Chi siamo
La vita non è sogno
Ha partecipato Nikolaus Lobkowicz, Direttore dell’Istituto Centrale di Studi dell’Europa dell’Est presso l’Università Cattolica di Eichstatt.
Lobkowicz: È la seconda volta che ho l’onore – e il piacere – di rivolgermi a voi al Meeting di Rimini. Ho scelto espressamente la parola “piacere”, perché per me è sempre un piacere potermi mettere al servizio del movimento fondato da don Giussani. Non appartengo a Comunione e Liberazione e citerò don Giussani solo questa volta, ma vi prego di interpretare il mio intervento anche come espressione della mia profonda riconoscenza nei suoi confronti, anche se dovessi esprimere opinioni dalle quali potrebbe dissentire.
Sappiamo tutti che sogni e ideali sono cose del tutto diverse: spesso ce ne rendiamo conto, addirittura con dolore, perché nei sogni possiamo sfuggire alla realtà che ci appare spesso non solo sgradevole, ma anche spietata, mentre gli ideali, principalmente quelli più stimolanti, disturbano la nostra tranquillità e risvegliano in noi delle paure. A chi di noi non è successo almeno una volta, o anche più spesso, di indietreggiare timoroso davanti ad un ideale, pur sapendo che avrebbe dovuto guidare le nostre azioni, ma che ci incuteva paura o ci appariva come scomodo in quel determinato momento? La maggior parte dei peccati commessi nel corso della nostra vita trae origine proprio da questo timore e dalla conseguente fuga. Così, dopo aver commesso qualcosa di sbagliato lo neghiamo, perché ci sembra più facile che dire la verità; ci lasciamo indurre a compiere un’azione pur sapendo che non avremmo dovuto farlo e ci diamo ad intendere che non potevamo evitarlo oppure che era la cosa giusta da fare; oppure rimandiamo decisioni da lungo tempo improrogabili, illudendoci che non si tratti poi di cose così importanti. Dobbiamo forse ricordare costantemente che viviamo una sola volta e che se ci sfugge il senso della nostra vita, perdiamo semplicemente noi stessi? Dobbiamo avere sempre sotto gli occhi che il nostro estremo destino dipenderà anche e forse soprattutto da quello che potremo dire a noi e al Signore quando saremo in punto di morte, morte che potrà sorprenderci in qualsiasi momento e che dovremo finalmente guardare in faccia.
Forse conoscete il racconto terribile di Kafka intitolato Il guardiano della porta. Fa parte del romanzo Il Castello, ma Kafka l’aveva elaborato anche come singolo racconto. Un uomo arriva ad un portone e chiede di entrare. L’imponente portiere gli dice che deve aspettare. E il pover’uomo aspetta, aspetta per anni finché diventa così vecchio da essere in punto di morte. Prima di morire, quasi incosciente, fa in tempo a vedere il portiere che si china su di lui, lo chiama e gli dice: “Questa porta era destinata solo a te, ora me ne vado e la chiudo”. Una visione dell’insensatezza della nostra vita terrena più angosciante di quanto gli odierni nichilisti abbiamo mai escogitato. Evidenzia chiaramente che noi esseri umani viviamo sempre nell’attesa e nella speranza di qualcosa; forse dovremmo realmente tener presente che potrebbe essere tutto inutile, perché moriremo, perché come dice Sant’Agostino, questa è l’unica certezza del nostro futuro.
Abbandonarsi ai sogni e alle illusioni è una tentazione che accompagna l’uomo da sempre. Ma oggi è presente più che mai, e, non da ultimo, perché da già bambini possiamo giocare con le “realtà virtuali” che ci inducono a credere che la realtà non sia determinante nella misura in cui la possiamo modificare premendo un tasto del computer. Oggi ci mettono in guardia nei confronti del nichilismo; ma quando si pensa a filosofi come Nietzsche o Sartre, il nichilismo ci appare quanto meno onesto. Non rifugge dal dire ciò che dà ad intendere, e cioè che nulla ha senso, che è tutto inutile, che il diverso modo in cui affrontiamo la vita non comporta alcuna differenza. Questo nichilismo autentico è un grido di disperazione; sia Nietzsche che Sartre ne erano consapevoli ed in effetti per loro un atteggiamento nichilista indifferente o addirittura spensieratamente allegro, come lo incontriamo spesso oggi, era assolutamente inconcepibile. L’homme est une passion inutile, “l’uomo è una passione inutile”, scrive Sartre in uno dei suoi libri. Se questo fosse vero, come potremmo non eluderlo, fuggire, sognare? Ma noi cristiani sappiamo qual è il senso della nostra vita; come è possibile che anche noi siamo costantemente tentati di fuggire nei sogni? Forse non abbiamo ben capito quello che crediamo e proclamiamo?
Vorrei ricollegarmi alle riflessioni di due grandi teologi del nostro secolo. Nel corso di una intervista rilasciata ad un giornale tedesco verso la metà degli anni Settanta, Hans Urs von Balthasar affermava che, oltre al cristianesimo, ci sono fondamentalmente solo due risposte all’interrogativo sul significato dell’esistenza: una quasi-religione come il buddismo, per metà metafisica e per metà mitica, e una dottrina della liberazione del mondo interiore come il marxismo. Entrambe, il buddismo come il marxismo, sarebbero una fuga dal presente, nel caso del buddismo una fuga dal mondo in una spiritualità che nega il mondo ma non lo può lasciare dietro di sé, nel caso del marxismo una fuga in un mondo futuro che si presume migliore. La croce di Gesù Cristo invece si trova all’intersezione fra la fuga in un’altra dimensione e la fuga in avanti rispetto al presente: è l’unica interpretazione dell’esistenza che prende il mondo sul serio e lo accetta. Tutte le altre interpretazioni, secondo Balthasar, si basano su una critica, o un rifiuto dell’esistente, contengono “il veleno del rifiuto”. Solo il cristianesimo ha compreso che Dio amava tanto il mondo da essere pronto a morire per esso.
L’altra riflessione si riferisce a Romano Guardini che, come certamente sapete, ha passato tutta la vita in Germania, pur essendo di origini italiane. All’inizio degli anni Sessanta ha pubblicato, fra le altre opere, una meditazione sulle virtù. In questo libercolo Guardini parla di una virtù che è la premessa di ogni “aspirazione morale”, ma non viene quasi mai citata. La chiama “accettazione”, accettazione di ciò che è. Secondo Guardini l’uomo, contrariamente all’animale, non è interamente assorbito da ciò che è e da quello che gli accade intorno. Può riflettere su se stesso e in questo modo prendere distanza da se stesso, può formulare giudizi su di sé, e vedendosi quale è, può aspirare e diventare quello che vorrebbe essere. Così si crea una tensione fra l’essere e il voler essere, la realtà come ci appare e la realtà come vorremmo che fosse. Questa tensione può essere creativa: ciò avviene quando si elabora un’immagine di se stessi che si tenta poi, con tutti i mezzi a disposizione, di realizzare. Ma ne può derivare anche un conflitto pericoloso: una fuga dalla realtà, un’esistenza immaginaria che non tiene conto né delle opportunità reali né delle minacce che incombono. Grazie a questa virtù dell’accettazione possono prendere atto lucidamente del mondo che mi circonda, delle mie forze e debolezze, della natura dei miei simili, con i loro pregi e difetti, esattamente per quello che sono. Non mi illudo che le cose siano in un modo piuttosto che in un altro, ma accetto la realtà per quello che è, con tutti i suoi aspetti positivi ed anche quelli che sembrano, o sono, realmente negativi. Scrive Guardini: “Si acquista una grande saggezza quando si impara a vedere che non possiamo scegliere i fondamenti della nostra esistenza, ma che dobbiamo accettare il tutto. Questo non significa di certo che dobbiamo approvare tutto e lasciare così come è. Posso e devo intervenire su me stesso, sul mio modo di vivere, e formarlo, migliorarlo, iniziando però con l’accettare quello che è, altrimenti è tutto falsato”.
Riuscirete certamente ad intravedere la relazione esistente fra le riflessioni sviluppate da questi due teologi che sono da annoverare fra i più significativi del secolo. Poiché non siamo noi gli artefici, ma riceviamo in dono la vita e il mondo, dobbiamo come prima cosa accettarlo; “è così e non diversamente”. Tutto il resto, compresi gli sforzi per migliorare noi stessi e il mondo, va costruito su questa premessa; chi non ne è capace è un “ribelle metafisico” oppure un sognatore. Il dramma del marxismo tradotto in pratica, il cosiddetto “socialismo reale”, sta proprio nel fatto che, nella sua essenza estrema, era una “ribellione metafisica”; non voleva riconoscere che noi esseri umani – soprattutto dopo il peccato originale – siamo quello che siamo e tentava di far nascere un “uomo nuovo” completamente diverso. Così milioni e milioni di persone, tra cui molte con le migliori intenzioni, sono precipitate in una catastrofe, le cui conseguenze si faranno sentire in Europa centrale e orientale ancora per molti decenni. La confusa concezione del mondo della New Age è invece caratterizzata dal sogno, quello di un mondo abitato da esseri e forze che non esistono affatto, di un sapere naturale che non corrisponde a nulla di reale, proprio perché – così si dice – è stato messo al bando dal cristianesimo e dalle sue conseguenze. La New Age ci vuole riportare ai miti del passato, in un mondo popolato da fate e folletti, maghi e forze misteriose, una “dolce seduzione” che ignora il fatto che i sogni non diventano più realistici semplicemente per il fatto che se ne promette la realizzazione con parole, gesti e rituali.
Sono entrambe fughe dalla realtà, e la realtà non è altro che il nostro presente, qui ed ora. Questa fuga dal presente e dalla realtà potrebbe forse avere una certa giustificazione, se il nichilismo avesse ragione; essere un autentico nichilista, accettare e sopportare la convinzione che nulla ha senso e che tutto è inutile ha una connotazione eroica, assurda ed eroica allo stesso tempo, soprattutto quando – come accade a volte – il nichilista decide di essere comunque un uomo probo. Nel corso della mia vita, ho più volte incontrato atei che erano persone buone in questo senso; a volte ho persino provato vergogna, perché erano persone migliori, più disponibili, più generose di molti di noi cristiani. Relegavano la loro sgomenta disperazione davanti all’insensatezza che secondo loro avvolgeva il mondo in un remoto angolo della loro coscienza ed agivano come se la vita umana avesse un senso. Si trattava per la maggior parte di persone di età avanzata, cresciute in un ambiente culturale ancora permeato dalla fiducia nella veridicità delle convinzioni cristiane fondamentali; anche se ritenevano di non poterle condividere, questi atei erano a tal punto impregnati dai valori fondamentali di questa cultura che potevano spontaneamente appoggiarvisi per tutta la loro vita. Il dramma di queste persone è che spesso hanno condotto (e conducono) una vita esemplare, ma non sono in grado di trasmettere ai giovani i principi in base ai quali hanno vissuto; ai loro figli ed allievi non possono trasmettere nulla più della convinzione che ci si deve comportare con rettitudine, e questo, nei momenti gravi, non basta. Il concetto di rettitudine nei quali sono confluiti diversi principi cristiani è privo di radici, e avulso dai fondamenti che lo hanno ispirato. I nichilisti di questo tipo, però, sono una rarità; ed inoltre la tentazione di sfuggire all’insensatezza è troppo forte.
Accettare la realtà così come è, e non solo perché la si potrebbe migliorare, ma semplicemente perché è la realtà, accettare radicalmente il proprio presente come se tutto dipendesse da quello che faccio qui e da quello che accade ora, presuppone una fiducia che può scaturire solo dalla convinzione che la realtà è buona e giusta. Il Medioevo esprimeva questa convinzione con l’affermazione apparentemente astratta: Ens et verum, ens et bonum convertuntur, che significa “quando qualcosa è reale, è vero e buono”. Tutto ciò che è solo apparente è, in quanto tale, non vero, e anche tutto ciò che è cattivo è espressione di mancanza di esistenza. Tutta la forza che si manifesta intorno ai fenomeni del male e della falsità deriva dal fatto che non esiste “mancanza in sé”, ma la mancanza è sempre assenza di ciò che esiste che, in quanto tale, è vero e buono.
Questa, però, è metafisica, e la metafisica sembra avere poco a che fare con la nostra vita di tutti i giorni. Eppure ci porta ad esprimere la seguente considerazione: per accettare la realtà e la sua manifestazione nel presente, per dire sì di fronte ad essa, è necessario averla scoperta vera e buona. Può essere malata, devastata in vari modi, ma ciò che è di vero, di non solo apparente, è giusto ed è così bello da farci esultare di gioia. Pascal ha scritto che la realtà, così come la incontriamo nel corso della nostra vita, è completa perché è la realizzazione di una immagine divina; la sua incompletezza deriverebbe dal fatto che è solo un’immagine e che noi uomini possiamo danneggiarla. Hegel, che fu solo un Cristo di secondo piano ma che è ampiamente responsabile di tante errate interpretazioni del nostro tempo, e il cui pensiero si ispirava alla saggezza dell’antichità e in particolare alla metafisica aristotelica, parlò in termini simili rivolgendosi a chi critica costantemente la realtà, la sfugge o pensa di poterla trasformare. A questi critici della realtà rimproverò di non volersi sottoporre a quello che chiamava lo “sforzo concettuale”. Naturalmente ci sono nella realtà molti aspetti problematici e per molti versi insensati o semplicemente espressione del male; ma se si guarda oltre i fenomeni superficiali, se si penetra sotto il velo delle apparenze esterne per valutare ciò che è reale, ci si rende conto che è come deve essere, ed è bene. È per questo che Hegel riteneva che persino la storia, intendendo principalmente la storia europea, ha una teodicea, una “giustificazione divina”: se pensiamo attentamente al corso della storia, ci rendiamo conto che, alla fine, è sempre Dio che vince per compiere il destino del mondo, per quanto noi interveniamo goffamente nella sua opera.
Per non sognare, per non eludere la realtà, il che in fin dei conti equivale ad una fuga ideologica, dobbiamo accettarla. Questo è possibile solo se penetriamo fino alla verità per riconoscere che è buona e che ci è amica. L’aspetto più preoccupante dell’indebolimento della cultura cristiana è proprio il fatto che questa fondamentale convinzione, condivisa da tutte le vere religioni, s’indebolisce insieme a lei. Da un lato, ne consegue una frenetica opera di riforma del mondo non più supportata da alcuna fiducia, la volontà di riformarlo come se dovessimo produrre un mondo che fosse almeno sopportabile per gli esseri umani, e dall’altro la rassegnazione e, in fin dei conti, il cinismo. L’età moderna era caratterizzata dalla convinzione che uno dei compiti degli esseri umani “illuminati” fosse proprio quello di cambiare in meglio il mondo e forse anche la realtà; in questo senso si potrebbe quasi dire che il marxismo avrebbe – con tratti ovviamente molto grossolani – completato un disegno al quale tutta l’era moderna aveva contribuito con i suoi scarabocchi. Da alcuni decenni ci rendiamo conto con chiarezza sempre maggiore che a quanto pare, non riusciamo a portare a termine ciò che l’era moderna aveva ideato, proprio perché abbiamo affrontato il compito in modo sbagliato.
Si denunciano le conseguenze distruttive delle scienze naturali e delle tecnologie che ne derivano, mentre solo l’altro ieri ne eravamo così orgogliosi, si sogna con nostalgia un tempo passato in cui eravamo circondati da una natura ancora incontaminata e ed allo stesso tempo misteriosa. Ovviamente questi sognatori dimenticano volentieri che la natura selvaggia non è mai stata percepita come armoniosa o amica dell’uomo, ma principalmente come una minaccia. Di sicuro non hanno mai conosciuto l’autentica natura selvaggia, perché se la immaginano come un bosco di abeti del sud della Germania oppure come un oliveto toscano, che sono per l’appunto esempi classici di una natura trasformata dall’uomo. In altre parole, è certo che gran parte delle critiche formulate dal pensiero soprattutto dei giovani dell’era moderna sono giustificate, e noi non dovremmo chiudere gli occhi davanti a preoccupanti implicazioni ecologiche, economiche e politiche. Ma non per questo dobbiamo rifugiarci nel sognare un tempo passato e lamentare la scomparsa di una natura mitica ed inviolata. E soprattutto, ciò non deve indurci a ribaltare semplicemente la convinzione dell’era moderna, secondo cui la storia tende sempre ad andare verso l’alto, per osservare con sgomento una situazione che precipita sempre più rapidamente. Può darsi che sia divertente, a giudicare dai più recenti film di Hollywood che dipingono la fine del mondo in versioni sempre nuove e più raccapriccianti, ma in fin dei conti ciò che è inquietante è proprio il fatto che queste moderne favole siano per gli spettatori una fuga dalla realtà. L’orrore insito in queste favole ha il compito di distoglierci dal guardare in faccia la realtà della nostra quotidianità.
La questione deve essere affrontata da tutt’altra angolazione. Certamente oggi la natura è in pericolo e dobbiamo impegnarci affinché le sue risorse – dall’aria all’acqua, alle foreste e alle materie prime come il petrolio – non siano sottoposte a sfruttamento eccessivo, ma più della natura e del mondo inanimato è l’uomo, l’unico essere che può essere definito persona, ad essere definito in pericolo. Ed è minacciato dal pericolo non di estinzione, ma di non rendersi conto di quanto si stia allontanando dalla realtà attraverso il sogno e la menzogna. Non è un caso che i padri del secondo Concilio Vaticano scrivano, già nel terzo capitolo della pastorale Gaudium et spes, che alla Chiesa oggi più che mai spetta il compito di salvare la persona umana.
“La vita non è un sogno”; non è nemmeno un film né un teatro, cui assistere seduti in disparte. È una cosa seria, l’unica che richieda la massima serietà; e non solo perché dobbiamo morire e rendere conto dei nostri atti, ma perché ha un significato ancor più profondo. Se perdiamo di vista questo significato e perciò veniamo meno al nostro destino, se sprechiamo la nostra vita in futilità, se non andiamo all’essenziale e rimaniamo legati alle apparenze, se inseguiamo utopie e sogni, forse non sarà invano (perché la misericordia di Dio è tanto grande che possiamo sperare che ci accoglierebbe comunque presso di lui) ma avremmo comunque fallito nell’unico compito che realmente conta.
Nella seconda parte della mia relazione cercherò di sviluppare questo concetto con maggiore chiarezza. Voglio ricollegarmi alle riflessioni di un filosofo che, quasi alla fine del ventesimo secolo, ha esercitato una grande influenza: mi riferisco a Martin Heidegger. La sua pubblicazione del 1927 Essere e tempo, è un tentativo di elaborare una fenomenologia dell’uomo. Poiché Heidegger, figlio di un sagrestano, cresciuto nella Germania meridionale, si era già allora allontanato dalla fede cattolica, una parte importante della sua vasta opera, che pure è stata oggetto di attenzione in tutto il mondo, per noi non è accettabile. Tuttavia Essere e tempo descrive diversi tratti della natura umana in modo del tutto appropriato e vicino alla nostra esperienza. Vorrei in particolare riprendere tre concetti da lui approfonditi: la proiezione, il pensiero, e il sì impersonale.
Heidegger concepisce la persona come essere, la cui essenza sta per l’appunto nel proprio essere. Esistono altre realtà in questo mondo, che sono semplicemente presenti o, se sono esseri viventi, seguono i loro istinti. Contrariamente alle realtà non umane di questo mondo, l’uomo è l’unico ad avere la facoltà di prendere le distanze da se stesso, il che gli permette di vedersi come un’altra persona e di decidere a favore o contro una determinata cosa. Dato che, in fin dei conti, è un essere vivente, non può determinare tutto di sé ma partecipare alla determinazione di tutto ciò che di umano in senso stretto vi è in lui, far sì che si sviluppi o deperisca, per farla breve può fissare la dimora in cui si sentirà a casa, così da non doversi più preoccupare della propria esistenza. Ma lo può fare solo perché esiste. È l’unico essere sulla terra che porta se stesso a compimento. Tutto ciò che fa presuppone innanzitutto il fatto di esistere. L’uomo è proiettato in se stesso. Il fatto di esistere e di essere essenzialmente quel che è, l’essere umano non lo deve a se stesso. Possiamo esprimere il concetto molto banalmente: non siamo noi a decidere di esistere come esseri umani, non siamo noi a precipitarci per magia nella nostra esistenza con tutto il suo corollario culturale, ma la nostra esistenza ci è stata affidata da qualcun altro. Heidegger lascia non sospesa la questione di chi ci ha affidato la nostra esistenza e se lo ha fatto con precise intenzioni. Noi cristiani esprimiamo lo stesso concetto con maggiore precisione, quando riconosciamo di essere stati creati e che è stato Dio a crearci, perché voleva unirci a Lui, farci dono della Sua grandezza, ma allo stesso tempo voleva che fossimo noi a decidere di andargli incontro. Ci ha creati perché potessimo donarci a Lui e per potersi offrire a noi in quanto esseri liberi.
L’uomo – questo essere affidato a se stesso – dapprima non sa di essere chiamato a prendere una decisione. La decisione dell’uomo è il frutto di migliaia e migliaia di decisioni perché è nato in un mondo sensibile e può ritrovarsi solo ritirandosi in sé e, per così dire, allontanandosi dal mondo. Impariamo a conoscere il mondo prima di conoscere noi stessi; anche se in modo vago e incerto siamo prima vicini al mondo che ci circonda che a noi stessi. Il bambino parla di sé prima alla terza persona e ci vuole un po’ di tempo prima che scopra se stesso ed inizi a dire “io”.
L’essere umano si trova di fronte a un problema che già Platone conosceva e che Sant’Agostino ha trasmesso all’Occidente cristiano meglio di qualsiasi altro: si preoccupa costantemente di tutto e dimentica l’essenziale, il suo proprio destino. Come dice Platone, si preoccupa di tutto e così facendo trascura la sua preoccupazione circa il proprio essere e la propria anima.
Heidegger ha ripreso questo spunto ed ha elaborato filosoficamente il concetto di “preoccupazione”. Dal suo maestro Husserl aveva imparato che tutti i nostri atti coscienti sono “intenzionali”: sono sempre orientati verso qualcosa, determinati dal loro oggetto. Heidegger ha sviluppato ulteriormente questo concetto fondamentale: i nostri atti coscienti sono sempre accompagnati da un “intento” e perciò da una preoccupazione. Non possiamo accontentarci di essere, vivere, vedere, pensare, volere, ma facciamo tutto questo per trovare o raggiungere qualcosa. Siamo sempre in attesa, nella speranza, alla ricerca di qualcosa, in fin dei conti di un senso che ci consenta di fermarci e di dire “Ecco, è questo, l’ho trovato. Ora va tutto bene”. Il sermone della montagna parla di una situazione tipicamente umana, quando il Signore ci esorta a non avere inutilmente timore del domani: dobbiamo disfarci delle nostre preoccupazioni e rimetterle al Signore, perché Lui si preoccupa di noi più di quanto noi potremmo mai farlo.
Non viviamo soli, ma siamo nati in seno a una cultura e siamo circondati da persone con le loro numerose opinioni. Per questo siamo sempre esposti alla tentazione di non riflettere su noi stessi, sul senso della nostra esistenza, ma di far affidamento su quello che Heidegger chiamava il “si” impersonale. Si fa questo e si fa quello, quindi lo facciamo anche noi. Si ritiene che questo sia vero e giusto, perciò lo pensiamo anche noi. Eludiamo certe decisioni perché l’opinione comune le considera secondarie; facciamo quello che fanno tutti, non ci sforziamo di essere noi stessi. Per questo non verifichiamo se quello che ci viene detto corrisponde al vero o se ci porta invece fuori strada e non è conforme alla verità. È troppo impegnativo e ci impone di prendere decisioni. Il semplice fatto di chiedersi onestamente se si vede la realtà, la realtà del proprio essere e del mondo, come realmente sia, richiede già un notevole sforzo. E noi lo facciamo poco volentieri, preferiamo in certo qual modo vivere giorno dopo giorno occupandoci delle nostre faccende e delle nostre gioie senza pensarci troppo. Così eludiamo la domanda se l’opinione predominante sia o meno conforme alla realtà; da un lato siamo freneticamente occupati e dall’altro ci perdiamo nei nostri sogni, restiamo prigionieri del “si” impersonale, ci trinceriamo dietro al suo anonimato. Questo “si” impersonale ci sussurra all’orecchio che non dobbiamo osare essere noi stessi, prendere in considerazione la nostra esperienza personale ed unica, percorrere il nostro cammino, diverso da quello mediamente percorso e considerato da tutti normale.
Naturalmente dipende essenzialmente dallo stato di una cultura quanto sia discutibile rimanere prigionieri del “si”. Anche una cultura del tutto realistica ha il proprio “si” impersonale è molto faticoso verificare sempre tutto, essere il più possibile se stessi e scandagliare incessantemente le proprie esperienze. Ma quando un’intera cultura distoglie lo sguardo dalla realtà e adotta qualsiasi sotterfugio per sfuggirle, vuoi perché questa si trasforma in modo convulso o perché si preferisce rincorrere sogni ideali, allora la situazione si fa grave. La cultura in cui oggi viviamo è proprio così. Mai come in questi tempi è stato tanto difficile essere e rimanere aperti alla realtà così com’è. Le ragioni sono molte. Ci viene detto spesso e volentieri che non esiste una realtà indipendente da noi e che quello che tentiamo di conoscere su di essa, in fin dei conti, non è altro che una costruzione, ragion per cui sarebbe del tutto indifferente il modo in cui la si costruisce. La verità, così è detto, è uno pseudoconcetto, ognuno di noi deve ideare “la propria verità”. Anche nella madre Chiesa questa opinione è diffusa fra molti, tant’è vero che una persona su due si prepara il proprio cocktail di credenze. In tutto questo ci si appella volentieri al fatto che, dopo lunghi cicli storici, siamo finalmente diventati adulti e possiamo permetterci di essere autonomi, quando invece, in realtà, siamo meno indipendenti del più infimo individuo del passato e ci limitiamo a ripetere quello che ci è stato trasmesso e che siamo riusciti ad afferrare qua e là. D’altro canto, da mass media, pubblicità e propaganda politica ci viene continuamente suggerito che riusciremo a essere felici o, semplicemente, a sopravvivere solo se seguiremo la moda del momento, se ascolteremo l’opinione più moderna o attuale, se ci lasceremo cullare dalla mattina alla sera dal mormorio di un progresso che in realtà non esiste affatto come vorremmo immaginarlo. Abbiamo appena perso fiducia nel progresso nel senso classico del termine, nel progresso della scienza, della tecnologia e nel progresso morale e sociale che dovrebbe teoricamente derivarne, che già ci raccomandano di sognare in modo più progressista. Si è persino trovata una nuova espressione: le “utopie concrete”, dopo che si è dimostrato quello che in definitiva si è sempre saputo e cioè che le vere utopie non possono essere realizzate. Ma dovremmo quanto meno fingere che le utopie possano diventare realtà, avvicinandoci lentamente alla loro realizzazione mediante un costante progresso. Se la scienza ha reso possibili realizzazioni tecnologiche che distruggono l’ambiente allora lasciamoci infatuare da una scienza della natura che non abbia conseguenze tecnologiche. Le multinazionali hanno troppo potere d’influenzarci? Allora trastulliamoci con l’idea che small is beautiful. Non possiamo più sopportare il pensiero che un giorno dovremo morire? Speriamo allora in una medicina che ci permetta di vivere tanto a lungo da non doverci più pensare. E infine, quello che la religione proclama, e prima fra tutti il Papa a Roma – secondo quel che si dice, un ingenuo polacco -, disturba la nostra sfera d’azione ed è tremendamente scomodo? Allora escogitiamo una nuova religione che tutto permetta, sia divertente, magari un oscuro panteismo che faccia apparire la realtà intrisa di segreti e in fin dei conti non c’impegni a nulla. In ultima analisi si potrebbe quasi dar ragione al nichilismo, ma, se proprio dobbiamo farlo, vogliamo almeno trarre piacere dal nichilismo.
Sono tutti questi sogni che servono a distoglierci dal riconoscere il compito che dobbiamo assolvere quotidianamente: sfuggire al “si” impersonale, riflettere su noi stessi hic et nunc, quindi impostare la nostra vita affinché sia fedele al suo significato, che va ben oltre noi e le nostre questioni terrene. Vi chiedete cosa potrebbe significare una simile decisione? Semplicemente questo; accettare noi stessi per quelli che siamo senza sotterfugi, guardare in faccia la realtà senza veli, deciderci a non fuggire né davanti a noi stessi né davanti alla realtà.
Sino ad ora ho sviluppato concetti di Heidegger, anche se arricchiti dalle mie osservazioni. Dovrò ora abbandonarlo, perché nel momento decisivo non ci è di alcun aiuto. Infatti non dice perché dobbiamo svincolarci dal “si” impersonale per diventare noi stessi fino in fondo. Essere se stessi, trovare se stessi, vivere in modo “proprio” invece che “improprio”, per Heidegger in fin dei conti è un fine in sé. La sua filosofia è impregnata di un cieco eroismo, che alla fine della prima guerra mondiale era molto diffuso in Germania, un eroismo trasfigurato dall’esperienza comune e che anela alla morte, e che in ultima analisi – anche se Heidegger non lo riconobbe mai – assume caratteristiche vicine al nichilismo. L’uomo, come ce lo descrive Heidegger, non è solo caratterizzato dall’essere proiettato in se stesso, dalla preoccupazione, dall’essere vincolato al “si” impersonale, ma anche dal potersi avvicinare all’autenticità del proprio essere solo se guarda costantemente la morte negli occhi, si ricorda che qualsiasi cosa faccia avrà una fine. Non è a caso che Heidegger, all’inizio degli anni Trenta, fosse attratto dal nazionalsocialismo. Non durò a lungo, tuttavia ne prese le distanze non tanto perché ne intravide la disumanità, ma perché gli sembrò troppo primitivo. Un simile eroismo cieco e in fin dei conti amorale, professato anche in Italia da Gabriele D’Annunzio, oggi non rappresenta più una forte tentazione. Il ricordo degli eventi spaventosi che ebbero luogo negli anni Trenta e all’inizio degli anni Quaranta nel cuore di un’Europa che si professava tanto colta è ancora troppo vivo. Inoltre, siamo troppo distratti, immersi nel pieno del periodo di opulenza regalatoci dal dopoguerra. Anche i sogni della New Age sono perdenti e nemmeno i nichilisti si prendono realmente sul serio; le fantasticherie del presente sono per la maggior parte un fenomeno di lusso. Eppure il concetto del trovare se stessi non è stato scoperto o formulato per la prima volta dal nostro secolo; come ho detto prima, Platone e Socrate l’avevano già percepito ed è rimasto un tema fondamentale dell’Europa cristiana. La decisione di svincolarsi dal “si” impersonale, volubile ed oggi particolarmente menzognero presuppone naturalmente una fiducia, una serena fiducia nella realtà, che solo possono avere coloro che sono pronti ad accettare la sfida di essere aperti a tutte le sue dimensioni, e di accettare nella loro vita ciò che hanno scoperto. Si tratta di una sfida, anche perché il riconoscimento della realtà in tutta la sua complessità è come un viaggio in mare aperto, in un territorio sconosciuto, in cui potremmo alla fine incontrare l’infinito.
Dove possiamo trovare il coraggio di accettare questa sfida? In fine dei conti, mi sembra che solo una fede religiosa lo renda possibile, anche se spesso basta accettare ciò che la fede suggerisce, percorrere le strade che ci indica. Mi sono venuti in mente due episodi. Il primo si riferisce a sant’Ambrogio. Quando un giovane gli chiese cosa dovesse fare per diventare Cristo, il vescovo di Milano gli rispose “Vieni per un anno con me”. Il secondo ha invece come protagonista il mio maestro, il domenicano polacco Joseph Maria Bochenski, quando si presentò davanti al suo futuro ordine e chiese il permesso di entrare a farne parte, per onestà ha dovuto dire di non essere credente in senso stretto. Con intelligenza, il padre superiore gli disse: “Resti con noi, lo diventerà col tempo”.
Avere fede e fiducia nel fatto che la realtà, dietro al velo che la offusca, sia integra, presuppone qualcosa in più dell’essere capaci di pronunciare qualche frase. Il vero significato di queste frasi lo impariamo durante tutta la nostra vita. Certo, avere fede significa prendere per vero ciò che un’autorità ci insegna: ma questa accettazione deve diventare una componente della nostra vita, una serena melodia che ci accompagna, qualsiasi cosa facciamo.
Pensate alla riflessione di Balthasar da cui sono partito: solo il cristianesimo prende radicalmente sul serio il presente e quindi la realtà; il fulcro delle sue convinzioni è la fede in un Dio che ha amato così profondamente e che amerà per sempre le sue creature, tutto sommato inette, da essere pronto a morire per loro. Come potremmo non avventurarci per lui in mare aperto, dove lui ci aspetta? A volte si rinfaccia a noi cristiani di cercare ovunque un significato più profondo e d’inseguire così facendo un’illusione; in realtà siamo gli unici veri realisti perché solo la nostra fede ci permette, senza alcun limite, di accettare la realtà e di prendere sul serio ogni istante del nostro presente.
Vorrei concludere il mio intervento citando nuovamente Guardini. Mi limiterò a leggere quello che scrisse nel 1964, ricordando un evento che ebbe luogo poco prima del primo conflitto mondiale. Durante i suoi studi, Guardini non aveva propriamente perso la fede, ma se ne era allontanato.
“Mi ricordo come fosse ieri l’ora in cui la conoscenza diventò decisione. Il mio amico ed io avevamo discusso di questioni che ci preoccupavano entrambi, e le mie ultime parole erano state: ‘Il significato potrebbe essere questo: – Chi trattiene la propria anima la perderà; ma chi ne fa dono, la conquisterà -’. Poco a poco avevo compreso che esisteva una legge per cui l’uomo che ‘trattiene la propria anima’, cioè che resta chiuso in se stesso e accetta come valido solo ciò che gli appare evidente, perdo l’essenza delle cose. Se vuole arrivare alla verità e nella verità raggiungere il suo vero io deve donarsi. Il mio amico si trovava nella stanza accanto, io sedevo alla mia scrivania e mi spingevo oltre nel pensiero: donare la mia anima – ma a chi? E chi può esigerla da me? Esigerla in modo tale che non sia ancora e sempre io a prenderla fra le mani. Non semplicemente ‘Dio’, perché quando l’uomo vuole avere a che fare solo con Dio, pur dicendo ‘Dio’ intende in realtà se stesso. Deve trattarsi di un’istanza oggettiva capace di allontanare la risposta dalla trappola dell’autoaffermazione. Esiste un’unica possibilità: la Chiesa cattolica nella sua autorità e precisione. La questione del trattenere o donare la propria anima si decide in ultima analisi non davanti a Dio, ma alla Chiesa”.
È passato quasi un secolo da quando questo pensiero ha attraversato la mente di Guardini, influenzandone tutta la vita e l’opera. Valeva la pena ricordarlo. Perché il realismo del cristiano, la sua capacità di non cadere in fantasticherie narcisistiche trae origine non solo dalla sua capacità di incontrare Dio nella sua sfera privata e, in un certo senso mistica. “Quando l’uomo vuole avere a che fare solo con Dio, allora dice Dio ma intende se stesso”. Alla fine, è solo la comunità dei suoi figli, che Dio, morto sulla croce per amore nostro, ci ha lasciato, ossia la Chiesa, che ci permette di vedere la realtà così com’è, magnifica e piena di segreti, completamente accessibile solo a chi accetta la sfida di trovare se stesso per poi, alla fine, dimenticarsi completamente di sé: una realtà di fronte alla quale qualsiasi utopia e sogno impallidiscono. Una Chiesa in cui a volte appare la misera imperfezione “umana” e che per questo suscita in noi violente reazioni, ma che è soprattutto testimonianza della presenza di Dio in questo mondo grazie alla rivelazione, la sua presenza fra noi, “fino al Suo ritorno”.