Chi siamo
LAVORO: OPPORTUNITÀ O CONDANNA?
In collaborazione con Unioncamere. Partecipano: Simona Beretta, Docente di Politiche Economiche Internazionali all’Università Cattolica Sacro Cuore di Milano; Mara Carfagna, Ministro per le Pari Opportunità; Ivan Guizzardi, Segretario Generale FeLSA CISL; Lorenza Violini, Docente di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Milano e Responsabile Dipartimento Pubblica Amministrazione della Fondazione per la Sussidiarietà. Introduce Dario Odifreddi, Presidente Fondazione Piazza dei Mestieri e Responsabile Dipartimento Lavoro e Formazione della Fondazione per la Sussidiairetà.
DARIO ODIFREDDI:
Buongiorno a tutti, benvenuti a questo incontro sul tema del lavoro. “Opportunità o condanna”: già questo titolo dice che il nostro tentativo di oggi sarà affrontare il tema del lavoro sotto una molteplicità di sfaccettature. La prima è legata proprio al concetto di lavoro: cos’è il lavoro, quali nessi ha con la persona, con la sua vita e i suoi desideri, con la passione di conoscere. Una seconda attiene al lavoro come dimensione necessaria all’uomo, una necessità che è al contempo economica e di realizzazione personale. Il lavoro, infatti, non è solo lo strumento per ottenere un reddito, per quanto quest’aspetto sia essenziale, soprattutto in questi tempi, ma è innanzitutto la modalità espressiva per l’eccellenza dell’uomo che mette in gioco i propri talenti per trasformare la realtà. Un terzo aspetto sarà quello legato alle tutele del lavoro, alla necessità, inevitabile per ogni persona, di avere certezze per costruire il proprio futuro e quello della famiglia. Qui entreremo anche nel tema delle politiche attive e delle politiche passive. Il quarto aspetto è una valutazione dei cambiamenti che interessano il mondo del lavoro, in particolare il mercato del lavoro rispetto ai temi attuali, di natura congiunturale e strutturale. Infine, una quinta accezione sarà dedicata all’aspetto del lavoro femminile e alle barriere all’accesso con cui spesso molte donne devono misurarsi per entrare a far parte del mondo del lavoro.
Trasversalmente al nostro dibattito, sarà tenuto presente il rapporto tra lavoro ed impresa o, meglio, tra lavoratori ed imprenditori. Questo infatti è un nodo cruciale, come ci ha ricordato di recente un amico presente più di una volta al Meeting, Francois Michelin, raccontandoci un brevissimo aneddoto. In un suo stabilimento a Clermont-Ferrand c’era uno sciopero. Lui entra in azienda e chiede ad un delegato sindacale: “Secondo lei, il padrone è un lavoratore, o no?”. Risposta: “Lei non è un lavoratore”. E Michelin: “Allora, che cosa devo raccontare a mia moglie che mi chiede: cosa fai tutto il giorno se non lavori?”. Il delegato insiste: “Lei non è un lavoratore perché non ha lo statuto del lavoratore, non riceve degli ordini, lei è il padrone”. E Michelin: “Ne è convinto? La fabbrica adesso è in sciopero, è lei che mi sta dando un ordine. E quando le varie case automobilistiche mi chiederanno i pneumatici, sono io a ricevere un ordine. E non sono libero di fare quello che voglio: bisogna che questo pneumatico ci sia e sia fatto bene, che vada bene per quell’automobile. Quindi, in fin dei conti, sono un lavoratore”.
Apre il primo intervento di oggi l’intervento della professoressa Simona Beretta, professore ordinario di Politiche economiche presso la facoltà di Scienze politiche dell’università Cattolica del Sacro Cuore dal 2001. Insegna Disciplina economica internazionale e ha tanti altri titoli che, per motivi di tempo, vi risparmio. La parola a Simona Beretta.
SIMONA BERETTA:
Grazie. La parola lavoro è centrale per capire ogni momento. La dottrina sociale della chiesa dice che il lavoro è la chiave della questione sociale. Oggi siamo in un momento di crisi: la parola lavoro è quella meno pronunciata a proposito della crisi ma assolutamente indispensabile, perché uscire dalla crisi significa semplicemente mettersi a camminare su una strada ragionevole di sviluppo. Sì, perché lo sviluppo è una strada; coincide con la strada, non si identifica con la destinazione finale. Importa certamente dove si arriverà, ma importa molto di più quello che sta accadendo ad ogni singolo passo.
Cos’è lo sviluppo? Lo sviluppo è passare dal “di meno” al “di più” delle cose buone e desiderabili, verso una pienezza di opportunità, di soddisfazione dei bisogni, di “tutto l’uomo e di tutti gli uomini” (Populorum progressio, ripresa dalla Caritas in Veritate).
Questo sviluppo è una precisa vocazione di ogni persona e di ogni popolo. Il contesto economico e istituzionale può influenzare, nel bene o nel male, il mettersi in movimento delle persone e dei popoli, ma l’osservazione dei fatti non lascia dubbi: la differenza la fanno i singoli passi delle singole persone (l’ufficio postale che qui “funziona” e là non funziona; 100 dollari spesi per la cooperazione allo sviluppo qui fanno miracoli e là non generano nulla, o fanno danni).
A questa vocazione si risponde (di sì o di no) col proprio lavoro. Alla specifica vocazione dello sviluppo si risponde col proprio lavoro, il quale – citando una frase che ci è cara – “è fare un uomo al tempo stesso di una cosa” (E. Mounier).
La Caritas in Veritate parla di crisi, di sviluppo e di lavoro, del mercato e della finanza; ma la vocazione allo sviluppo che trova risposta nel lavoro rimane la “chiave” della questione sociale – oggi, nell’epoca della globalizzazione, come ai tempi della industrializzazione su larga scala e della prima enciclica sociale (Rerum Novarum); come ai tempi della “grande crisi” del 1929 che la Quadragesimo Anno ha descritto e giudicato con tratti essenziali e incredibilmente attuali.
Uscire dalla crisi, cioè lavorare per lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini: questa è la sfida dell’oggi (e di sempre…).
Mi colpisce molto il fatto che il titolo del Meeting, riferito al dinamismo umano del conoscere, si presti a illuminare anche l’esperienza del lavoro.
Lavorare e conoscere sono due verbi che esprimono un movimento, un atto della libertà personale (actus personae). Esprimono il dinamismo della persona intera – intelligenza e amore (Caritas in Veritate, 30: “Non c’è l’intelligenza e poi l’amore: ci sono l’amore ricco di intelligenza e l’intelligenza piena di amore”).
Esprimono la relazionalità costitutiva della persona: imbattendosi nell’altro, si conosce se stessi. Si lavora “per”, “con”, “presso” qualcuno. Si impara a lavorare “da” qualcuno: nel lavoro, si usano le conoscenze, le tecniche e il capitale che le generazioni passate ci hanno lasciato. Come nella conoscenza, anche nel lavoro c’è un ruolo essenziale per il “testimone” – sia in senso soggettivo (la persona che trasmette) sia in senso oggettivo (l’oggetto che mi arriva tra le mani e che è il condensato del lavoro di chi mi ha preceduto).
Nella conversazione di oggi attorno alla crisi, al lavoro e in particolare al lavoro femminile, c’è una idea che mi sembra particolarmente appropriato mettere a fuoco. Si tratta della parola “generazione”.
Lo sviluppo economico (che, da economisti, sappiamo abbastanza descrivere a posteriori – ma decisamente non sembra sappiamo né prevedere, né “produrre”) non somiglia al dilatarsi equiproporzionale di qualcosa che rimane uguale a se stesso; lo sviluppo economico si documenta come l’accadere di qualcosa di nuovo. Per usare il gergo, non è una “riproduzione allargata”, cioè il crescere di dimensioni di qualcosa che resta uguale a se stesso, come un fungo. Lo sviluppo è proprio un’altra cosa. Qualcosa di nuovo irrompe sulla scena: un nuovo prodotto, una nuova tecnica, un modo innovativo di organizzare il lavoro di squadra (mai pensato a come facessero gli omuncoli dell’età della pietra ad abbattere un mammut?).
Lo sviluppo accade grazie al lavoro di qualcuno che ha una intuizione, che “vede” una possibilità, la coltiva, se ne prende cura, che convince altri a coinvolgersi. Non c’è niente di meccanico in tutto questo. Non è “riproduzione”, è proprio “generazione”: la scintilla di un inizio nel quale accade qualcosa di nuovo, che non si realizza da sé ma che ha bisogno di cura.
Credo che il punto vitale di connessione fra donna, lavoro e sviluppo economico stia qui, nel ricordare sempre che il lavoro e lo sviluppo economico sono essenzialmente dinamiche generative: vocazione accolta e custodita. Ho l’impressione che se non si parte da qui, il lavoro come opportunità (per non parlare delle “pari opportunità”) rimanga un discorso teorico.
Paolo VI diceva, e Benedetto XVI conferma, che il mondo “soffre per mancanza di pensiero”. L’intuizione che il lavoro e lo sviluppo siano “vocazione accolta”, siano la risposta di slancio della libertà personale a un dono ricevuto: la natura, il capitale, la conoscenza, le tecnologie…, ci può mettere sulla strada di un pensiero innovativo anche sulla questione femminile e sulle pari opportunità.
Il primo tratto di pensiero innovativo consiste nell’allontanarsi dal paradigma individualistico in cui esistono solo i singoli, lo stato, il mercato (Caritas in Veritate, 41).
Pensiamo allo sviluppo: si misura col PIL, nel quale si sommano “beni” e “servizi”, cioè “roba” e “cura”.
La roba ha un prezzo (quindi sommiamo senza problemi); in mancanza di pensiero adeguato, continuiamo a misurare la “cura” sulla base di quanto la si paga. Le cure della tata entrano nel PIL, quelle della mamma no.
Quanta istruzione si produce? La somma di quanto vengono pagati gli insegnanti. Semplicemente incredibile, che si decida se siamo dentro o fuori la crisi, se ci stiamo sviluppando o no, sulla base di una misura così fatta.
Sviluppo è progredire nel “ben-essere”: quel “ben-essere” che si fatica a misurare col PIL ed è invece evidente nella esperienza elementare quotidiana. Le cose buone, l’essere amati, il sentirsi curati, l’essere trattati con sincerità… Insomma, sperimentare relazioni di carità e di verità ci fa stare bene.
Il “ben-essere” ha più a che fare con le relazioni che con la “roba”.
Una enciclica sociale che parla di Verità e Carità non sta parlando d’altro: sta proprio parlando del ben-essere della persona e della società, dal singolo villaggio sperduto, alla nazione, alla intera famiglia umana. Verità e Carità sono davvero la grammatica elementare dell’umano – tutti lo capiscono (anche chi afferma di non sapere cos’è la verità, si incavola quando scopre di essere stato imbrogliato…).
Pensiamo al lavoro: le “risorse umane”, che tutti dicono essere la risorsa centrale delle imprese e delle nazioni, sono persone: prima sono bambini, e prima ancora ci sono ma non si vedono. Sembrano solo dei pancioni: le risorse umane sono relazione allo stato puro.
Generare uomini è la forma elementare di investimento produttivo. Generare è ben diverso dal riprodursi. Per gli animali bastano cibo, riparo e addestramento. Perché fiorisca l’umano, sono invece indispensabili relazioni significative, che insegnino a cercare la bellezza, la conoscenza…, insomma, a cercare il senso complessivo della vita.
Questa ricerca è la radice dell’innovazione e del progresso, anche economico. Il progresso e lo sviluppo sono realmente dinamiche generative.
Proviamo a osare un pensiero innovativo in riferimento al lavoro femminile, a partire dalla osservazione della realtà.
Nei paesi a più basso reddito, il lavoro femminile letteralmente consente la sopravvivenza. Un eroismo quotidiano, che in certi casi si attua in opere che colpiscono anche per la loro enorme generatività economica e sociale (il Meeting point…). Anche fermandoci al quotidiano, in Africa circa l’80% del prodotto agricolo destinato alla alimentazione è prodotto e processato dalle donne; un grande parte di questa produzione viene realizzata nel cosiddetto settore informale – cioè non rientra né nel lavoro dipendente, né nell’attività delle imprese formali. In altre parole non entra nel calcolo del PIL (ma non è che non esista e non produca “ben-essere” perché non rientra negli schemi contabili…).
A questo lavoro non corrisponde una remunerazione formale – e in molti casi questo è male: dare un “prezzo” al lavoro ha anche il valore simbolico di segnalare l’ “apprezzamento” sociale per il lavoro stesso. In altri casi – ad esempio nel caso del lavoro all’interno della famiglia – le forme in cui si manifesta l’apprezzamento per il lavoro femminile sono affidate alle relazioni personali, che possono essere il luogo della gioia o della tragedia.
Anche nei paesi ad alto reddito c’è molto lavoro, sia maschile sia femminile (ma soprattutto femminile, come emerge dalle ricerche sull’uso del tempo da parte delle donne e degli uomini) che produce “ben-essere” senza entrare nel PIL. Per quanto riguarda il lavoro formale (cioè quello contrattualmente remunerato), nei paesi ad alto reddito ci sono ancora chiari segnali di differenza (“gender gap”) a sfavore delle donne: sia nel tasso di partecipazione al lavoro, sia nei tassi di occupazione, sia nei salari medi a parità di mansione (nonostante nella maggior parte dei paesi vi siano leggi che prevedono che un determinato lavoro sia pagato lo stesso, indipendentemente se effettuato da una donna o da un uomo). Negli ultimi decenni, questi “gap” si sono assottigliati e i segnali di cambiamento futuro vanno nella direzione di una loro ulteriore riduzione; anzi, ci sono addirittura segnali di possibili “sorpassi” (le differenze fra maschi e femmine nel grado di istruzione e nel successo scolastico sono già a favore delle ragazze, e non solo nei paesi avanzati), tanto da indurre The Economist a parlare di “womanomics”.
Aggiungiamo un dato interessante che serve a sgombrare il campo dall’idea che la donna o è mamma, o è lavoratrice. Nel confronto fra paesi ad alto reddito, le donne hanno meno bambini dove lo scarto a sfavore delle donne nella partecipazione al mercato del lavoro è più ampio (più lavoro, più bambini). Il che significa ovviamente che le donne lavorano tantissimo…
In questo quadro, cosa significa “pari opportunità”? Quanto del gender gap nel lavoro formale è discriminazione, e quanto è scelta? La questione è semplicemente essere “come” o “meglio degli uomini” sul lavoro, come in una gara? Facendo poi gli equilibrismi per far quadrare gli impegni con le misere 24 ore di un giorno?
La questione delle pari opportunità rimane formale, nel paradigma individualistico. Non è possibile capire il femminile senza il maschile – pari opportunità significa qualità delle relazioni (di dominazione, o di collaborazione). Nessun programma di “pari diritti” tra uomo e donna ha senso, se non considera il debito speciale dell’uomo verso la donna, nella loro comune esperienza di essere genitori (Mulieris Dignitatem, 18 – Giovanni Paolo II).
Non possiamo analizzare e capire la questione all’interno del paradigma individualistico, in cui si raccolgono e aggregano dati riferiti al singolo individuo, indipendentemente dalle sue relazioni fondamentali. E’ urgente cominciare a raccogliere sistematicamente informazioni statistiche di natura relazionale (cosa normale per altri ambiti dell’analisi economica: quanto l’Italia esporta in Cina è un dato relazionale). Le opportunità delle donne (non della donna in astratto: delle donne vere, ciascuna con la sua faccia e la sua storia) si capiscono solo nel quadro delle loro relazioni vitali. Se non si conosce il problema per intero, è difficile intervenire in modo sensato.
Il fare è cieco senza il sapere, e il sapere è sterile senza l’amore (Caritas in Veritate, 30).
Sterile, cioè non generativo. Per generare (per ogni dinamica generativa) occorre l’amore.
Nel lavoro, dell’uomo e della donna, nello sviluppo “generativo”, c’è un punto di gratuità, che non si può predisporre per legge (Caritas in Veritate, 39) o per via tecnocratica (sesto capitolo della Caritas in Veritate).
Ogni mattina il lavoro è nuova risposta generosa (generativa) alla propria vocazione; ogni generazione è chiamata a generare di nuovo istituzioni di giustizia. La pienezza delle opportunità, per ciascuna persona e per tutti i popoli, si realizza con la carità nella verità, niente di meno.
DARIO ODIFREDDI:
Grazie alla professoressa Beretta, che ci ha introdotto al lavoro come responsabilità. Il lavoro come risposta alla realtà che ci viene incontro, quindi, innanzitutto, come una risposta vocazionale. Non innanzitutto come una tecnica e neppure come un diritto. Noi viviamo un momento molto complesso, come ci è noto, con problemi sul lavoro e su quello che, in termini tecnici, si chiama mercato del lavoro, che hanno caratteri di natura strutturale. Vuol dire che li abbiamo da tanti anni, che sono precedenti alla crisi, e ce ne sono altri che invece si sono accentuati o sono nati proprio in questo periodo, in questo ultimo anno e mezzo di crisi. Cito solo, per introdurre il secondo intervento, alcuni dati. E’ vero che il PIL non coincide con il benessere, ma è comunque una misura di quella che è la capacità di produrre e generare ricchezza. Ebbene, i tassi di crescita del nostro paese sono stati costantemente, ormai da tantissimi anni, i più bassi dell’eurozona. Nel periodo 2001-2006 siamo ultimi come crescita del PIL pro capite, e penultimi come crescita del PIL. Nello stesso periodo, siamo ultimi per produttività del lavoro e per produttività generale. C’è certo qualche segnale positivo: per esempio, anche in questo tempo di crisi, c’è stata una tenuta, una capacità delle imprese, soprattutto di molte piccole e medie imprese, sulle esportazioni, e anche di tenuta delle quote di mercato. Ma spesso si è avuta questa tenuta grazie al fatto che si sono ridotti e assottigliati ulteriormente i margini ormai negativi per molte imprese. Non possiamo nasconderci che in Italia i salari crescono meno di quanto accada in altri paesi europei, che la pressione fiscale sui salari è tra le più alte e in tendenziale crescita. E soprattutto, c’è una cosa di cui si parla ogni tanto senza tirarne le conseguenze in termini di politica e di policy: vi è una scarsità di risorse umane qualificate in alcuni settori in grado di assorbire persone nel lavoro, anche in settori tradizionali, anche in settori innovativi.
Questo è legato a una cosa cui la professoressa ha accennato: il tema del nostro sistema educativo, di cui tantissimo si parla. Si dice che l’aspetto educativo, la capacità di investire in educazione sulle risorse, è la vera nostra chance di sviluppo; ma poi è estremamente difficile tradurre e vedere tradotto questo in termine di politiche. Ci sono poi alcuni aspetti che invece hanno a che fare con questi ultimi tempi, quindi sono più legati alla crisi: abbiamo un rischio di perdita di consistenti ulteriori posti di lavoro, alla ripresa autunnale, se non riparte l’economia – e comunque anche se riparte, perché avrà dei tempi che non saranno brevissimi – e se non si generano margini di profitto per le imprese. Abbiamo una caduta della marcia salariale in Italia, per la prima volta dal dopoguerra, e abbiamo una caduta dell’occupazione, pur contenuta da alcune misure di carattere straordinario fatte dal governo. Ecco, su questi temi io chiamerei a reagire Ivan Guizzardi, segretario generale della Federazione dei lavoratori autonomi atipici e somministrati della CISL, con una ormai lunghissima esperienza nel campo del lavoro, dell’educazione, della formazione.
IVAN GUIZZARDI:
Vorrei partire da due considerazioni che già adesso la professoressa Beretta ci comunicava nella sua relazione: credo siano in qualche modo provocatorie.
Ci troviamo oggi in un contesto del lavoro caratterizzato da opportunità che normalmente vengono lette in negativo. Pensiamo al lavoro atipico, che ha certamente degli aspetti di negatività. Spesso il lavoro atipico viene pensato come il nuovo levatore della storia. 25 o 30 anni fa parlavamo di una concezione che tendeva a fare elevare la società partendo dalla classe operaia. Oggi, c’è innato nel nostro paese un approccio di carattere culturale, che spesso vuole identificare nei cosiddetti lavoratori precari i nuovi soggetti della storia. I lavoratori precari sono un dato oggettivo: come 30 o 40 anni fa esistevano, in misura sicuramente maggiore di oggi, gli operai, oggi esistono i precari. Cosa può caratterizzare questa condizione? Che cos’è, su cosa siamo chiamati, noi come sindacato, a dare risposte?
Vorrei fare due considerazioni: la prima, che il problema può essere una condanna o può essere una opportunità, nella misura in cui uno vive con libertà questa condizione. Con libertà e con responsabilità perché, se uno continua a leggere secondo i criteri delle generazioni che ci hanno preceduti, rintraccia certamente una negatività. Per me cominciare a lavorare voleva dire avere tutte le condizioni di tutela e di rappresentanza che oggi normalmente questi lavoratori non hanno, o ancora poco.
La seconda considerazione veniva già detta prima e la ribadiva adesso Dario: il concetto della formazione. Formare vuol dire addestrare delle persone ma formare non può ridursi semplicemente ad un addestramento. Io addestro a una certa figura professionale in una situazione dove il contesto culturale mi dice che per essere qualcuno devo avere un altro modello, perché oggi si devono accettare le cosiddette figure professionali basse. Posso accettarle se ho una coscienza, una consapevolezza del mio io che è diversa da quella che la società mi propone. Perché altrimenti non accetterò mai di fare l’infermiere rispetto a un medico, perché evidentemente è una cosa subordinata. O non accetterò mai di fare un determinato lavoro rispetto a una prospettiva e a una progettualità che è diversa. Allora, formare vuol dire addestrare della nuove figure, ma vuol dire che degli adulti o degli insegnanti devono comunicare alle generazioni più giovani cosa significa lavorare, cosa significa vivere. Questo mi può fare accettare le condizioni del lavoro, le opportunità che mi vengono date. Perché vanno bene tutte? No, si tratta appunto di lavorarci.
E vorrei fare anche un’altra considerazione, rispetto agli anni Ottanta: cito quelli perché il Meeting è nato allora. C’erano due cose, una delle quali si è modificata, e un’altra invece permane: il mercato del lavoro, per chi lavorava in quegli anni, non aveva flessibilità. La difficoltà era entrare nel mondo del lavoro: poi, quando ci entravi, eri garantito. Oggi indubbiamente molto è cambiato. E le cose sono cambiate per delle condizioni, ma sono cambiate anche perché dei soggetti sociali, dei soggetti sindacali, in qualche misura hanno preso consapevolezza e hanno modificato la situazione. C’è una cosa che permane dagli anni ’80, ancora oggi, un contenuto che valeva allora e che vale oggi: che l’oggetto più significativo di tutte le prestazioni che possiamo mettere in campo si chiama compagnia. Perché, se uno è disoccupato ed è da solo, è nel dramma. Se uno è disoccupato ed è con qualcuno, è nella condizione di potere affrontare questa situazione oggettivamente pesante e difficile. Questa è la diversità sostanziale.
Le tutele e le prestazioni non nascono da una percezione illuminista della vita, nascono da persone singole o soggetti sociali che, facendosi carico dei bisogni, tendono a dare delle risposte. Questa è la valenza, che valeva negli anni Ottanta, di fronte a un mercato del lavoro chiuso, per nulla flessibile, e vale oggi, di fronte a un mercato flessibile, in cui i periodi di lavoro e di non lavoro in qualche modo si accompagnano, non solo in questo momento congiunturale ma spesso anche nei momenti più stabili. Allora, qual è l’elemento su cui una compagnia, una responsabilità e una libertà, sono capaci di generare e creare risposte? È indubbio che se non c’è sviluppo nulla procede, è difficile dare risposte. Ma anche nei contesti di difficoltà come quelli che viviamo, se c’è una condizione personale e di soggetti sociali che giocano sulla libertà e sulla responsabilità, qualcosa si può generare. Il sindacato in cui lavoro, la CISL, essendosi fatto carico di questa realtà, tende a dare delle risposte.
Certo, i periodi di non lavoro non possono essere determinati e pagati unicamente dal soggetto più debole, da chi è espulso dal mondo del lavoro, da chi non ha lavoro. I periodi di non lavoro devono essere a carico dalla società, di una azione sindacale che tende a dare risposte. Quando noi parliamo di politica attiva, parliamo di due aspetti: uno (non so come la pensa su questo la CISL, ma credo non sia lontano da come la penso io), sono contrario all’assegno di disoccupazione. Sono favorevole, invece, a una politica che sostenga il lavoratore nel periodo in cui non lavora. E sono profondamente convinto che il periodo di non lavoro non sia un periodo inerte. Il periodo di non lavoro può diventare un periodo in cui uno investe su di sé, anche se certo non può essere fatto unicamente a proprio carico, perché se uno non lavora non ha reddito. Allora, da un lato lo stato sociale, il welfare, dall’altro l’azione sindacale, possono, anzi, devono combinare una risposta a questo periodo, sia in termini di politica attiva – cioè di una capacità di rimettere al centro la preoccupazione del lavoratore per ricollocarlo, per dargli una possibilità di risposta se viene meno il suo lavoro, per cui di formarlo di orientarlo -, sia in termini di sostegno per quel periodo di non lavoro. E tutto questo in una combinazione che per me, per la CISL, è particolarmente significativa perché avviene con un’azione contrattuale. I soldi non vengono dati dallo stato ma gestiti dai lavoratori attraverso il sindacato delle imprese, attraverso la rappresentanza delle imprese. Per cui le tutele non consistono solo nell’andare a chiedere allo stato che ci dia dei soldi, ma in una forma che – chiedendo evidentemente anche allo stato, perché il bisogno è grande – vede una corresponsabilità dei soggetti sociali, sindacati e imprese, nel sostenere queste fasi critiche come periodi di utilità, di possibilità di sviluppo per la persona, per il lavoratore. Questo è un primo elemento fondamentale. Che le parti sociali si facciano carico, in parte, della copertura dei costi, in parte della gestione di politiche attive, credo sia una questione che sta totalmente dentro la concezione della sussidiarietà.
Il secondo elemento, una delle cose che veniva prima ricordata da Dario, è che certamente il nostro paese paga in termini di sviluppo e di salario una proporzione forte. Perché abbiamo sostenuto come CISL la politica della contrattazione di secondo livello che per i non addetti ai lavori significa, oltre ai contratti nazionali, la possibilità che nei territori, nelle aziende, si facciano degli accordi? Il contratto, scusatemi, non è solo un motivo di litigio. Il contratto è due soggettività – l’impresa e il lavoratore – che si mettono d’accordo per dare delle risposte. Allora, il contratto di secondo livello significa legare il maggiore salario alla produttività, cioè significa legare la possibilità che là dove c’é lavoro, là dove c’è maggiore sviluppo, là dove c’è maggiore opportunità, si creino le condizioni per cui aumentano i salari. Questa è la valenza del secondo livello: certo, se fossimo in un momento di maggiore ricchezza, potrebbe essere distribuita in maniera diversa. Oggi farsi carico in maniera responsabile di questo significa sviluppare, territorio per territorio, degli accordi che diano la possibilità di rispettare maggiormente la natura del lavoro che esiste in quel luogo. Che sia collocato in Calabria, dove purtroppo lavoro non c’è, che sia collocato in Lombardia, dove c’è ancora. Anche se lì si pagano delle crisi.
Questo è il livello su cui ci muoviamo. Certo, c’è un terzo elemento che spesso è comune alle imprese e al lavoratore. Non so se lo ha citato Dario, ma la leva fiscale è tutta collocata sulle piccole imprese e sui lavoratori. Purtroppo è così: tutto viene collocato lì perché è più facile recuperare soldi. Perché in un paese, quando l’evasione è così elevata, la cosa più immediata – ci sia un governo cosiddetto di centro-sinistra o di centro-destra -, è prendere i soldi là dove si possono rilevare, tassando le imprese, tassando il lavoro. Quando si potrà affrontare questo punto, affronteremo complessivamente uno dei problemi che ci accompagnano. Grazie.
DARIO ODIFREDDI:
Grazie, grazie Ivan Guizzardi. E’ interessante notare come, anche entrando nel merito degli aspetti più specifici legati alle policy alle politiche attive, ancora una volta resta decisivo il giudizio, la concezione da cui si parte. Nella modalità con cui si è affrontato, anche se per brevi spunti, per il poco tempo che abbiamo, il tema delle tutele, era chiaro, pur se non detto esplicitamente, che un conto è la libertà di cui fanno parte la capacità contrattuale e la libertà contrattuale, un conto è il meccanismo. Il meccanismo è un’altra cosa. Per questo non funzionano le gabbie salariali. Per questo, ad esempio, secondo me è importante incentivare la contrattazione di secondo livello e la contrattazione territoriale. Darei adesso la parola per il prossimo intervento alla professoressa Lorenza Violini, professore ordinario di Diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell’università degli studi di Milano. Sono tantissime le sue pubblicazione, negli anni, su diversi temi. Negli ultimi tempi si è dedicata allo studio dei meccanismi attuativi del principi della sussidiarietà ed è membro del Consiglio della Regione.
LORENZA VIOLINI:
Buongiorno a tutti e grazie dell’invito. Ringrazio i relatori che mi hanno preceduto per gli spunti veramente interessanti che hanno offerto a questo dibattito e che io mi limiterò a raccogliere, per offrire poi al ministro l’occasione di dire che cosa lo stato in questo momento pensa su questo grande tema. Vorrei però focalizzare la vostra attenzione su un aspetto del tema del lavoro. Non solo una grande visione della natura vocazionale del lavoro, non solo questa necessità di attivare politiche nuove per un momento difficile che il nostro paese sta attraversando, ma anche domandarsi se rispetto alle politiche che devono essere fatte in questo momento vi può essere una differenziazione tra il lavoratore uomo e il lavoratore donna. Noi abbiamo una grande tema, il tema delle così dette pari opportunità: questo tema va affrontato, tenendo conto degli aspetti che sono stati messi sul tavolo fin qui, la natura del lavoro e la condizione difficile in cui oggi chi lavora si trova ad operare. Allora possiamo chiederci: ma è diverso pensare politiche per il lavoratore o per la lavoratrice? Noi abbiamo una tradizione di politiche di pari opportunità che è sicuramente interessante, perché ha sollevato il problema, ha acceso i riflettori sul tema della differenziazione, ma che culturalmente – come sottolineava l’amica e collega Simona Beretta – è una matrice particolare. Perché la matrice culturale delle politiche è veramente stato il tentativo di riproporre un modello maschile anche nei confronti delle donne. Questo non è da cancellare, anzi, è da tenere presente come passo nelle politiche del lavoro a favore delle donne. Ma forse in questo momento ci si sta rendendo conto che non è sufficiente imporre un certo modello se la situazione di partenza è diversa. Abbiamo letto tutti sul giornale di quell’avvocatessa inglese di grandissimo successo che si è suicidata perché non riusciva a reggere lo stress del rapporto lavoro-famiglia, eccetera. Per questo io credo che sia importante, come primo passo, provare a riprendere il modello costituzionale. Noi parliamo sempre tanto della nostra Costituzione, ma ci sono degli articoli un po’ dimenticati, lasciati da parte, forse perché non ci paiono più al passo coi tempi, mentre a me sembra che possano essere, intelligentemente, riletti e riscoperti.
Dice l’articolo 37 della nostra carta costituzionale: "La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione" (art. 37). "L’essenziale funzione familiare" con la sensibilità acquisita oggi a cui si fa riferimento nell’articolo citato deve riguardare indistintamente sia la donna sia l’uomo. Il principio della parità ha ispirato la legge n. 903 del 1977 sulla parità di trattamento fra donne e uomini in materia di lavoro. Tale legge ha, inoltre, esteso il diritto di assentarsi dal lavoro e il trattamento economico previsti dalla legge sulla tutela delle lavoratrici madri, anche al padre lavoratore in alternativa alla madre lavoratrice. La legge vieta qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo d’attività a tutti i livelli della gerarchia professionale. La Costituzione afferma, inoltre, un altro rilevante principio: tra donna e uomo, a parità di lavoro, non deve esistere disuguaglianza di retribuzione; e non deve esserci discriminazione per l’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive. Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza secondo i requisiti stabiliti dalla legge (art. 51). Questo principio ha trovato piena attuazione con la legge 9 gennaio 1963 n. 7, che ha aperto alle donne carriere prima precluse, tra cui la carriera diplomatica e la magistratura (recentemente anche l’ingresso nelle forze armate).
Oltre la norma: le politiche
Per far si che questi riferimenti normativi occorrono politiche ad hoc, sia per il lavoro (pari opportunità effettive) sia per la famiglia
In Francia già esiste una politica famigliare massiccia e differenziata (3.8% del Pil per la funzione famigliare, tutti i bambini dai 3 anni alla scuola materna, congedi parentali e part-time, quoziente famigliare). Si sono proposti interventi ulteriori, come la revisione delle norme sul lavoro a tempo completo (il part-time penalizza in termini di carriera), l’istituzione di un nuovo congedo parentale breve, la creazione di un servizio pubblico per l’infanzia.
In Italia c’è un gap fortissimo in termini di capitale umano: moltissime laureate non lavorano o per scelte universitarie sbagliate o per la difficoltà di conciliare carichi familiari e lavoro sul mercato. Sono stati proposti interventi sia sui servizi che sulla tassazione. In particolare:
– servizi per l’infanzia (solo il 6.3% dei bambini italiani accede al nido, contro il 28% dei francesi)
– part-time (con attenzione ai fenomeni di segregazione verticale)
– istituzione di un congedo paterno breve, pienamente retribuito, indipendente e aggiuntivo rispetto a quello della madre
– detrazioni fiscali per figli a carico
– sgravi fiscali per l’assunzione femminile
Possiamo ora chiederci quale sia il rapporto tra le politiche per la famiglia, le politiche fiscali e le politiche per il lavoro. Questa è una questione aperta perché gli avversarsi di questa scelta tendono a dire che essa disincentiverebbe il lavoro femminile.
Il quoziente famigliare corrisponde ad una politica fiscale di favore nei confronti della famiglia.
L’applicazione del quoziente familiare, secondo il modello francese, passa attraverso le seguenti operazioni:
1) determinazione delle quote che spettano a ciascun contribuente: lo sposato, il celibe o divorziato ed il vedovo (per ogni tipologia di contribuente occorre poi considerare le persone che sono a suo carico);
2) divisione del reddito complessivo per il numero di quote;
3) calcolo dell’imposta dovuta sul quoziente familiare;
4) moltiplicazione dell’imposta dovuta per ogni quota per il numero delle quote stesse.
Il risultato corrisponde all’imposta lorda dovuta.
Se il quoziente è il risultato di un rapporto, occorre determinare i termini di questa operazione. Il dividendo è costituito dal reddito del foyer fiscal mentre il divisore è costituito dal numero delle parti o quote teoricamente rappresentative dei carichi di famiglia.
Tabella riepilogativa del numero delle quote spettanti
– Celibe, divorziato o separato, vedovo senza figli a carico: 1
– Celibe, divorziato o separato, vedovo senza figli a carico, con invalidità: 1,5
– Coppia sposata senza infanti a carico: 2
– Celibe o divorziato con un infante a carico: 1,5
– Coppia sposata o vedovo con un infante a carico: 2,5
– Celibe o divorziato con due infanti a carico: 2
– Coppia sposata o vedovo con due infanti a carico: 3
– Celibe o divorziato con tre infanti a carico: 3
– Coppia sposata o vedovo con tre infanti a carico: 4
– Celibe o divorziato con quattro infanti a carico: 4
– Coppia sposata o vedovo con quattro infanti a carico: 4
– Celibe o divorziato con cinque infanti a carico: 5
– Coppia sposata o vedovo con cinque infanti a carico: 6
– Celibe o divorziato con sei infanti a carico: 6
La legge finanziaria per il 2007, con effetti sui redditi conseguiti nel 2006, ha previsto gli scaglioni e le aliquote corrispondenti di seguito riportati:
In assenza del meccanismo del quoziente familiare, le imposte dovrebbero essere calcolate sull’intero reddito complessivo. Con il correttivo in esame, invece, le imposte devono essere calcolate figurativamente soltanto sul quoziente ovvero soltanto su una quota di reddito ma l’effettivo carico fiscale risulta dal prodotto delle imposte "individuali" per il numero di persone che costituisce il foyer.
Esempio Si consideri una coppia sposata con due figli a carico. In base alla disciplina prima delineata sulla determinazione del numero delle quote spettanti, a questo foyer fiscal saranno attribuite tre quote (1 quota per ciascun coniuge + mezza quota per ciascun figlio dato che i figli non superano il numero di tre). Considerando un reddito complessivo di 55mila euro, l’imposta calcolata senza tener conto del quoziente, corrisponde a 11.260, come risulta dal seguente schema:
Proviamo ora a calcolare le imposte dovute dal foyer dell’esempio applicando il meccanismo del quoziente familiare. Dividendo il reddito complessivo di 55mila per 3 si ottiene un quoziente di 18.333. Su tale ammontare calcoliamo le imposte applicando i medesimi scaglioni:
(tratto da fisconelmondo.it)
Attualmente gli ammortizzatori sociali sono standardizzati senza tener conto della composizione familiare (es. CIG). Al contrario il principio del quoziente può essere traslato da una politica fiscale al criterio di erogazione di risorse ed il calcolo dei costi relativi ai servizi.
Sul modello di quanto operato in alcuni enti (es. servizi sociali Comune di Lecco) è possibile introdurre un nuovo indicatore chiamandolo ad es. I.S.E.F. (Indicatore della Situazione Economica Familiare) ricavato dal calcolo dell’I.S.E. (già utilizzato a livello nazionale che è un indicatore della situazione economica che corrisponde alla somma dei redditi e dei patrimoni in quota pari al 20% di tutti i componenti del nucleo familiare) rapportato con una nuova scala di equivalenza che attribuisce “pesi” ai componenti il nucleo familiare più corrispondenti a quelli che sono i costi che le famiglie devono sostenere in base alla loro composizione.
Tabella comparativa della scala ISEF rispetto all’ISEE nel calcolo delle rette per gli asili nido del Comune di Lecco:
COMPONENTI NUCLEO FAMILIARE SCALA DI EQUIVALENZA I.S.E.F. SCALA DI EQUIVALENZA I.S.E.E.
1 1 1
2 1 0,57
3 0,50 0,47
4 0,50 0,42
5 1 0,39
6 1 0,35
7 1 0,35
Allo stesso modo all’interno degli ammortizzatori sociali, sia nell’erogazione di risorse (sostegno al reddito) sia per i servizi (dote lavoro?), è auspicabile rapportare le componenti ad un effettiva corrispondenza delle esigenze del nucleo che nella crisi del lavoro subisce svantaggi maggiori se maggiori sono i componenti della famiglia.
1. Un a fondo sulle politiche regionali: la scelta per il metodo “dote” in Lombardia, che favorisce la libertà di scelta.
1. Dote Donna
L’intervento prevede percorsi di reinserimento lavorativo per donne laureate in materie umanistiche e disoccupate non ancora inserite nel mercato del lavoro o che ne sono uscite, immettendole all’interno del tessuto imprenditoriale lombardo. L’obiettivo è promuovere l’occupazione delle destinatarie attraverso la realizzazione di stage/project work (PW) e la possibilità di avviare contratti di lavoro a tempo indeterminato o a tempo determinato (di durata non inferiore ai 12 mesi).
Complessivamente, le attività oggetto dell’intervento sono declinate all’interno di tre macrotipologie di servizi:
1. Elaborazione del Piano di Intervento Personalizzato;
2. Stage/ project work;
3. Inserimento lavorativo.
Doti da avviso Doti assegnate
DOTI DONNA 500 430
CONTATTI DOTI AVVIATE DOTI RITIRATE (PRIMI 3 MESI) DOTI DECADUTE CONTRATTI DI LAVORO
717 423 172 122 49
2. L.R. 23 sulla famiglia
FINALITA’Facilitare la creazione di reti di solidarietà fra le famiglie, sviluppare l’associazionismo familiare, favorire forme di auto organizzazione e di aiuto solidale, promuovere e sostenere la realizzazione di iniziative innovative a favore della famiglia
3. Bando maternità.
LOMBARDIA.6,5 MLN PER 56 PROGETTI SOSTEGNO MATERNITA
Promuovere il sostegno alla maternità e alla paternità rimuovendo ostacoli materiali e culturali che condizionano la scelta; aiutare i genitori nella funzione di cura e in quella educativa (sostenendo anche le famiglie monogenitoriali); facilitare l’assistenza alle famiglie che vivono conflitti e difficoltà e rafforzare le relazioni famigliari e sociali attraverso servizi innovativi di assistenza sanitaria e psicologica e sostegni materiali ed economici di diverso genere nel periodo della gravidanza e fino a un anno di vita del bambino (18 mesi in totale). E’ questo l’obiettivo del programma "Fare rete e dare tutela e sostegno alla maternità" che la giunta regionale lombarda ha finanziato, per la seconda volta nel 2008, con 6.433.927 euro.
I fondi sono destinati ad associazioni di solidarietà familiare, organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale, cooperative sociali, associazioni femminili, enti privati ed ecclesiastici, oltre che soggetti gestori di consultori familiari, chiamati a proporre e realizzare interventi sperimentali e innovativi di "aiuto alla vita".
In particolare, il progetto finanzia 24 progetti (per 2.493.626 euro) che hanno come obiettivo quello di "prevenire e rimuovere le difficoltà che potrebbero indurre la madre all’interruzione della gravidanza" attraverso quindi la fornitura di beni materiali (abiti, pannolini, alimenti per l’infanzia), il sostegno al reddito, l’eventuale apertura di crediti verso le farmacie, l’inserimento in asili nido, l’accompagnamento alla formazione e alla ricerca di un lavoro, attraverso la formula di vuocher o buoni sociali e che appartengono alle province
I rimanenti 3.940.301 euro finanziano altri 32 progetti che hanno come obiettivo la "predisposizione ed organizzazione, per ogni famiglia che lo richieda, di un piano personalizzato di sostegno psicologico, socio-assistenziale e sanitario, utilizzando le risorse di enti pubblici e di privato sociale, di volontariato, nonché le reti informali di solidarietà" che sono proposti da realtà territoriali appartenenti alle seguenti province.
Il concorso Famiglia Lavoro
Il Premio FamigliaLavoro è un concorso che valorizza e mette in luce le migliori esperienze e progetti in tema di conciliazione famiglia-lavoro nelle imprese lombarde e, novità di quest’anno, anche nelle pubbliche amministrazioni. Ideato e promosso da Regione Lombardia e ALTIS (Alta Scuola Impresa e Società dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano), dopo il successo della prima edizione, dal 2009 il Premio diventa un appuntamento annuale. Collaborano ASAG (Alta Scuola di Psicologia Agostino Gemelli, del Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia) e un nutrito gruppo di esperti sul tema.
Le finalità del concorso:
– Valorizzare le pubbliche amministrazioni e le imprese profit lombarde che si sono distinte per aver ideato e attuato progetti di conciliazione famiglia-lavoro destinati ai propri dipendenti o alla collettività
– Coinvolgere le realtà interessate in un percorso formativo di approfondimento su queste tematiche
– Accompagnarle in un processo di crescita verso una progettualità più consapevole e di alto livello
– Incentivare pratiche e politiche di conciliazione famiglia – lavoro in Lombardia
L’iniziativa si basa sulla convinzione che l’impresa (profit e non profit) abbia un ruolo fondamentale nel concorrere sussidiariamente al benessere dell’individuo e della società tutta, parte dalla considerazione che se un’impresa ha bisogno di una società sana (in termini di istruzione, capitale umano, risorse fisiche) per inseguire i suoi obiettivi, così, a sua volta, una società sana aumenta le proprie aspirazioni, alimentando il business. È quindi interesse reciproco collaborare al benessere delle persone nella costruzione di un welfare condiviso.
In tale contesto, la conciliazione famiglia-lavoro dei lavoratori in azienda risulta essere una pratica fondamentale di RSI (Responsabilità Sociale d’Impresa). Il dipendente viene considerato stakeholder interno di riferimento e l’ambito delle Risorse Umane il settore aziendale chiamato più direttamente in causa. Per prima cosa nell’elaborazione di strategie e di iniziative concrete, che rispondano in modo adeguato ai bisogni dei singoli dipendenti. In questo modo si contribuisce al benessere, non solo del singolo e della sua famiglia, ma anche della comunità aziendale e sociale nel suo insieme.
Provata la convenienza economica delle iniziative di Responsabilità Sociale d’Impresa, ci aspettiamo, quindi, che anche i programmi di conciliazione non possano che rivelarsi economicamente vantaggiosi per tutti: per le aziende promotrici, le pubbliche amministrazioni, i dipendenti e la società tutta.
Regione Lombardia si sta impegnando concretamente su questi temi con il Progetto e Premio FamigliaLavoro, giunto quest’anno alla seconda edizione, che mira a valorizzare i progetti di conciliazione famiglia lavoro in azienda e, da quest’anno, anche nelle pubbliche amministrazioni lombarde.
Dopo il successo dello scorso anno con 34 aziende partecipanti (dalla multinazionale alla pmi-piccola e media impresa) e 350 partecipanti alla cerimonia di premiazione, il concorso diventa annuale e fiore all’occhiello dell’attenzione alla famiglia del nostro assessorato.
4. Conclusioni: un cenno all’esperienza personale
Lavoro: opportunita’ o condanna? Molto dipende dal bagaglio di conoscenza acquisite nel tempo della formazione, compresa quella universitari. Molto dipende anche dalla storia personale e dalle “reti di solidarietà” in cui si è inseriti perché questo dipende da come uno poi si concepisce e concepisce la propria realizzazione. Certo, il settore pubblico non è di grande aiuto, nonostante le leggi buone che ci sono: le politiche infatti sono insufficienti e anche il richiamo alla sussidiarietà è spesso fallace perché introduce una logica di disimpegno delle amministrazioni che va combattuta.
Esempio dei “nidi famiglia” (o nidi in casa ecc..): funzionano se c’è una rete reale di solidarietà che sostiene queste iniziative e se le pubbliche amministrazioni si relazionano correttamente su queste reti.
Come ha detto la prof. Beretta, le donne lavorano moltissimo perché se lavorano hanno anche una maggior propensione a fare famiglia e a generare. Anche la politica deve fare la sua parte e lavorare affinché gli sforzi dei singoli possano meglio contribuire al bene comune. Grazie.
DARIO ODIFREDDI:
Grazie alla professoressa Violini. Vedete, è interessante notare che si può affrontare seriamente il tema delle politiche provando ad entrare davvero nel merito. Perché ci sono parole che ormai sono diventate slogan, sono utilizzate da tutti: il tema della libertà di scelta, il tema della sussidiarietà. Ma senza entrare nel merito, si rischia che restino solo slogan. Su questi temi, d’altra parte, questo Meeting continuerà ad intervenire anche nei prossimi giorni, con il ministro Sacconi, Bonanni, ecc. L’intervento conclusivo al ministro Mara Carfagna. La ringrazio a nome di tutti noi, a nome del Meeting, e le chiedo di concludere.
MARA CARFAGNA:
Ringrazio tutti voi, ringrazio soprattutto gli organizzatori del Meeting di Rimini per avermi invitato a questo incontro e al Meeting che, per una cattolica impegnata in politica, rappresenta sicuramente l’appuntamento annuale principale per riflettere sui grandi temi, a riflettere sui quali siamo chiamati dalle responsabilità politiche e istituzionali, a cui poi dobbiamo rispondere nel quotidiano. Considero un privilegio anche l’avere avuto la possibilità di partecipare all’incontro di apertura di questa trentesima edizione. Ho ascoltato con grande attenzione gli interventi che mi hanno preceduto e che mi sono utilissimi per illustrare sul tema di oggi una riflessione che non pretende naturalmente di essere esaustiva, ma di offrire ulteriori spunti di valutazione.
Il lavoro può essere opportunità o condanna, ma per tempi lunghissimi è stato sacrificio, è stato schiavitù. Si è passati poi al lavoro come sinonimo di libertà fino ad arrivare all’epoca in cui viviamo, in cui credo sia innegabile registrare delle distorsioni che portano a considerare il lavoro più come una forma di schiavitù che non di libertà e di opportunità. Una concezione del lavoro, quella che prevale nell’epoca in cui viviamo, tesa soprattutto e soltanto, in molti casi, al risultato del profitto e del successo ad ogni costo. Per illustrare questa mia riflessione, vorrei cominciare con il vostro – se mi consentite, il nostro – don Luigi Giussani quando, con alcuni novizi, diede una definizione molto significativa del lavoro. “Il lavoro” disse don Giussani, “è l’espressione totale della persona. Il lavoro ci costringe a diventare più cristiani, ci costringe a pensare al nostro amore a Cristo, a ripensare a come io vivo, all’utilità per cui io vivo e al motivo per cui ci è stato dato tutto quello che ci è stato dato”. “Il lavoro” disse ancora don Giussani, “è come l’aspetto più concreto, più faticoso e concreto, più arido e concreto del nostro amore nei confronti di Cristo”. E allora, se questo è il significato del lavoro, se il lavoro è l’espressione totale della persona, non possiamo non interrogarci sulle distorsioni a cui abbiamo dovuto assistere negli ultimi decenni, che hanno depotenziato il significato del lavoro, spiritualmente, eticamente allontanandolo dal concetto che don Giussani aveva espresso con quelle parole.
Mi riferisco in particolare ai movimenti politici e culturali degli anni ’60 e ’70 perché, quando con quei movimenti si colpì duramente il nostro modello di società, si portò anche nel rapporto tra lavoro e individuo – perché credo che sostanzialmente il risultato del rapporto tra lavoro ed individuo dipenda dai valori di fondo che guidano la persona nella sua quotidianità, dai principi di fondo che permeano la società in cui uno vive – quel sentimento materialista, quel sentimento relativista che, anziché liberare il lavoratore da quello che veniva definito e considerato come il padrone sfruttatore, ha reso nella stragrande maggioranza dei casi il lavoratore ancora più debole e ancora più infelice. Il movimento sessantottino, in particolare, aveva l’intenzione condivisibile di liberare e tutelare la collettività dei lavoratori. Ma ha finito per mortificare e demolire i pilastri etici di uno degli aspetti fondamentali nella vita dell’uomo. In particolare, l’egualitarismo nel lavoro ha colpito la competitività, ha spento la fantasia, la creatività, mortificato i giovani, ha ridotto l’intelligenza a numeri. L’Italia, in poco tempo, ha perso e ha finito per perdere quegli elementi senza i quali il lavoro da opportunità diventa condanna. E mi riferisco a elementi quali la gerarchia, il merito, la disciplina, lo spirito di abnegazione, lo spirito di sacrificio, l’amore per la produzione, il sentirsi parte di una squadra che ha come obiettivo quello di raggiungere la produzione migliore nell’interesse di tutta la collettività.
Sono elementi la cui assenza ha provocato, a mio avviso, la trasformazione del lavoro da opportunità in condanna. Il lavoro è diventato poi, soprattutto, un sacrificio per procurarsi un reddito: e anche qui subentrano delle criticità che sono tipiche del nostro modello di società. Un modello di società improntato al consumismo e all’edonismo esasperato. Prima, il lavoro era orientato al miglioramento della propria vita, della vita della propria famiglia, all’elevazione sociale, alla mobilità. Oggi vediamo uomini e donne che si sacrificano per un lavoro molto spesso non soddisfacente, che non garantiscono grande produttività, pur di avere quelle risorse necessarie per consumi sostanzialmente inutili. E sotto gli occhi di tutti accade che uomini e donne facciano ore di macchina, di treno, di autobus per raggiungere il posto di lavoro. Turni massacranti, non per sostenere i propri figli, per formare, creare ed allevare una famiglia, ma per sprecare il reddito nel tritacarne dei consumi, in omaggio ad un modello sociale che ci fa desiderare soltanto cose materiali e, ad ogni cosa posseduta, ne aggiunge un’altra da desiderare.
Questo è un male che ha portato il lavoro ad essere più condanna che opportunità. Se a questo poi aggiungiamo anche le modifiche del modello economico, il cerchio si chiude perché abbiamo assistito alla crisi dei lavori tradizionali in agricoltura, nell’industria, nell’artigianato. Prima, il lavoratore aveva un contatto diretto con il prodotto, con la società. Oggi invece assistiamo alla proliferazione di lavoratori impegnati nella produzione di prodotti immateriali. Con la conseguenza di smaterializzare negativamente il lavoro e di alienare il lavoratore rispetto alla società. Ancora un’altra criticità, perché gli imprenditori prima erano tanti: penso a grandi figure come Adriano Olivetti, persone e uomini che avevano la straordinaria capacità di valorizzare il capitale umano, di fare in modo che il lavoro, per i dipendenti, fosse veramente la piena realizzazione delle potenzialità degli individui, un lavoro rispettoso della dignità dei lavoratori e degli individui. Oggi invece assistiamo al proliferare di figure dedite più alla speculazione che non alla produzione. Questo comporta che, se fino ad alcuni decenni fa i lavoratori si sentivano dei pionieri nelle proprie aziende, vivevano con entusiasmo la crescita delle aziende che divenivano una comunità di destino, oggi questo non accade più. Soprattutto, prima il lavoratore considerava l’ingresso nel mondo del lavoro come la pre-condizione – come ho sentito anche dal professor Guizzardi – per sposarsi, per fare una famiglia, per avere una casa, per costruire un futuro per se stesso e per la propria famiglia. Oggi, invece, si comincia a lavorare tardi ma, soprattutto, non si pensa al raggiunto reddito come una pre-condizione per costruire una famiglia, ma come uno strumento per andare allo stadio, per comprare l’ultimo modello di telefonino, per ubriacarsi con gli amici in birreria o per viaggiare in paesi tropicali.
Basta guardarsi attorno per comprendere che questo smarrimento, che dipende dall’assenza di valori che guidano il lavoratore, è purtroppo un evento diffuso nel mondo del lavoro. Io credo che sia questo il modello di società che chi fa politica, chi ha responsabilità istituzionali, ha il dovere di provare a cambiare. Naturalmente, non è una trasformazione che può accadere in un mese, in un anno, in cinque anni. Ma abbiano il dovere di iniziare questa trasformazione, una trasformazione che costruisca un nuovo modello di società. Non un modello improntato al consumismo esasperato, ma un modello di società in cui rimettere al centro la dignità della persona, in cui riscoprire quei valori che hanno orientato la nostra società per decenni e che non sono altro che i valori del cattolicesimo, perché non si può sottovalutare il ruolo che il cattolicesimo ha avuto nella storia del nostro paese e nella costruzione di una società equilibrata, armoniosa, ordinata. Sono i valori della dignità e della centralità della persona, della sacralità della vita umana, sono i valori della sussidiarietà e della solidarietà.
Per parlare di questo, oggi, negli incontri, nei dibattiti, nei comizi, anche in campagna elettorale, sembra occorra una dose di coraggio: si ha quasi il timore di nominare questi valori. Io dico che dobbiamo esserne orgogliosi, fieri, sbandierarli dovunque ci troviamo a parlare, con chiunque. Perché, se la società in cui viviamo sta andando a rotoli, se assistiamo alle distorsioni a cui assistiamo, anche e soprattutto nel mondo del lavoro, è forse perché abbiamo perso di vista questi valori che devono riprendere ad orientare la vita e il cammino di ciascuno di noi. Soprattutto, è utile per quello che riguarda la nostra riflessione sul tema, prendere ad esempio le parole di Papa Benedetto XVI. Lo ha fatto prima anche la professoressa Beretta, riferendosi al lavoro che deve essere l’espressione della dignità di ogni uomo e di ogni donna. Un lavoro, come diceva prima la professoressa Violini, che lasci uno spazio sufficiente a ritrovare le proprie radici a livello personale, familiare e spirituale.
Da donna, e responsabile del Dicastero per le Pari Opportunità, quando parlo di dignità del lavoro e di spazi per ritrovare le proprie radici a livello personale, familiare e spirituale, non posso che fare riferimento alle tante criticità che ancora attanagliano le donne e il lavoro femminile nell’epoca in cui viviamo. Quando parlo di dignità, di lavoro dignitoso, vorrei poter dire che il lavoro dovrebbe essere rispettoso dei tempi di vita, di famiglia e di cura di cui una donna ha bisogno. Oggi le donne fanno salti mortali, dalla mattina alla sera, per poter essere madri, mogli e lavoratrici, per svolgere quell’essenziale funzione famigliare che anche la Costituzione ricorda. Questo governo ha voluto dare un piccolo, ma credo significativo, segnale alle donne italiane che lavorano. Il ministero delle Pari Opportunità ha stanziato 40 milioni di fondo, proprio per finanziare politiche di sostegno alle madri che lavorano. Sono nate così le mamme di giorno, gli asili condominiali, sono nati così i voucher per pagare gli asili nido, sono nati gli elenchi per badanti e baby-sitter. Prima c’era il Far West in questo ambito, è giusto che queste professionalità siano certificate. Da oggi, chi avrà bisogno di una persona per curare e allevare i propri figli, oppure per prendersi cura degli anziani non autosufficienti, andrà al comune dove troverà un elenco di queste professionalità. Naturalmente, come dicevo prima, questo è soltanto un piccolo passo. Un piccolo ma significativo passo per far capire alle donne italiane che il governo ha piena consapevolezza delle loro difficoltà, e soprattutto la ferma volontà di procedere, anche in un periodo di grandi difficoltà, nella direzione di sostenere le donne che lavorano e di cercare di risolvere gli innumerevoli problemi con i quali si confrontano nella loro vita quotidiana.
Oggi è in cantiere, presso il ministero per le Pari Opportunità, un progetto che possa garantire anche alle lavoratrici precarie il congedo di maternità. Questa potrebbe essere una forma di tutela per i lavoratori, e in particolare le lavoratrici precarie che, giustamente, il professor Guizzardi chiedeva. Lo facciamo perché crediamo che il diritto alla maternità sia sacrosanto e vada riconosciuto a tutte le donne. Lo facciamo perché crediamo fermamente nel valore della famiglia, crediamo che la donna sia il perno della famiglia, crediamo che oggi aiutare la donna che lavora significhi aiutare le famiglie italiane. E anche qui, mi permetto di fare un riflessione su quella che viene considerata come la questione femminile nel mondo occupazionale. Bisogna sforzarsi di comprendere che lo sviluppo sociale ed economico di un paese non può prescindere da un maggiore coinvolgimento delle donne nel mercato del lavoro, perché investire nelle donne vuol dire investire su un tassello fondamentale per raggiungere gli equilibri di sviluppo, di crescita, di coesione sociale, di rispetto dei diritti umani. Purché lo stato garantisca alle donne la possibilità di conciliare i tempi di lavoro con i tempi della vita, e quindi garantisca alle donne la possibilità di svolgere il loro ruolo di madri. C’è bisogno di una rivoluzione che crei un contesto favorevole alle donne che lavorano, un contesto dove chi fa un figlio non viene considerato come un colpevole di chissà quale mancanza, ma come un benefattore della società. C’è bisogno di un contesto favorevole che permetta alle donne di dare il meglio, di esprimere al meglio le proprie possibilità, di rovesciare quella piramide che da troppo tempo, da troppi anni, le vede sempre alla base e quasi mai al vertice.
Come dice Bankitalia: “C’è una ricchezza nascosta nel paese e questa ricchezza nascosta è a portata di mano, è nel lavoro delle donne”. Ecco perché io chiedo anche da qui, da questa sede, uno sforzo in più. E faccio un appello ai miei colleghi di governo affinché la questione dell’occupazione femminile diventi una nostra priorità, non solo per una questione di giustizia e di equità sociale ma per una questione economica, politica di crescita e di sviluppo. I primi piccoli passi, come dicevo prima, sono stati fatti: non mi accontenterò di quello che è stato fatto e cercherò di portare avanti e a termine i progetti che stiamo studiando con il ministro Sacconi, con il quale abbiamo avviato questo lavoro – che ha come obiettivo incrementare l’occupazione femminile ma al tempo stesso garantire sostegno alla madri lavoratrici – che prevede, innanzitutto, una rimodulazione degli orari di lavoro. In secondo luogo, un potenziamento dei servizi di cura dei bambini, gli asili nido oppure le mamme di giorno. Vorrei concludere così come ho iniziato, prendendo in prestito da don Luigi Giussani una frase che credo molto significativa, molto profonda. Don Luigi Giussani disse che la vita ci è stata data per una creazione e che il tempo è come il tessuto su cui occorre disegnare una creazione.
Il mio augurio, alla luce delle cose che abbiamo detto, è che il vostro tempo, il nostro tempo non vada perduto, che insieme possiamo disegnare un nuovo percorso, un nuovo modello di società in cui rimettere al centro la persona e i valori che ci vengono dalla tradizione cattolica. Un modello in cui il lavoro non sia una condanna, e neanche la ricerca spasmodica del successo a tutti i costi, ma veramente l’occasione, l’opportunità per realizzare se stessi, l’occasione per produrre nell’interesse collettivo e non per speculare ai danni della comunità. Mi auguro da oggi di avere degli alleati come voi, che possano aiutarmi in questo percorso nel quale credo fermamente. Vi ringrazio per l’attenzione.
DARIO ODIFREDDI:
Ringraziamo il ministro per questo suo intervento. La ringraziamo per la lucidità del giudizio ma anche per la concretezza. E la ringraziamo perché nel suo intervento finale, così sul filo di tutti gli altri interventi, c’è una grande sfida: per ripartire occorre rischiare, mettere in gioco tutto. Ma chi è oggi l’imprenditore che è disposto a farlo, il lavoratore che accetta una riduzione del proprio tenore di vita e di quello dei suoi figli? E’ da questa capacità di rischiare che è nato il nostro miracolo economico. Per ripartire occorre sentire la sfida dell’umano, percepire il valore del lavoro come la capacità di trasformare la realtà. Per questo Giussani diceva che la disoccupazione è il più grande male del mondo (non parlava del reddito, ma del lavoro). Il Cristianesimo, come ai tempi della schiavitù, non parte da un analisi ma dalla certezza che la vita ha un valore, che è data per essere spesa. “Forse che scopo della vita è vivere, non vivere, ma morire e dare con letizia tutto ciò che si ha” dice Anna Vercors ne Annuncio a Maria di Paul Claudel. E’ da questa percezione di un bene per sé che nasce lo sviluppo e anche la solidarietà, quella del Banco alimentare oggi, come quella dei Tovini, da cui sono nate scuole e banche. Quella degli enti religiosi da cui sono nati gli ospedali e i luoghi di cura e accoglienza. La nostra testimonianza è dunque questo struggimento per la nostra umanità e per quella di chi abbiamo accanto. Questo genera una inesorabile positività che è ciò che è più necessario per affrontare i tempi difficili che ci sono davanti. Accogliamo l’invito del ministro, accettiamo la sua sfida: saremo con lei in questo tentativo. Grazie a tutti e buon Meeting.
(Trascrizione non rivista dai relatori)