Chi siamo
Un avvenimento come risposta all’uomo
Hanno partecipato: Giacomo Tantardini, Parroco della Seconda Università di Roma, Tor Vergata; Rocco Buttiglione, Pro Rettore dell’Accademia internazionale di Filosofia presso il Principato del Liechtenstein. Introduce Alberto Savorana.
Savorana: Sono con noi don Giacomo Tantardini e Rocco Buttiglione, che animeranno questo dialogo, momento centrale di questo XIV Meeting per l’amicizia fra i popoli. Questo è un gesto esemplare di amicizia, nel desiderio della verità e del bene; a priori, è impossibile che l’uomo camminando non sbagli mai, faccia tutto giusto, e che tra amici non ci si possa comportare tante volte male. Ma l’avvenimento che li ha messi insieme, una certa scoperta del vero da cui è scaturita un’affezione amicale, li fa guardare con positività il cammino che sta loro davanti. Se non cedono all’aspetto cattivo che si inoltra nelle cose, anche nei rapporti più intimi, e se la loro libertà respira una previsione positiva, sì che il loro rapporto diventi profezia di un bene, e non di un equivoco, allora la fatica di uno sforzo per un amore al vero, e di una stima e rispetto vicendevoli dovrà continuare.
Ed è proprio in questo che si sentiranno aiutati supremamente dalla persona attraverso cui un certo accento di verità li ha colpiti, e si sentiranno aiutati anche da tutta la grande compagnia che ne è nata. A loro chiediamo di darci l’esempio di questa speranza.
Don Giacomo Tantardini, parroco della seconda università di Roma, Tor Vergata
Tantardini: Sono grato al Signore per la possibilità di quest’incontro con Rocco. Questa mattina, ho letto una frase che ieri Rocco aveva detto commentando questo incontro: il motivo non è un tentativo di mettersi d’accordo su cose, opinioni, su cui è legittima una diversità, ma qualcosa di più grande. Rocco ha usato la parola carisma, una grazia, fatta – perché così è nella natura della grazia cristiana – ad una persona particolare; ha detto: “il carisma di don Giussani, che vogliamo seguire, da cui vogliamo imparare”.
Quest’incontro è un tentativo di lettura, di presentazione, del libro di don Giussani Un avvenimento di vita, cioè una storia(1). Inizio subito dicendo “le due grandi cose”, come ad un certo punto dice Giussani, che mi sembrano continuamente riproposte in questo libro. La prima è che il Mistero che ha fatto tutte le cose, il Mistero che ha fatto il cuore dell’uomo, il Mistero per cui adesso, in questo istante, viviamo e siamo, in un preciso e determinato momento della storia, in un preciso e determinato luogo di questo mondo, è diventato carne: “il Verbo si è fatto carne”. Questa carne vuol dire presenza veramente umana, presenza visibile. In un brano della Dives in Misericordia, si insiste molto su questa visibilità del Mistero. Il Papa dice che il Mistero in qualche modo è visibile per la ragione dell’uomo in ciò che Dio ha creato. E l’intelligenza umana, guardando la creazione, può riconoscere l’esistenza del creatore, tanto è vero che sono imperdonabili coloro che non riconoscono, guardando questa bellezza, la sorgente. Ma poi il Papa dice che queste sue perfezioni invisibili diventano incomparabilmente più visibili attraverso tutte le altre opere da Dio compiute, in Gesù Cristo e per mezzo di Gesù Cristo, il Dio che ha fatto e che fa ogni cosa. Questo è tutto l’annuncio cristiano. Vorrei leggere allora come don Giussani descrive quello che per lui è stato il momento decisivo di tutta la sua vita, l’inizio di questa grande amicizia che è il movimento: “Me lo ricordo come fosse oggi: Liceo Classico Berchet, ore 9 del mattino, primo giorno di scuola, ottobre 1954. Mi ricordo il sentimento che avevo, mentre salivo i pochi gradini d’entrata al liceo: era l’ingenuità di un entusiasmo, di una baldanza, che mi aveva fatto lasciare la pur amata strada dell’insegnamento della teologia nel seminario diocesano di Venegono, per poter aiutare i giovani a riscoprire i termini di una fede reale. Dunque, salivo quei gradini. Mi rivedo in quel momento con il cuore tutto gonfio dal pensiero che Cristo è tutto per la vita dell’uomo, è il cuore della vita dell’uomo: questo annuncio quei giovani dovevano iniziare a sentirsi dire e a imparare, per la loro felicità: “Perché siate felici” dice infatti il Signore agli Ebrei nel Deuteronomio, motivando il Suo invito all’obbedienza. Erano questi i sentimenti ed i pensieri che si gonfiavano l’un l’altro in quel momento, in una coerenza molto lunga con una storia iniziata ai tempi della giovinezza, nella mia prima liceo, nel seminario di Venegono. Per la prima volta – qui c’è la descrizione di quell’intuizione da cui è nato ciò per cui siamo qui, ciò per cui tanti di noi sono cristiani – in quell’anno, ascoltando il mio professore di italiano, don Giovanni Colombo, (che divenne Arcivescovo di Milano, succedendo al Cardinal Montini), e il mio professore di religione don Gaetano Corti (che insegnò poi Storia del Cristianesimo all’Università di Trieste), ho cominciato a rendermi conto di quel che significasse l’affermazione del Vangelo: “Il Verbo si è fatto carne”. Sento riecheggiare ancora le parole di don Gaetano: “La giustizia, la verità, la bellezza, si è fatta carne”; nel mio animo – nell’animo di un ragazzo di 16 anni, sufficientemente assetato di queste parole – fu un’illuminazione improvvisa. Non ricordo nell’intera mia vita un momento più decisivo. Con stupore mi ritrovai così a scoprire i nessi fra quell’annuncio e tutte le cose; ad esempio il nesso con la passione che fin dalla terza ginnasio avevo nutrito per la poesia di Giacomo Leopardi (che studiai tutto a memoria). Soprattutto tornavo continuamente a ripetermi il canto Alla sua donna, che è un inno alla bellezza, intuendovi la profezia di quello che il Signore aveva già compiuto: in fondo l’aspirazione di Leopardi era di vedere con gli occhi, e toccare con le mani la Bellezza fatta carne” (pp. 336-337).
Ma c’è in questo libro un altro modo, che a me piace molto, per descrivere questo avvenimento insuperabile, incomparabilmente più grande, che non la stessa creazione, come accennava il Papa. E’ una lezione che don Giussani ha tenuto ad un gruppo di giovani a Bologna per un congresso eucaristico: “Quid est veritas. Che cos’è la verità? L’inevasa domanda di Ponzio Pilato zavorra la coscienza di tutti gli uomini, se ne accorgano o meno. Quid fortius desiderat anima quam veritatem? domandava Sant’Agostino. Che cosa più potentemente l’anima desidera della verità? Quid est veritas? Anche se non ha aspettato la risposta, Pilato ha espresso il nesso inesorabile che l’uomo avverte col suo destino. Ma non appena pensa la parola “destino”, “mistero”, l’uomo si trova davanti a qualcosa che non ha volto” (p. 431). Dio nessuno lo ha mai visto, dice San Giovanni; Dio abita una luce inaccessibile, dice San Paolo. Sono le due citazioni che l’enciclica del Papa pone prima di parlare della visibilità: Dio si è fatto visibile in quell’uomo. In qualunque sforzo di coscienza, il Mistero per cui il cuore dell’uomo è fatto resta anonimo. E se il Mistero è anonimo, la vita è anomala, senza legge.
“Ma ancora Sant’Agostino affermava: Quid est veritas? Vir qui adest. Che cos’è la verità? Un uomo che è fra noi (e questa è una risposta che non può tardare a commuovere il cuore di un ragazzo o di un giovane). Il Mistero non è più anonimo: ha il nome di Gesù Cristo, il Mistero diventato uomo, nato dalla carne di Maria – come sottolinea il Papa nella sua enciclica sulla Madonna. L’abolizione dell’anonimato del Mistero è la realtà di questo uomo” (p. 431). La realtà di questo uomo rende visibile il mistero invisibile, si rende presente e si comunica a noi.
La seconda grande cosa risponde a questa domanda: e oggi? Duemila anni fa Giovanni e Andrea lo hanno incontrato. Quel pomeriggio, Giovanni, ormai vecchio, quando scriveva il vangelo, si ricordava ancora l’ora: “Erano le quattro del pomeriggio”. Oggi, come o dove incontrare il Mistero fatto carne, ciò per cui l’uomo è stato creato, perché in vista di questo incontro, come S. Paolo e S. Giovanni continuamente ripetono, l’uomo è stato creato? Oggi dove, come incontrarlo, per essere felici, per vivere? “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”. La vita è la felicità, non può essere il ricordo di un fatto passato perché questo non cambia la vita, non rende felice il cuore adesso. Questa seconda, grande cosa, non è altro che la contemporaneità della prima: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.
Vorrei leggervi come Giussani nell’intervista fattagli da Angelo Scola descrive questa seconda grande cosa. Dice: “Il cuore della nostra proposta è piuttosto l’annuncio di un avvenimento accaduto, che sorprende gli uomini allo stesso modo in cui, duemila anni fa, l’annuncio degli angeli a Betlemme sorprese dei poveri pastori. Un avvenimento accaduto e che accade, prima di ogni considerazione sull’uomo religioso o non religioso. E’ la percezione di questo avvenimento che resuscita o potenzia il senso elementare di dipendenza e il nucleo di evidenze originarie cui diamo il nome di ‘senso religioso’” (p. 38).
Che cosa si incontra oggi? “Si incontra il Fatto cristiano imbattendosi in persone che questo incontro hanno già compiuto (qui è accennata quella parola che la tradizione della Chiesa chiama proprio “tradizione”, da incontro in incontro) e la cui vita da esso, in qualche modo, è stata già cambiata. Quindi, il come è un impatto umano che accade: una persona, un gruppo, una realtà sociale. L’incontro è con un avvenimento, che può essere anche una persona che parla, ma ciò che colpisce non è tanto la parola in sé, quanto il cambiamento comunque avvenuto in colui che parla” (p. 39). Si incontra Gesù Cristo incontrando delle persone cambiate dalla sua presenza, incontrando degli uomini che realizzano quello che il cuore umano attende, ma che lasciato da solo, alla lunga, non può assolutamente realizzare.
Vorrei citare la frase con cui S. Ambrogio conclude il commento ai giorni della creazione: “Leggo che, dopo il primo giorno, Dio ha creato il cielo e non si è riposato; leggo che dopo il secondo giorno non si è riposato e così via, leggo che al sesto giorno ha creato l’uomo e si è riposato. Perché si è riposato? Perché finalmente aveva trovato uno a cui poteva perdonare i peccati”. Questo è il motivo del sollievo, del riposo di Dio: finalmente aveva trovato uno a cui poteva perdonare, a cui Dio si poteva rivelare per quello che è, ovvero misericordia.
S. Ambrogio descrive con due parole questo miracolo del cambiamento umano che rivela che Gesù Cristo è vivo, perché un morto non cambia, non ha la capacità di cambiare il presente, e se agisce, se cambia vuol dire che è presente, vuol dire che è vivo: “gratia moralis”. E’ una grazia, ma è una grazia che è una moralità nuova, un nuovo tipo di vita che non nasce dall’uomo, non nasce dalle forze dell’uomo, e si documenta in una novità più umana, più vera.
Leggo due brani di Giussani su questo. “Cristo determina un cambiamento in noi che lo rivela presente. Un cambiamento nel rapporto con la persona amata, nel modo di guardare a sé, di sentirsi fluire dentro l’attaccamento all’esistenza oppure di percepirsi tutti tremanti, nel modo di stancarsi o di annoiarsi, nel modo di guardare al proprio passato o all’azione compiuta o a questo presente che sarebbe di per sé pieno di uggia, di aridità, di deserto, di niente. La presenza di Cristo, qui e ora, è sperimentabile in e attraverso questi cambiamenti. Cristo è presente dentro il cambiamento della nostra carne, cioè dentro il cambiamento della nostra umanità concreta”. “Il vero annuncio noi lo facciamo attraverso quello che Cristo ha cambiato nella nostra vita, noi rendiamo presente Cristo attraverso il cambiamento che Egli opera in noi”.
Incontrando delle persone cambiate, uno si domanda: “Ma perché sono così? Perché questi sono così, perché questa persona è così?”. Il segno più grande, distintivo, di questo cambiamento è il miracolo per eccellenza, cioè l’unità: questa presenza genera l’unità dei suoi. Perciò Dio, il Mistero, si è fatto carne e si rende presenza nella compagnia che ci ha fatti incontrare. La compagnia realizza l’appartenenza a Lui. “Tutti voi che siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più Giudeo né Greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna, perché tutti voi siete uno, una persona sola in Cristo Gesù”.
Accettare questa compagnia, questo incontro dà frutti visibili, produce un cambiamento pieno di gratitudine, non di presunzione, perché non è l’esito di una generosità, è pieno di domanda, una domanda irrefrenabile, che diventa tanto più grande quanto più passano i giorni. Questo cambiamento coincide con un di più di umano, con una esperienza più grande dell’umano, che corrisponde, che risponde di più al cuore. Si chiama con un termine preciso: miracolo”.
Voglio finire rileggendo un’altra frase di Giussani tratta dall’intervista che ho citato prima. Tutta la dinamica della vita si potrebbe riassumere così: “innanzitutto – ridiciamolo – la grazia di un incontro, la testimonianza di una persona per cui il Fatto di Cristo è una realtà presente. In secondo luogo la suscitazione dell’esperienza della corrispondenza fra il contenuto di questo incontro e il senso religioso. Quindi, come conseguenza, il desiderio di comunicare (qui c’è una osservazione bellissima perché vedere il miracolo di un cambiamento in un altro, in un amico, rende più facile, più semplice il proprio cammino, ed è la stessa grazia ed è lo stesso stupore) prima ancora che a se stessi – agli altri questa buona notizia: la missione, cioè. E poi, nello stesso tempo, la sorpresa del dolore per la propria incoerenza (perché il dolore per i propri peccati è innanzitutto miracolo: dal peccato non nasce il dolore del peccato, ma una schiavitù sempre più grande o al massimo una umiliazione, che lascia come senza respiro; il dolore per la propria incoerenza, è un dolore pieno di gratitudine, come le lacrime del bambino quando è abbracciato) e la pietà per il bisogno dell’uomo” (p. 39). Mi sembra che quest’ultimo brano di Giussani descriva il cammino non dell’inizio, ma il cammino di sempre della vita cristiana.
Rocco Buttiglione, pro rettore dell’Accademia internazionale di Filosofia presso il Principato del Liechtenstein
Buttiglione: E’ davvero con il cuore colmo di gratitudine allo Spirito Santo che io prendo la parola oggi in questo Meeting. E grato allo Spirito Santo che ha dato agli organizzatori del Meeting la libertà del cuore di invitarmi qui ed a me la libertà del cuore di accettare. Venendo al Meeting in aereo con mia figlia mi ripassavano per la mente tante cose, tanti momenti di questa storia che abbiamo vissuto insieme e inevitabilmente mi si affacciava la domanda: perché vado? La domanda che poi tanti giornalisti mi hanno ripetuto continuamente nella giornata di oggi e cercavo una risposta. E l’unica risposta sensata che mi veniva in mente era: vado per lo stesso motivo per cui ognuno di voi è venuto al Meeting. Perché un avvenimento più grande di noi ci ha commossi, ci ha cambiato il cuore e ci ha convocati, ci ha chiamati e ci ha chiamati assieme; non individualmente, ciascuno per conto suo, ma per mezzo di una storia che è la nostra storia. Questo avvenimento si chiama Gesù Cristo, il falegname di Nazareth. Questo avvenimento si chiama anche Chiesa, che continua il corpo di Cristo, che continua Cristo come il Suo Corpo. Questo avvenimento diventa concreto per noi perché ci tocca, diceva una volta don Giussani, per mezzo di una capillarità, diventa una possibilità concreta per me quando assume il volto di un uomo che mi sta vicino e mi fa la proposta di seguirlo per vedere insieme con lui se è vero e come è vero.
Questa capillarità, nella mia storia, si chiama Comunione e Liberazione. Perché la mia vita è stata toccata dall’avvenimento di Cristo per mezzo della predicazione e della amicizia di Monsignor Luigi Giussani. E questo crea una unità che non è fondata sulle opinioni. Se fosse fondata sulle opinioni, non credo proprio che sarebbe. E probabilmente non ci sarebbe la gran parte di voi. E’ una unità che non è fondata nemmeno sulla carne e il sangue perché la carne e il sangue fanno l’unità fra gli uomini, l’unità dell’uomo e della donna, del padre con i figli, del fratello con i fratelli. Ma la carne e il sangue fanno anche la disunione fra gli uomini, perché ci sono sofferenze, offese, inimicizie che chiedono il sangue e che sfociano nel sangue. Non è quello che ci tiene uniti. E’ un avvenimento più forte della carne e del sangue che è il contatto con l’infinito.
L’infinito di Dio si è fatto carne e facendosi carne ci ha chiamati, ci ha toccati, ci ha convocati insieme e ha convocato alcuni di noi attraverso quella particolare compagnia, quella particolare forma di particolarizzazione dell’avvenimento di Cristo che si chiama Comunione e Liberazione. E per questa ragione io credo che noi siamo qui. Ed è per questa ragione che siamo una cosa sola per cui rimane tutto quello che costituisce la carne dell’uomo: rimangono le giuste opinioni, rimane la convinzione che ognuno ha il diritto e il dovere di tenere. Ma questo rimane dentro una unità per cui quegli stessi che per un certo aspetto a volte ti viene di odiare, sono la tua carne e il tuo sangue e sei pronto a dare la vita per loro. Questa è la legge della comunione cristiana e questo è difficile da capire per il mondo.
Venendo qui leggevo, o rileggevo questo libro; c’era un passo che io avrei voluto leggere ai giornalisti, ma che poi ho riassunto con parole mie: “La compagnia che chiamiamo “movimento” è il luogo umano della presenza di Cristo. Il destino, Cristo, si fa sguardo e suggerimento a me nel volto e nella voce di queste persone che mi stanno vicino, perciò l’affezione ad esse e il piegarmi ad aderirvi è più potente della ripugnanza che tante volte mi suscitano per la differenza che c’è tra me e loro: è questo il miracolo della nostra compagnia” (p. 164).
I giornalisti chiedevano: ma lei è qui perché avete superato i vostri contrasti, perché andate d’accordo? Mi sembrava una domanda abissalmente sbagliata. Se i contrasti siano superati o no, io non lo so, saranno il futuro e gli avvenimenti a dirlo. Ma non è quello il motivo più profondo che ci ha messi assieme. Quando Dio ci ha chiamati assieme eravamo probabilmente anche più diversi di quello che siamo adesso. E ci ha chiamati assieme non perché avessimo le stesse idee, non perché avessimo temperamenti che collimavano, ma per un disegno misterioso che è proprio impossibile capire, che è possibile soltanto seguire.
Perché, mi domandavo, io ho seguito questo appello? Riandavo a una intervista che don Giussani ha dato tanti anni fa a Giorgio Sarco. Giussani ripeteva una cosa che ha ripetuto tante volte nella storia della sua predicazione. Parlando di Leopardi diceva che questa domanda propria del cuore dell’uomo di infinito, di pienezza e di bene, è una domanda anche di concordanza tra la propria vita e la legge delle cose, ma l’uomo è incapace di realizzare questo ed ha la percezione di un peccato di origine che causa una sproporzione infinita fra la nostra realizzazione e l’appello che è nelle cose. In una predica di tanti anni fa, don Giussani citava un brano del rituale di consacrazione delle chiese: “Dove sei Signore? Tu abiti nei cieli. I cieli sono troppo lontani e distanti perché noi ti possiamo raggiungere. Per questo tu hai scelto di crearti una casa in mezzo a noi. Questa casa è la Chiesa”. In questa domanda di infinito sono radicati tutti i valori umani. Valori non è una parola cattiva. Giussani ripete più volte, anche in questo libro, che il valore è il punto di tangenza fra l’infinito e la mia vita. Il valore diventa falso quando nega l’infinito che è alla sua radice, perché l’uomo inevitabilmente lo riduce. Vuole essere giusto ma non riesce ad esserlo e allora dice: no, la giustizia non è quello che è davvero, è questa cosa ridotta che io riesco a fare; o addirittura dice: non esiste la giustizia. Queste due posizioni sono il moralismo e l’immoralismo, le due risposte umane, anche della cultura di oggi, al problema morale. Invece Cristo è la possibilità non immediatamente di compiere la legge, ma la possibilità che per la sua Grazia la mia infedeltà non mi induca ad abbandonare l’ideale, perché esiste il perdono. L’ideale rimane vero anche se io l’ho tradito. E la più grande immoralità – lo dice Giussani – della cultura di oggi è che invece vuole obbligarci ad abbandonare l’ideale, partendo dal fatto che tante volte siamo stati infedeli. I politici cattolici rubano, quindi la fede non è vera. I preti vanno a donne, quindi il celibato ecclesiastico è una sciocchezza. I mariti e le donne sono infedeli, quindi la fedeltà coniugale non è vera. Si abortisce, quindi l’aborto in qualche modo deve essere accettato.
Questo atteggiamento è comprensibile, ma è falso, è comprensibile perché senza l’energia di vita che viene da questo incontro, la fedeltà all’ideale diventa impossibile. Quello che mi sostiene è la compagnia di qualcuno, fragile come me, fallibile come me, ma che è un passo avanti a me nel lasciar prendere la sua vita dall’ideale. Non necessariamente qualcuno moralmente migliore di me, ma piuttosto qualcuno afferrato più profondamente di me dall’ideale. Questo non relativizza nessun valore morale, non autorizza a fare nulla di ciò che è male, non autorizza un criterio per cui nell’interesse della Chiesa è lecito fare il male, tutt’altro. Perché l’interesse della Chiesa è che si converta il cuore dell’uomo, è che appaia la verità di Cristo e questa verità raccoglie in sé l’umano.
Un altro dato che Giussani propone in questo libro e che ha sempre ripetuto è che questa risposta, Cristo, è l’oggetto continuo di una verifica, è gettata nella vita con una promessa: avrete la vita eterna e il centuplo in questa vita. Se non capite che cos’è la vita eterna e dite che non vi interessa sbagliate ma non importa, perché tanto non sapete cos’è. Ma se dite che non vi interessa il centuplo in questa vita, allora non vi capisco. Vuol dire che la società vi ha castrati, e non avete più il coraggio di desiderare una vita grande per voi stessi.
Il centuplo è che questo avvenimento di Cristo gettato nella vita la rende più umana, e rende più umano anche il peccato, rende più umano anche il dolore, rende più umana anche la sofferenza.
Voglio leggervi un altro passo: “Che cosa determina, cioè dà forma a questa unità dell’uomo, dell’io? E’ quell’elemento dinamico che attraverso le domande, le esigenze fondamentali in cui si esprime, guida l’espressione personale e sociale dell’uomo. Brevemente, io chiamo senso religioso questo elemento dinamico, che attraverso le domande fondamentali guida l’espressione personale e sociale dell’uomo; la forma dell’unità dell’uomo è il senso religioso (qui Giussani cita implicitamente il cardinal Montini, che in una sua famosa pastorale a Milano, citata da Giussani in altre occasioni, dice proprio che il senso religioso è la sintesi dell’umano). Questo fattore fondamentale si esprime nell’uomo attraverso domande, istanze, sollecitazioni personali e sociali (…). Il senso religioso appare, così, la radice da cui scaturiscono i valori. Un valore, ultimamente, è quella prospettiva del rapporto tra un contingente e la totalità, l’assoluto. La responsabilità dell’uomo attraverso tutti i tipi di sollecitazione che gli provengono dall’impatto con il reale, si impegna nella risposta a quelle domande che il senso religioso, o biblicamente “cuore” esprime” (pp. 113-114). Impegnarsi nella risposta significa essere sottoposti alla verifica implacabile della vita non perché si riesca ad essere perfetti, ma perché continuamente accade di nuovo il miracolo del perdono.
Quando mi sono sposato, don Giussani mi disse: “E adesso pregate la Madonna”. La cosa mi sorprese perché della Madonna a me, fino ad allora, Giussani non aveva parlato quasi mai, o comunque non mi aveva mai colpito. Io ho passato la vita a meditare su quell’invito. Ho capito una cosa: che un uomo e una donna si mettano assieme per la vita è una sfida alla realtà e al mondo di proporzioni straordinarie, incredibili, una sfida perché tu leghi te stesso ad un’altra persona, ti impegni ad affermare un’altra persona, ad affermarla in modo tale che la tua verità dipende da lei, che non puoi dire io senza includerla nell’io che dici, perché il mio io è il nostro amore. E questo è impossibile, fa venire in mente i discepoli, che quando Gesù dice loro che il matrimonio è indissolubile, dicono: “allora solo un pazzo si sposa”. Eppure questa è l’analogia più forte che c’è all’unità che c’è fra di noi.
Io ho una grande amicizia per monsignor Francesco Venturino, e a lui devo di essere qui perché è lui che mi ha fatto incontrare il movimento, e non una volta sola molte volte nel corso della vita. E una volta lui mi disse: “Vedi, il movimento (e ripeteva quasi alla lettera un brano che poi è entrato in questo libro), è una compagnia, un gruppo di uomini, e un gruppo di uomini fragilissimi. Perché questi e non altri? Non ha tutte le perfezioni dell’umanità, eppure Dio ha scelto di legarsi alla Chiesa, cioè ha scelto di legarsi a questa fragilità umana. Tu non puoi non vivere il desiderio che questa fragilità cresca fino alla dimensione a cui Dio la chiama. Non puoi non avere, giustamente, quando vedi qualche cosa che non va, l’impeto di dirlo, di cambiare, di correggere. Ma questo impeto non ti può mai portare a rompere, perché il tuo io puoi dirlo solo insieme a quelli con cui Dio ti ha chiamato”. Io ho imparato questo nella storia del mio matrimonio e l’ho potuto vivere nella storia del mio matrimonio perché l’avevo imparato dal movimento, e forse io sono del movimento perché l’ho imparato nella storia del mio matrimonio. Quando un bambino piange la notte e tu il giorno dopo devi lavorare e lui vuole che tu lo porti su e giù e che gli canti la ninna nanna, ci sono dei momenti in cui o preghi la Madonna o crolli. Maria è quella che protegge la purezza del cuore e ti dà il coraggio di aver fede quell’attimo in più, finché arrivi alla resurrezione, è quella che ai piedi della croce tiene quando tutti mollano e ti aiuta a tenere quando sembra che mollare sia l’unica cosa sensata.
Questo è il mistero, il miracolo che noi viviamo: essere legati a uomini. Il movimento significa persone concrete, significa mia moglie, significa mia figlia, significa gli amici che sono morti, significa mons. Francesco Ricci, significa Augusto del Noce, che nel suo modo ironico e distaccato ha vissuto la storia più profondamente di ognuno di noi, significa essere legati ad una salvezza che passa attraverso la carne e che quindi è carne, non perché neghi lo spirito, Dio ci salvi, è lo Spirito che salva, la carne non giova a nulla, come dice San Paolo, ma perché questa carne viene lentamente trasformata in segno dello Spirito, passando attraverso la croce. L’esperienza della croce è indissolubile da questo, non è possibile risorgere con Cristo se non si accetta la croce di Cristo.
Vi devo leggere ancora una frase: “Questa è la vittoria che vince il mondo, la nostra fede” (p. 135). Credo che sia una ripresa letterale di un testo che ci aveva colpito molto, il discorso del Papa ad Auschwitz. Commemorando il Santo Massimiliano Maria Kolbe, cominciò appunto con queste parole di Giovanni: “Questa è la vittoria che vince il mondo, la nostra fede”. E’ uno dei momenti in cui è stata più forte l’unità tra il carisma del movimento e il magistero di Giovanni Paolo II, uno dei quei punti in cui è stato un miracolo scoprire l’identità della radice. Cosa vuol dire che la fede è la vittoria che vince il mondo, cosa significa dirlo in un posto in cui la sua sconfitta è stata totale? Significa dire che nella vita ci sono successi e insuccessi, a volte si vince e a volte si perde. Quando si vince forse è più pericoloso di quando si perde, perché affermare Cristo non è affermare se stessi, e quando si vince la tentazione di prevaricare, la tentazione di affermare se stessi è fortissima; invece, la vittoria vera è la consegna a Cristo del proprio cuore.
Questa vittoria può esserci anche nella sconfitta. Ricordando ad esempio quello che abbiamo vissuto al tempo del referendum sull’aborto, ci sono delle sconfitte che diventano vittorie se attraverso di esse il cuore è consegnato più profondamente a Cristo. In questo modo, quelle sconfitte fanno crescere la voglia di lavorare, di impegnarsi, di cambiare se stessi e anche di cambiare il mondo. Questa è la nostra vittoria, che avvenga la presenza di Cristo in noi.
L’altra è pericolosa: certo, non va evitata, va cercata, fa parte della dialettica della vita – è meglio gestire i problemi della vittoria che della sconfitta – ma c’è bisogno di un ultimo distacco rispetto all’esito di quello che facciamo, perché quello che importa è che venga testimoniata con chiarezza la presenza di Cristo. Tutto il resto è bello ed è buono solo se è al servizio di questo. La vittoria che non è testimonianza di questa presenza o che distoglie da questa testimonianza, invece di costruire distrugge.
Continuerei ancora a lungo, invece una giusta discrezione obbliga a fermarsi; vorrei chiudere proprio con questa riflessione, con questa parola: “questa è la vittoria che vince il mondo, la nostra fede”. Quando è stata battezzata una delle mie figlie, un amico che molti di voi conoscono, Stanislav Griegel, che era il suo padrino, le ha regalato una cuspide d’argento con sopra ritratta la Madonna di Czestokowa. Gli ho chiesto: “Cos’è?” e lui mi ha risposto: “E’ il pezzo della corazza che difendeva il cuore del cavaliere, perché preservi la purezza del cuore nella lotta”. La vittoria che vince il mondo avviene quando questa purezza è preservata, e quando l’aiuto di Maria aiuta a rimanere ai piedi della croce quell’attimo che annuncia la resurrezione.
Savorana: Vorremmo essere indiscreti, e chiedere a Rocco e a don Giacomo di parlarci ancora.
Tantardini: Leggo due brani di Giussani: uno è tratto dal libretto In cammino che è l’appendice di questo libro e che ha segnato soprattutto la storia di tutto quest’anno. Una delle cose dette da Rocco che più mi ha colpito è che il cambiamento della vita rende ancora più grande la testimonianza a Cristo, rende ancora più grande la presenza di Cristo. Dice Giussani: “Questa cara gioia sopra la quale ogni virtù si fonda, onde ti venne? Non può esservi moralità (virtù), dignità, intensità e perfezione del vivere, se non a partire da una gioia – (prima dice, se non a partire da uno stupore, citando una frase tante volte citata tra di noi, di Giovanni Paolo I). Questa gioia viene da quel momento in cui l’avvenimento cristiano è entrato nei confini della nostra esistenza, abbiamo fatto cioè un incontro con una realtà umana per cui Gesù Cristo si è palesato significativo per la nostra vita, ossia per la ragione e per l’esigenza di affettività del cuore. La moralità suprema è la fedeltà all’atteggiamento con cui il Creatore ci fa” (Ho letto questo brano per quest’ultima frase, che è quanto diceva Rocco, che i valori pescano in questa domanda di infinito). Come il Creatore ci fa? Come bambini. Il bambino si presenta con la faccia spalancata, aperta positivamente alla realtà. L’uomo creato sta di fronte al mondo non solo aperto positivamente, ma attendendo il compimento. Il bambino, infatti, stupito di fronte alla realtà è pieno di desiderio, attende il compimento con letizia, “come preparandosi ad una festa” (“Se non ritornerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli” questa è la condizione, l’unica, che il Signore pone per entrare nel possesso vero della realtà). Come si può essere fedeli all’attegiamento con cui siamo stati fatti? (Come il cuore può rimanere cuore di bambino? Come l’uomo può ascoltare il suo cuore, come quelle esigenze ed evidenze di cui il cuore è costituito possono rimanere vive, se l’uomo normalmente è lontano dal suo cuore?) Come si può mantenere quella purità originale del volto, quello sguardo positivamente aperto alla realtà attendendo il compimento con letizia, come preparandosi ad una festa? Solo appoggiandosi all’avvenimento di Cristo, nella fattispecie storica in cui ci ha toccato (tutto l’intervento di Rocco era a commento a questo). Quando si è vista una cosa non si può negare di averla vista, se non dicendo coscientemente una menzogna che ci sotterra come in una cassa da morto e ci soffoca” (pp. 487, 488, 489).
L’ultimo brano è della prima intervista riportata, un’intervista fatta a don Giussani al ritorno da un viaggio in Terra Santa in Palestina. E’ tra le cose più brevi ma più belle di questo libro e mi ha colpito molto che il Cardinale Saldarini domenica alla Messa d’inizio abbia proprio citato questa intervista, perché descrive con immagini immediate questa grande presenza che è la Chiesa e questa capillarità con cui ci ha toccato che è il Movimento: “Vedendo quei luoghi dove soltanto un’umanità viva, sia pure determinata così embrionalmente e seminalmente, ha potuto attecchire e avere la forza di resistere risulta chiaro che nella vita della Chiesa di oggi quello che conta è la vivezza di una fede rinnovata e non un potere derivato da una storia, da una istituzione che si è affermata o da un ordinamento intellettuale teologico. Ciò che conta è realmente che la vita incominciata in Maria e Giuseppe, in Giovanni e Andrea sia come riaccesa nel cuore della gente, e la folla sia aiutata ad un incontro incidente sulla vita così come avvenne alle origini del Cristianesimo (…) Quello che ci si porta via da quei luoghi è il desiderio, lo struggimento, che la gente si accorga di quanto è accaduto. E invece quello che è accaduto sembra sia oggi possibile cancellarlo così come si cancella con un piede una lettera sulla sabbia – una lettera sulla sabbia del mondo. Ma questo avviene proprio perché ciò che è accaduto è una proposta alla libertà dell’uomo e perché sia chiaro che la potenza è di Dio” (pp. 28-29).
Buttiglione: Vorrei formulare, con molta semplicità, due desideri, il primo riparte dal testo di don Giussani. All’inizio della sezione che riporta l’équipe del CLU, c’è un nota bene: “Tutte le volte che in questa sezione ricorre il termine compagnia (o comunità), si vuole identificare una emergenza della Chiesa, la cui autorevolezza è intesa dipendere dalla immanenza al Mistero della Chiesa, nel suo magistero e nella sua sacramentalità” (p. 120). E’ il concetto di articolarizzazione della fede, della presenza di Cristo che permette di farne una opzione reale, come direbbe il cardinale Newman. Credo che sia un nota bene importante: Giussani non l’avrebbe messo se non avesse pensato che fosse utile. Quello che noi viviamo deve essere sempre sentito e vissuto come il rinascere e l’appartenere ad un’avventura che è più grande di noi, che inizia con Cristo e che ha una concretezza che passa attraverso la storia che è fatta di uomini non migliori di noi (qualche volta anche non peggiori) e che fa in modo che sia vero tutto quello che noi facciamo e che noi viviamo. Che si viva fra noi questo sentimento forte, vivo, cordiale della presenza di Cristo in mezzo a noi, perché questo è un’articolazione del grande corpo della Chiesa.
Il secondo desiderio. La forza del Movimento è nell’energia con cui si pone un inizio, e ogni sviluppo è vero se nel porre lo sviluppo si ripone contemporaneamente l’inizio. Dobbiamo avere la fiducia concreta ed esistenziale nella fecondità di questo inizio e nella fecondità di svolgimenti, che implica capacità di offrire, come dice Giussani nel libro, criteri per stare nel mondo, per leggere la realtà. Criteri più veri per agire nel mondo, criteri per giudicare la realtà intorno a noi. Non abbiamo paura che lo svolgimento della fecondità culturale che è immanente nel Movimento ne metta in pericolo l’inizio: lo svolgimento non è una cosa diversa dall’inizio, come un bambino che cresce non è diverso da un bambino appena nato. Non c’è svolgimento vero senza inizio vero, né inizio vero senza svolgimento adeguato che cresce con la persona e ne prende tutte le dimensioni dell’esistenza. Non dobbiamo avere paura della fecondità che Dio ha generato in mezzo a noi, dobbiamo correggerla, come dobbiamo d’altro canto essere corretti dall’autorità della Chiesa, dobbiamo preoccuparci della sua verità e dobbiamo accompagnarla con una simpatia critica, la stessa di cui anche il bambino ha bisogno, di cui il bambino ha diritto per crescere e per diventare adulto, per diventare uomo.
Il bambino ha bisogno di cose apparentemente contrastanti: ha bisogno della legge, del padre che gli dice: “Così non va e se fai ciò che è male sarai punito” e ha bisogno della madre, che gli dice che l’amore per lui è incondizionato e che qualunque cosa lui faccia potrà sempre contare su questo amore. Questa è la dialettica con cui cresce l’uomo, e questo è anche il metodo che Dio ha scelto per far crescere l’uomo, farlo crescere nella famiglia, farlo crescere nella cultura, farlo crescere anche nella Chiesa. Simpatia critica è la capacità di unire questi due momenti, perché sia vero quello che è iniziato, perché crescendo esso possa continuamente rendere testimonianza e rendere grazie al suo inizio, così come io rendo grazie in questo momento a Monsignor Luigi Giussani che, fra gli uomini, per primo, ha iniziato questo cammino di fede in cui è cresciuta la nostra vita.
Savorana: Ringrazio di cuore don Giacomo e Rocco per il gesto e l’esempio di amicizia che oggi ci hanno testimoniato e credo di poterlo fare a nome di tutti voi. Un gesto di amicizia che deve continuare, un entusiasmo positivo, perché è il nuovo inizio di una unità, cioè della possibilità della non estraneità tra gli uomini, che è quello che il mondo cerca, un entusiasmo positivo che non deve essere fermato da nessuna difficoltà, perché lo svolgimento di quell’inizio, la possibilità di quello svolgimento è tutta contenuta nella modalità di quell’inizio: un avvenimento di vita, cioè una storia.
NOTE
(1) Un avvenimento di vita, cioè una storia. Interviste, conversazioni, interventi di monsignor Luigi Giussani a partire da registrazioni, non rivisti dall’autore. A cura di Carmine Di Martino. Presentazione del Cardinale Joseph Ratzinger, Il Sabato, Roma 1993.