura e tutto è di nuovo calcolato e calcolabile, quindi il valore di me è determinabile dal potere. Ma don Ciccio ci presenta il percorso di questa ineludibile questione attraverso la realtà, questo rapporto tra ragione ed esperienza, e ci ricorda che l’esperienza è l’emergere della realtà alla coscienza dell’uomo, il divenire della realtà allo sguardo umano. E qui cita Guitton, “il ragionevole è sottomettere la ragione all’esperienza”. Il percorso del prof. Barcellona è più affettivo, c’è una frase bellissima quando lui dice che “Dio è un’interrogazione quotidiana ed un incontro improvviso”. Potrebbe essere la descrizione del Meeting. Una interrogazione quotidiana ed un incontro improvviso: come nessun manuale insegnerà ad amare un’altra persona, così nessun trattato permetterà di fare un passo avanti nell’accesso al mistero di questo pianeta perduto nel cosmo. Se non fosse un incontro, ma un ragionamento, non avrebbe senso parlarne nel linguaggio dell’affettività, che mi sembra invece il solo capace di rendere conto della nostra condizione mortale. Un esempio struggente è quando, proprio alla fine del suo saggio, nell’ultimo paragrafo intitolato I bambini, abbiamo un esempio commuovente di che cosa significa per il professor Barcellona un linguaggio dell’affettività. “Mio figlio Eugenio mi ha raccontato che di fronte all’incalzare dei perché, su cosa c’è oltre quello che vediamo, l’orizzonte , le stelle, il cielo, ha risposto a mio nipote che alla fine di ogni cosa non c’è niente. Il piccolo, che porta il mio stesso nome, Pietro, a questo punto ha esclamato: ma io ti voglio bene oltre il niente! Come è possibile amare oltre il niente?”. Se nei bambini queste domande sorgono spontanee, per noi sono il drammatico ed appassionante percorso a partire dalla realtà, quindi percorso di conoscenza a partire dalla domanda sul nostro destino ultimo, quindi percorso affettivo. La domanda su Dio, osserva don Ciccio, “nasce da una vera esperienza della realtà e sta in ogni vero domandare come il significato ultimo del domandare stesso che in definitiva ricerca della ragione esauriente, della totalità dell’essere”. Non mi sembra di voler forzare questo continuo ritrovarsi, nel continuo confrontarsi, dicendo che emerge con grande chiarezza, dentro al pudore e al dramma giocato in prima persona, che è evidente – e qui ci rifacciamo ad Agostino – che, come osserva quasi sinteticamente don Ciccio, non è possibile conoscere se non ciò che si ama e non è possibile amare se non ciò che si conosce. Attraverso la carne ed sangue di due grandi saggi, di due uomini veri, siamo aiutati ad essere un po’ più veri, ciascuno di noi. Per questo sono particolarmente grato a don Ciccio e al professor Barcellona.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie.
PIETRO BARCELLONA:
Dopo aver ascoltato don Pino, è difficile, anche perché sono commosso ed emozionato.
Vorrei riuscire in poche battute a rispondere alle questioni che ha posto don Pino, innanzitutto la promessa del futuro. Io credo che questa sia una questione cruciale che spesso viene anche dimenticata nello stesso mondo cattolico. Si dimentica che noi siamo sempre in una condizione di attesa, che niente è risolto una volta per tutte e che, anzi, alle spalle abbiamo storie molto tragiche di fallimenti terribili e che solo l’attesa ci proietta verso il futuro, ci induce a ritenere che è possibile credere in una promessa di superamento di questo mondo in cui siamo costretti a vivere. Io mi sono chiesto: come si fa a scrivere un libro su Dio? Perché per pudore sarei indotto a non scrivere, a non permettermi di affrontare questa questione ineludibile, e per certi versi intrattabile, con gli argomenti diversi di cui possiamo disporre. Allora mi sono motivato dicendo che con don Ciccio non si fa un libro accademico, senza sentimenti, in cui non si espone mai nessuno. Nessuno mai dice una cosa che ha vissuto, in un trattato, è tutto in terza persona. Allora mi sono chiesto se ero legittimato a farlo, ho pensato di venire da un’esperienza che in un certo senso non è contraddittoria con queste domande. Sono stato un comunista convinto, ed ho creduto in quello che facevo, ed ho vissuto una speranza messianica, sia pure molto ancorata a traguardi terreni, sia pure iscritta dentro un orizzonte privo della prospettiva trascendente ed ultramondana, ma con lo stesso spirito con cui si pensa di costruire una nuova terra, una terra promessa. E ve lo garantisco, non sono mai stato tentato da un’esperienza di potere. Ho vissuto l’esperienza dello stare insieme come una forma di convivenza umana che anticipava forme di gratuità e disinteresse, non nel senso dell’altruismo benevolo di cui si parla oggi, nel senso del politically correct, ma nel senso del gusto sanguigno del partecipare ad una cena per la strada, nelle periferie della mia città, con i banchi che distribuiscono cibo. Ecco, io venivo da questa esperienza, ma dalla drammatica fine, dalla delusione e dalla rottura di un sogno in cui dicevo di essere tornato sulla terra dopo una fantasia onnipotente. Perché c’era una fantasia onnipotente, in cui l’uomo si può mettere a trasformare da solo il mondo e a costruire la città perfetta. Questa è una delle tentazioni peggiori dell’emerito luciferino che abita dentro gli uomini, e può indurre ad un delirio di onnipotenza. Ma questo fallimento bruciante mi aveva lasciato una vera e propria depressione. Sono stato per due anni in aspettativa anche all’università, non mi sentivo di parlare, non avevo più parole. Oggi si gioca con le vicende umane, io non mi sono convertito perché stavo già da sempre nel luogo di questa ricerca e non sono diverso dal ragazzo che ero che scriveva le poesie sul creato e mi stupivo: perché una continuità nell’esperienza di un uomo c’è, come c’è in una vita a cui mi sono appassionato quest’estate, la vita di Van Gogh raccontata da uno psicanalista. Van Gogh, assillato da un senso di vuoto e di angoscia che veniva anche da una situazione familiare, trova come primo desiderio l’imitazione di Cristo. Io non la sapevo questa parte della vita di Van Gogh. Ha tentato persino di fare il prete protestante, ha fatto gli esami di teologia, voleva fare il predicatore. E l’insistenza con la quale si misura con Cristo è la ricerca appassionante di identità, di consistenza, rispetto a questa minaccia angosciante di vuoto, del nulla che incalza, del non senso. E quando questa passione in qualche modo si trasforma nella pittura, non è che perde la sua direzione di marcia, perché attraverso il giallo, la luce, i colori, Van Gogh cerca “l’astro nudo dell’incontro con l’incarnato nella presenza di questo matrimonio indicibile tra l’umano e il divino, questa presenza incombente, non già avvenuta, già risolta, ma questa riproposizione rispetto all’apocalisse dei nostri tempi, a questo disastro della ragione, a questa illusione di un progresso che tradisce ogni giorno le sue promesse”. Come si fa? Noi dovremmo cominciare dove finiamo. Come si fa a trascurare quello che hanno detto i vescovi e il papa sul genocidio degli immigrati? Noi non dovremmo neppure andare al ristorante, noi dovremmo cambiare da questo momento in poi i nostri vestiti, dovremmo metterci una divisa di solidarietà per questi che vengono trucidati in modo anonimo e gettati in mare come squarci di corpi. E quanti bambini, quante sofferenze! E’ una cosa inaudita quello che ci circonda, stiamo con gli occhi chiusi e ci tranquillizziamo dicendo che tutto è stato già in qualche modo salvato! Ecco, io mi sono appassionato adesso a questo problema di Cristo, perché Cristo trasforma il problema di Dio in una specie di tragedia permanente che attende un ritorno, perché se non ci fosse questo ritorno non avrebbe neppure senso quello che stiamo facendo. Certo, a me fa piacere che ci siano presenze, che magari alla fine vengano gli applausi. La mia parte vanitosa e banale si lascia solleticare da tutto questo. Ma quando io la sera torno e mi metto in un letto, e apro una pagina – per esempio, in questo periodo – di Sergio Quinzio, La croce e il nulla, e leggo le parole appassionate di questo strano personaggio, testimone di Cristo, sulla necessità di pensare all’apocalisse come il momento in cui non si vive la catastrofe di speranze ma si apre la speranza nuova di un mondo diverso, io chiudo il libro e sto a pensare per un’ora. E mi sento un altro, non so che succede. Non lo so spiegare, non lo so dire, sento soltanto che don Ciccio mi tortura: dobbiamo fare un altro libro. Non so se ci riesco, non sono sicuro, perché devo andare avanti in questa inquietante avventura di pensare ai miei anni, che sono 73 – non quanto i tuoi, sono più giovane -, tanti e pesanti, non so se ce la faccio ma ogni giorno vengo preso. Mi ero portato in vacanza, in un posto a 1300 metri, tre libri, convinto che mi sarei occupato d’altro. Improvvisamente arriva mio figlio con questo libro di Quinzio: mamma mia, dico, che è, una persecuzione? Non accade nulla per caso, è veramente incredibile. Poi leggo questo libro su Van Gogh e ci trovo questa riflessione sul mistero della passione di Cristo e della ricerca della luce nel colore, la ricerca dell’assoluto e il problema angosciante -certo, in quel caso psicotico – del vuoto. Ma noi siamo sicuri di essere tutti sani di mente? Secondo me non lo siamo, nella misura in cui stiamo tranquilli. Ci tagliamo le orecchie per offrirle, come un gesto simbolico, al mondo che se ne infischia, che guarda la carne sanguinare senza accorgersene? Noi dovremmo tutti diventare folli, folli di una speranza per una promessa che nessuno ci garantisce. Il rischio della promessa è che uno crede senza essere certo di ciò che accadrà. Perché, se noi sapessimo già cosa accadrà, la nostra sarebbe una passeggiata in una via di Roma o di Milano per guardare le finestre dei negozi, e non invece un cammino difficile dove la sofferenza è la sola possibilità di provare anche la gioia. Grazie.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie di cuore. Ventorino.
FRANCESCO VENTORINO:
Come avrete già capito, questo libro è un piccolo fenomeno di una grande realtà, la grande realtà è la nostra amicizia. E vi assicuro, è arduo essere amico di un amico così, perché pone domande inquietanti. Il libro non è sorto da un progetto nato a tavolino ma da un abituale conversare con lui, che ti costringe ad andare alla profondità delle cose, come quando una volta mi chiese: “Ecco, ciò per cui ho vissuto io, almeno nella sua forma storica, politica, non esiste più. Quello per cui hai vissuto tu c’è ancora?”. E ho dovuto però accompagnarlo in un cammino, e mi deve dare ragione quando ha dovuto riconoscere che ciò per cui era vissuto lui non era il comunismo ma, come ha detto prima, l’istanza di una giustizia più grande, di una comunione più vera fra gli uomini, e gli ho detto: “Questo esiste, questo è Dio”. E allora dobbiamo interrogarci su questa grande questione che è la questione di Dio, che, come ha sottolineato don Pino, è la questione del nostro destino, della speranza. Alla fine, il professore ha accennato alla promessa di Cristo perché ha detto: “Senza l’attesa di un grande ritorno, ha significato, senso, questo nostro domandare, andare, soffrire, pellegrinare?”. Come vedete, la conversazione si fa più avvincente perché adesso la questione è accentrata tutta sulla verità di Cristo. E questa è proprio una compagnia che non vi dà tregua e pace, perché vi costringe a ritrovare in profondità tutte le ragioni che sostengono la fede e la vita.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie. Che ogni passo non vada perduto, che in ogni passo abbia senso la propria esistenza, questa esperienza esistenziale che dà forma a queste grandi domande, e ne abbiamo avuta testimonianza. La grande opportunità è l’amicizia intesa così, forse questo tramite che ci attende tra il vissuto e l’atteso. Vi ringrazio per il contributo, un caro saluto.
Salutiamo un caro amico, Mario Calabresi, neodirettore della Stampa di Torino. Oggi è la giornata di Milano, stasera ci sarà Enzo Iannacci, e oggi abbiamo comunque un milanese, Mario Calabresi. Lui è giornalista e ci ha già regalato una iniziativa editoriale, nel 2007, Spingendo la notte più in là, un grande racconto, anche autobiografico. Racconta anche qui, con questo nuovo libro, di amicizie incontrate e vissute. Negli ultimi due anni ha avuto l’occasione e l’impegno gravoso di essere l’inviato negli Stati Uniti per il quotidiano La Repubblica: quindi ha seguito l’inizio, lo svolgersi e la conclusione della campagna elettorale di questo grande fenomeno di massa, di popolo e di comunicazione e di discorsi che vive l’America, questo grande paese intenso, diverso in ogni suo angolo eppure accomunato da denominatori comuni. Ecco, quello che sorprende di questo suo libro, che si intitola La fortuna non esiste. Storie di uomini e di donne che hanno avuto il coraggio di rialzarsi, è la sua capacità di guardare in faccia e di andare al fondo delle storie delle persone che in questo lavoro ha incontrato. Quasi un po’ un doppio binario, tra il lavoro di dover rendere conto, certamente non solo delle linee generali, degli sviluppi, delle percentuali, delle probabilità, nel corso di questi due anni che lui ha vissuto in America, ma anche del sottofondo, sociale e culturale, di costume. Ma queste storie vanno ancora più in là, perché Calabresi lascia un interrogativo: qual è quel segreto? Noi spesso parliamo di sogno americano, lui va nella parte segreta: qual è il segreto di quella terra dove le persone sono sempre spronate, e cercano sempre di riprendere, dove sappiamo che è possibile cambiare lavoro e trovare fortuna, una fortuna costruita su un impeto umano che ci impressiona e che abbiamo anche imparato a conoscere attraverso testimonianze dirette? Quindi è un libro, beh, scritto benissimo, dove grazie all’attenzione al cuore delle persone, ai loro drammi e alle loro riprese, che, per tratti diversi, con visioni più ampie, si chiedono il perché, racconta gli angoli delle città dell’America, delle case. E’ veramente l’occhio di chi osserva, segno di un giornalismo di inviati che – come lui ricorda, come ricorda la casa editrice Mondadori, che scordavo di citare – trova in Ezio Mauro, per il quale hai lavorato fino a poco tempo fa, un punto di tenuta. Spesso, oggi, ciò che si racconta e che ci è data l’opportunità di conoscere, sono cose già filtrate sotto la lente di un certo anonimato e di una certa riscrittura, non è come la vita. Siamo in un periodo, tra l’altro, che mi fa venire in mente questa crisi economica e anche culturale che si sta vivendo. L’occhio è quello dei fotografi della Farm Security Administration che, negli anni ’30, ’35, furono i protagonisti del racconto dell’America dopo la depressione. Pensate che il governo americano affidò loro il compito di rendersi conto della situazione della popolazione delle città e delle campagne: quest’occhio fotografico che è sempre una positività di sguardo all’umano, perché ne mette in luce tutti i drammi, le tensioni e gli sforzi. Ecco io vorrei incominciare col chiederti quando ti sei accorto di questa necessità di racconto, da quali punti convergenti è nata la necessità di raccontare anche a noi, e il perché questa capacità di ripresa continua della vita che, in fondo, è anche il tema di una speranza che abbiamo tutti dentro, costitutivamente.
MARIO CALABRESI:
Grazie. Buon pomeriggio a tutti. Questo libro nasce in modo strano. Io ho fatto un lungo viaggio durato un pochino più di due anni, seguendo la campagna elettorale americana. Questo libro, però, non è il racconto di quel viaggio ma è un secondo viaggio che ho fatto per tornare sui luoghi della campagna elettorale e provare a rivedere le cose con un occhio diverso. Vi faccio un esempio. Ero stato a Miami e in giro per la Florida, seguendo Barak Obama. E nei comizi, in quello che leggevo sui giornali, trovavo tutti i giorni le statistiche di quanta gente aveva perso la casa, perché era stata pignorata perché non aveva più i soldi per pagare le rate dei mutui. Erano però numeri, cifre. C’era il comizio, c’era Obama che diceva, non so, che il 20% delle persone che avevano un mutuo in quest’area aveva perso la casa. Io stavo con la carovana dei giornalisti, scrivevamo questo, raccontavamo il comizio e partivamo per andare da un’altra parte. Poi la campagna elettorale è finita, e a me è rimasta questa grande sensazione, soprattutto nel periodo finale. Ormai, dopo le elezioni a novembre dell’anno scorso, eravamo nel pieno della crisi economica, e a me sono rimaste tutte queste sensazioni di crisi, di caduta, di gente che aveva perso il lavoro, che aveva perso la casa, i segni della guerra che si incontrano viaggiando per l’America, i segni della guerra che ci sono sui veterani, sulle persone che tornano dall’Iraq, dall’Afghanistan, i feriti, le persone che trovi che hanno perso un braccio, che hanno perso una gamba, i familiari, le case. Io ho fatto questi lunghi viaggi in macchina in cui vedi le coccarde sulle case di chi ha un soldato al fronte: mettono una coccarda sul vetro perché vuol dire che stanno aspettando qualcuno che torni a casa. Tutto questo l’ho visto, mi è rimasto, ma non l’avevo approfondito. Poi succedono delle cose banali. Per esempio, succede che nei giornali, per tagliare i costi, ti chiedano di smaltire le ferie. Per cui io mi sono trovato improvvisamente una serie di periodi in cui mi dicevano: “La prossima settimana non puoi lavorare tutta la settimana”. Allora ho recuperato una serie delle storie che avevo soltanto incrociato e ho detto: voglio scoprire le facce e le persone che stanno dietro i numeri e dietro le statistiche. E sono tornato a cercare gli uomini, gli esseri umani, le famiglie, le donne. Avevo visto che in California c’era chi aveva perso la casa, sono tornato in California a cercare le persone che dormivano e vivevano nei parcheggi perché avevano perso la casa, in un posto come Santa Barbara, che è come dire la Portofino degli Stati Uniti. Eppure nei parcheggi, ogni notte, ci sono almeno cento macchine di persone autorizzate, che dormono in macchina perché hanno perso la casa. Allora sono andato, ne ho trovata una e mi sono fatto raccontare la sua vita, di come si perde una casa, di cosa succede, di cosa si sente, di come si cade. E questo l’ho fatto in giro per l’America. Però ero partito con l’idea di raccontare una crisi, e invece, quello che ho trovato era diverso. Allora, ne parlavo stamattina, il titolo di questo Meeting, “La conoscenza è sempre un avvenimento”, è avvenimento nel momento in cui, se si ha la disposizione a farsi contaminare da quello che si trova, ci si può permettere di stupirsi, ci si può permettere di partire con un’idea e trovarne una completamente diversa, ma di essere contenti per questo, perché il fine non è trovare qualcosa che si presume, ma trovare una risposta alle domande. Allora, io ero partito pensando di andare a interrogarmi su cos’era la crisi, pensavo di raccontare l’America in crisi, invece alla fine ho raccontato una serie di storie americane di persone che sono cadute ma che cercano di rialzarsi. C’è chi ci è riuscito, chi ci sta provando, ma è un percorso di ricominciare, di seconda possibilità, di seconda vita, di secondo inizio. Ed è la cosa che mi ha affascinato di più. E così ho trovato, per esempio, la storia di questa donna che ha la mia età, si chiama Tammy Dawport, è una donna che faceva parte della riserva, negli Stati Uniti ci sono i riservisti che fanno parte dei militari, delle forze armate, ma sono a disposizione, storicamente vengono utilizzati e richiamati soltanto per ruoli come quelli che da noi sarebbero di protezione civile: intervengono in un terremoto, in una alluvione, ma in tempi di guerra possono essere chiamati al fronte. Tammy Dawport era una studiosa di politica e diplomazia internazionale, però era entrata nella riserva perché la riserva ti paga gli studi, per esempio. Lei ci era entrata all’università, è una donna molto orgogliosa. Quando era entrata nella riserva aveva chiesto qual era l’unico lavoro che una donna non avesse mai fatto. Le hanno detto: il pilota di elicotteri. Allora lei ha fatto richiesta di diventare pilota di elicotteri. Siccome è una donna testarda, con una bellissima storia – è figlia di un marine che aveva combattuto in Vietnam, che dopo la fine della guerra del Vietnam era passato a lavorare per la pace, e aveva lavorato con i rifugiati che scappavano dalla Cambogia, per le Nazioni Unite, e aveva sposato una tailandese ed è nata Tammy -, è diventata la prima donna pilota di elicotteri degli Stati Uniti. E’ partita per la guerra in Iraq, guerra che lei non condivideva assolutamente, e lo aveva detto pubblicamente prima e lo ha detto dopo. Diceva: “Io non capisco perché, se Al Qaeda ha abbattuto le Torri Gemelle, noi andiamo a fare la guerra in Iraq”. Però, a quelli che le chiedevano perché partisse, lei rispondeva: “Perché il presidente del mio paese me lo ha chiesto, il senato del mio paese ha votato la guerra, io ho avuto la possibilità di studiare grazie all’esercito degli Stati Uniti, e oggi che mi chiedono di fare la mia parte non posso tirarmi indietro”. Un giorno, volando, pilotando il suo elicottero da Bagdad fino alla grande base di elicotteri e di aerei che c’è a nord di Bagdad, viene abbattuto l’elicottero. Miracolosamente l’elicottero riesce a toccare terra, però lei perde conoscenza, e si sveglia dopo due settimane e non ha più le gambe. Le hanno amputato le gambe e ha un braccio quasi completamente distrutto. Io sono andato a trovarla a Chicago, semplicemente perché avevo visto una foto sul New York Times: era una foto del giorno dei veterani in cui si celebra il loro ricordo. E si vedeva in questa immagine, a Chicago, Barak Obama che deponeva una corona di alloro davanti al monumento dei caduti nelle guerre americane insieme ad una donna. Di questa donna mi aveva colpito il cappotto, un cappotto corto sotto cui c’era un vestitino, e le gambe che erano scoperte ed erano di titanio, con due scarpe, due ballerine rosse, che poi ho scoperto che erano dipinte sopra le protesi. Quando ho visto questa immagine, sono rimasto sconvolto anche dal coraggio di questa donna che non si nascondeva. Allora ho iniziato a scriverle, a cercarla, finché lei mi ha risposto e sono andato a trovarla a Chicago. Io ero andato per raccontare una di queste persone che sono state colpite dalla guerra. Questo è il primo incontro che ho fatto, ve lo racconto perché capite che cosa mi ha fatto fare il salto, mi ha fatto cambiare l’approccio al punto di vista. Trovo questa donna: sono andato a Chicago nel giorno più freddo degli ultimi vent’ anni, c’erano quasi 30 gradi sotto zero, c’era una specie di tormenta di ghiaccio. Ho pensato che Tammy Dawport, che vive tra la sedia a rotelle e camminando su delle protesi, non sarebbe arrivata, il terreno era ghiacciato. Invece lei, puntualissima, è arrivata guidando la sua macchina. È scesa, io non sapevo come fare per aiutarla, lei invece mi ha fatto segno di andare a prendere l’ascensore. Ha camminato con il suo bastone, mi ha portato nel suo ufficio perché lei lavorava come responsabile per gli aiuti ai veterani di tutto lo stato dell’Illinois, che è appunto lo stato di Obama. Entriamo nel suo ufficio e, appena entriamo, vedo sul muro una fotografia di Tammy immersa nell’acqua, con le bombole, la maschera, il boccaglio, la maschera tirata su, in mare. Vedo la foto e dico: “Ah, questo era quando… Le piaceva fare le immersioni?”. Lei mi guarda e ride, io non so cosa dire, mi giro, vedo una tuta da pilota e dico: “Era la sua tuta da pilota di elicotteri?”. Lei mi guarda e dice: “Qui ero a Natale, sono andata a fare le immersioni a Natale, e questa è la tuta da pilota con cui volo, oggi non si può perché fa troppo freddo, ma volo sugli aerei leggeri”. Allora io ho capito che avevo fatto una gaffe, sono rimasto un po’ immobilizzato e, non sapendo cosa dire, ho detto una cosa stupida: “Ah, perché fa le immersioni?”. E lei: “Per lo stesso motivo per cui la gente va al mare, nuota, fa le immersioni, per divertimento”. E mi dice: “Ma perché, pensi che se una persona ha perso le gambe non ha più il diritto di divertirsi? Pensi che se nella vita ti accade qualcosa, perdi qualcosa, da quel momento dovrai vivere soltanto di lutto?”. E mi ha fatto un discorso bellissimo, che mi ha fatto capire come sia possibile ripartire, ricominciare. Mi ha detto: “Sai, per me il primo periodo è stato un inferno – pensate che in 60 giorni le hanno fatto 30 operazioni chirurgiche -, pensavo di non riuscire a sopravvivere neanche un minuto, contavo i secondi e dicevo: sono sopravvissuta ancora un minuto. Poi ho pensato: ecco, Tammy, adesso puoi maledire tutti i giorni quello che è accaduto, oppure puoi provare a ricominciare a vivere. Allora ho pensato: ma c’è stato un ribelle iracheno che ha avuto il suo giorno fortunato perché mi ha abbattuto, io andavo a quasi 300 km l’ora e volavo a 3 metri sopra gli alberi, per cercare di non farmi colpire. Questo iracheno, che aveva un razzo, ha tirato a caso e mi ha centrato. Allora, si è già preso le mie gambe, si deve prendere anche il resto della mia vita? Si deve prendere le mie serate, si deve prendere la possibilità di star bene con mio marito, si deve prendere il piacere di stare con gli amici, di leggere un libro, di bere una birra, mangiare una pizza, ordinare cinese al ristorante? Perché si deve prendere tutto questo? Si deve prendere i miei amici? No, non glieli voglio lasciare! Si è già preso le gambe, il resto è la mia vita, io voglio viverla fino in fondo”. Alla fine del nostro incontro, mentre l’accompagnavo alla macchina, naturalmente ho detto: “L’accompagno?”. E lei: “No, sono capace di andare da sola. Si preoccupi lei, che non la vedo molto abituato a guidare sul ghiaccio, faccia bene attenzione”. E ancora: “Vedi, ogni giorno, quando ci svegliamo, possiamo decidere di essere infelici ed esserlo davvero, o possiamo decidere di scommettere sulla vita e crederci veramente”. Ecco, è stato quello che mi ha fatto girare. Ho pensato che questa storia mi faceva vedere che nella crisi dovevo cercare qualcos’altro, dovevo cercare la voglia di combattere, di rinascere, di scoprire, di scommettere, piuttosto che il lasciarsi andare. E quindi così è nato questo viaggio, così è nato questo libro.
CAMILLO FORNASIERI:
Sono molto colpito per questo cambio di prospettiva che lui ha detto. Il fine non è cercare quello che ci si è prefissi ma rispondere alle domande che spiegano la vita, che danno una risposta. E questo è straordinario, come straordinario, perché umano, perché ci ritroviamo dentro tutti, ci corrisponde di più, è questo andare a riprendere la vita di persone o di situazioni che si sono incrociate per un dovere di cronaca, seppur vissuto come giornalismo attento. E questo è certamente un qualcosa di più. Io voglio farti un’altra domanda: certamente c’è una diversità di posizione umana e culturale che si trova nei libri, in quello che leggiamo si capisce che persona c’è, che professionista c’è, che uomo c’è. Che cosa nella tua vita ha generato e rigenera questa attenzione all’umano? Il libro si apre con un brevissimo racconto, che da solo varrebbe la pena di prenderlo, che non racconto perché non voglio bruciare nulla, un fatto straordinario di una persona nata due volte, di una bambina nata prematura in una situazione di freddo, all’inizio del secolo, e di un dottore che invece pensa l’imprevedibile, o vuole verificare, vuole andare a vedere se è proprio vero che non c’è più niente. Di queste storie americane, Calabresi prima ha detto: “Perché io voglio credere nella vita”. Dire “credere nella vita” significa credere in qualcosa che non è tuo, perché non si può credere in una cosa che è tua, se l’hai fatta. Ecco, questo forse è l’inizio del segreto, ma volevo fare una piccola tappa, brevissima, per dire che cosa te ne fai e per te che senso ha questa attenzione umana che a me stupisce e credo che stupisca tutti.
MARIO CALABRESI:
Il primo breve capitolo non è una storia americana ma è la storia di mia nonna, che appunto era nata prematura perché la mamma era caduta in casa ed era stata considerata morta per più di due ore, avvolta in un fagotto di lenzuola appoggiato sul piano di marmo di un mobile, considerata morta finché un medico, curioso e pieno di fede, non andò per curiosità a vedere e si accorse che invece era viva. E, seppure lei aveva sei mesi nel 1915, quando non esistevano le incubatrici e niente, si inventò un modo, volle provare quello che per gli altri era impossibili, cioè tenerla in vita. Le costruì una piccola incubatrice con il cotone idrofilo, la bambagia, la mise in una cucina con la stufa sempre accesa, le mise una lampada sopra e le dava il latte con il contagocce. E così l’ha salvata, l’ha riportata alla vita: e io ho sempre pensato che se non ci fosse stato questo medico che aveva una speranza e una fede che gli altri non avevano, io non sarei qui a raccontarvi il libro e non ci sarebbe mia madre e non ci sarebbe stata mia nonna. E quindi questo a me sembrava la cosa più forte. Devo dire questo: dopo che avevo scritto il libro sulla storia di mio padre e sul terrorismo, la Mondadori, come fanno le case editrici quando un libro ha successo, voleva a tutti i costi che scrivessi un altro libro autobiografico, un altro libro sul terrorismo. Io ho detto che non avrei scritto più nulla perché quello che avevo da dire l’avevo raccontato. E non è che uno racconta una storia due volte, oppure fa la seconda puntata, non aveva senso. E quindi ho detto che di quello non avrei scritto. Poi ho incontrato queste storie, ho proposto queste storie e loro all’inizio mi dicevano: “Mah, però la campagna elettorale americana…”, così. Alla fine, però, quando ho scritto tutto, mi sono reso conto che questo libro, in fin dei conti, è in un certo senso fratello di quell’altro, perché queste storie di persone che sono cadute e cercano di ricominciare, di uscire dal tunnel, si potrebbe chiamare anche questo Spingendo la notte più in là, cioè cercare di uscire e di avere fiducia. Devo dirvi la verità, me ne sono veramente reso conto soltanto quando ho finito di farlo, e allora ho capito che sì, io sono andato a cercare delle storie di crisi, ma probabilmente, inconsciamente, ero andato a cercare delle storie di persone che provano a farcela, che si tirano fuori. Sono attirato e affascinato dalle persone che, appunto, scommettono sulla vita. E alla fine, quando ho lasciato Tammy Dawport ed ero sulla strada per l’aeroporto, ho pensato che, in fin dei conti, in un certo senso, era come se avessi intervistato mia madre. Ho pensato a mia madre, al fatto che ci aveva sempre detto che non potevamo svegliarci ogni mattina e coltivare la rabbia, il rancore, l’odio, perché altrimenti avremmo perso la nostra possibilità di vivere e perché altrimenti i terroristi avrebbero vinto ogni giorno, perché il gesto che era stato fatto avrebbe vinto ogni mattina. E quindi mi sono reso conto, piano piano, e poi nel finale del libro l’ho avuto chiarissimo, che stavo scrivendo di nuovo la cosa che ho più a cuore, cioè che di fronte ai lutti, alle tragedie, alle sventure di qualunque tipo, abbiamo una grande possibilità, che non può essere un obbligo, ma abbiamo una grande possibilità che è quella di sperare, che è quella di avere fede che ci possa essere dell’altro, che finché c’è un momento di vita, fino a quel momento, fino all’ultimo momento, c’è una possibilità di fare dell’altro. Però bisogna amare le cose che si fanno. Penso ancora a mia nonna, a cui appunto è dedicato questo primo capitolo, che ha fatto a tempo a vedere il libro finito. Purtroppo è morta dopo poche settimane che il libro era uscito, però io, con la prima copia, sono andato da lei a casa sua. Lei era a letto, non mangiava da un po’ di giorni, era assopita. Io sono arrivato e le mie zie mi hanno chiesto cosa volevo fare. E io: “Sono venuto perché ho promesso alla nonna che le leggevo almeno il primo capitolo che la riguarda”. E loro mi hanno detto: “Sì, ma non so se ti sente, lasciala tranquilla…”. E io: “Guarda, gliel’ho promesso e quindi sono venuto per leggerle il primo capitolo”. Mi sono seduto vicino al letto e ho iniziato a leggere, e l’ho letto tutto. Quando ho finito di leggere, mia nonna aveva ancora gli occhi chiusi e io non sapevo se lei mi avesse ascoltato o no, però pensavo che avevo fatto quello che le avevo promesso. Invece, improvvisamente, mi alzo perché pensavo dormisse, per andare fuori dalla stanza, e lei, con una voce che da giorni non aveva più, quasi squillante, mi dice: “Mario!”. Io mi sono immobilizzato e lei: “Mario, ma è già stampato il libro?”. Ho detto: “Sì, nonna, è stampato, ti ho portato la prima copia…”. “Ah, ma non si può far niente per correggere gli errori?”. Io ho detto: “Nonna, sì, si può correggere poi per una ristampa successiva…”. Stavo pensando: ho sbagliato la data di nascita? Ho scritto una cantonata mostruosa? Oh Dio, che cosa le ho fatto? Dico: “Nonna, ma cosa ho sbagliato?”. “No, tu scrivi che il medico, il dottor Buscaglino, mi avvolge in una coperta di lana e mi porta a casa sua, corre fuori dalla stanza. No! Il dottor Buscaglino mi ha avvolto in uno scialle di lana nera. Mi piacerebbe che tu fossi preciso…”. E allora io le ho detto: “Va bene, nonna, appena potrò, cambierò, te lo prometto.” E lei: “No, meno male, hai fatto un buon lavoro, però dovresti essere più preciso”. E qui aveva 94 anni, è una storia divertente, però a me ha riconfermato fino all’ultimo – è l’ultima volta che l’ho vista – il suo amore per i dettagli, per le cose fatte bene, per la precisione. Per cui, in un certo senso, il libro l’ho aperto e l’ho chiuso con lei, ed è strano. Uno potrebbe dire, un libro sull’America che si apre e si chiude con una signora italiana, piemontese. Il punto è questo: la chiamavo spessissimo, dai posti in cui viaggiavo per le storie, mi ha perfino diagnosticato un attacco di appendicite acuta, mentre stavo in Kentucky, in un posto di campagna dove c’erano al massimo dei veterinari ma nessun medico. Erano le due di mattina e io avevo dei dolori fortissimi. Allora ho pensato: chi chiamo alle due di mattina negli Stati Uniti? Ho pensato che però lì c’erano sette ore, e che in Italia erano le nove del mattino. Allora ho chiamato mia nonna, perché se avessi chiamato mia madre, si sarebbe agitata, avrebbe dato i numeri, non avrebbe saputo chi chiamare. Invece ho chiamato mia nonna, che aveva una certa sua tenuta. Ho detto: “Nonna, ho molto male, secondo te che cos’è?”. E lei, anziché dire: cretino, vai da un medico, ecc., cosa mi chiami dal Kentucky a Milano alle nove del mattino, mi ha detto: “Cosa senti? Senti come un morso?”. Io dico: “Sì”. “Prova a piegarti”. “Mi fa male”. “Prova a premere, senti come se morde?”. “Sì”. “E’ appendicite. Vai immediatamente da un medico. Dove sei?”. “In Kentucky”. E lei: “Non ho ben presente dove sia, che cosa c’è fuori?”. Io ho detto: “Nonna, cavalli, veterinari, allevamenti e produzione di whisky”. Dice: “Forse non è il posto ideale dove farsi ricoverare. Senti, fai una cosa, a che ora è il primo aereo?”. Dico: “Guarda, c’è un aereo alle sette per New York”. “Allora vai all’aeroporto, alle sette prendi il primo aereo, torni a New York e vai direttamente all’ospedale”. Io ho seguito le sue istruzioni, ho chiamato il mio medico dall’aeroporto, sono andato direttamente all’ospedale e mi hanno operato d’urgenza di appendicite, come aveva diagnosticato lei al telefono. Raccontandole queste storie americane, che cosa è successo? Che un giorno in cui io le dicevo: “No, perché, nonna, sai, ho trovato questa cosa, gli americani fanno…”, mia nonna, pur essendo una a cui stavano simpatici gli americani, a un certo punto è sbottata e mi ha detto: “Sì, Mario, adesso non è che noi non abbiamo fatto niente. Guarda che noi, dopo la guerra, abbiamo ricostruito un paese che era in ginocchio, che non c’era più niente. Guarda che gli americani siamo stati anche noi, il problema è che ce ne siamo dimenticati”.
CAMILLO FORNASIERI:
Raccogliendo l’interessante spunto su questa dimenticanza, un’ultima domanda, brevemente: don Giussani ha definito la speranza con una parola molto chiara e anche molto semplice: una certezza nel futuro in forza di una realtà presente, cioè di un qualcosa che c’è, ora. Volevo farti questa domanda: sono storie, appunto, una italiana e le altre americane, ma storie di uomini. Volevo chiederti la differenza tra il riprendere la vita nella fede, riprenderla per una capacità di essere sempre esposti, come spesso è in America, buttati nella vita, buttati nella frontiera delle cose, non solo quella mitica, e quel rischio non calcolato o meglio quel rischio che fa padroni della vita, e che ha anche un po’ forse generato la crisi, cioè ha ingenerato un modo di non guardare più all’esistenza come qualcosa di dato. Siamo forse arrivati sul bilico di un baratro, molti dicono che è partito un po’ anche da lì. Nel tipo umano americano, ma anche per la tua esperienza, questa fede, urto della vita o rischio senza senso, dove sta la differenza, come l’hai riscontrata tu nella vita delle persone che hai incontrato?
MARIO CALABRESI:
Non c’è dubbio che la crisi economica mondiale nasce negli Stati Uniti e gli americani hanno delle colpe nell’essersi assunti una serie di rischi eccessivi, senza pensare al domani. Però c’è un fatto: molti lo hanno fatto per un eccesso di fiducia nel futuro, negli altri, in se stessi, e nel negativo c’è anche un positivo. Presentando il libro a Gorizia, un paio di mesi fa, una persona del pubblico mi ha fatto una domanda: “Ma a lei non sembra che alla fine gli americani siano dei bambinoni, degli ingenui che hanno una visione del mondo un po’ rosea e alla fine combinano questo disastro?”. Io ho detto: “Sì, è vero, però io non sono convinto che una società che invece si è convinta, come quella europea e come la nostra, che avere degli ideali, avere delle speranze, avere anche tenuto vivo qualcosa che è dei bambini, il fatto di farsi domande, di chiedersi perché, di cercare, di chiedersi come mai accadono le cose, e invece essere adulti che non si fanno più domande e che, con un certo cinismo, conoscono già tutto, sia la risposta giusta. Io penso invece che forse un po’ dovremmo tenere vivo il bambino che abbiamo in noi, se questo significa avere la capacità di sperare, di scommettere, di conoscere, di porsi delle domande e anche di pensare che il futuro, la speranza possano esserci, e non partire invece dall’idea che non sia dato. Perché io trovo che è naturale che si può perdere, tutte le sfide che abbiamo davanti si possono perdere. Il problema è che se decidiamo, per paura di perderle, di non accettarle, di non scommetterci, allora abbiamo perso veramente, ci siamo arresi. Se anche poi la sfida appare impossibile, se anche non abbiamo nessuna garanzia di quello che sarà, io penso che valga assolutamente la pena farla, la partita, anche per la soddisfazione e per il piacere di averla fatta, anche se poi non si è maggioritari, anche se poi l’idea per cui ci siamo battuti, la cosa che abbiamo fatto, il percorso che abbiamo fatto non è per forza vincente. Questo penso che dobbiamo essere capaci di prendere un po’ dagli americani, la scommessa sul futuro. Questa parte di ottimismo che, secondo me, erroneamente, certe volte viene scambiata per essere qualcosa di naïf. È meglio passare per dei personaggi un po’ troppo naïf e farsi qualche domanda in più, piuttosto che chiudersi nella sicurezza di chi pensa di avere già tutte le risposte.
CAMILLO FORNASIERI:
Grazie davvero a Calabresi per questo suo lavoro. Ci ha consegnato in questo breve dialogo lo stupore, non solo la consapevolezza che le cose accadono, ma lo stupore che attraverso di esse si svolga una mia partecipazione alla vita, una mia partecipazione al mistero dell’essere, drammatico, doloroso o gioioso. E’ questo il motore della conoscenza perché, potremmo dire, parafrasando il titolo del Meeting, la conoscenza è sempre un avvenimento ma occorre essere disposti a che l’avvenimento cambi il punto di vista, cambi la posizione, mi conduca anche dove io non voglio essere condotto. Questa è certamente la testimonianza che rende importanti le parole, perché poi il giornalismo è una scrittura, fissa le parole degli avvenimenti e si capisce subito se le parole fissano gli avvenimenti o sono un ego rovesciato della persona che scrive. Grazie ancora e un auguro per il lavoro.
MARIO CALABRESI:
Grazie a voi.
(Trascrizione non rivista dai relatori)